La meta-verità: tutti i fake dei censori Usa
IL FLOP DEL MONITORAGGIO FACEBOOK - I danni dei ‘buoni’ Da Hunter Biden alle guerre a Gaza e in Ucraina: lo scrupolo “dem” di ripulire l’informazione ha spesso prodotto disinformazione
DI VIRGINIA DELLA SALA
Mark Zuckerberg ha annunciato che negli Usa abolirà i fact-checking su Facebook e Instagram, probabile preludio a una futura estensione anche altrove. Ha detto che le etichette poste sui contenuti che miravano a mettere in guardia dalle fake news hanno “distrutto più fiducia di quanta ne abbiano creata”. Dal lancio del programma nel 2016, Facebook ha collaborato – a pagamento, ma i contratti sono confidenziali – con oltre 100 fact-checker indipendenti in decine di Paesi, che esaminano notizie dubbie e post virali, contrassegnandoli con avvisi se risultano falsi. Tuttavia si è rivelato per sua ammissione un sistema politicamente troppo parziale, magari in buona fede ma spesso utilizzando due pesi e due misure, per lo più pressato dal controllo democrat.
Biden. Nel 2020, Facebook e Twitter hanno bloccato la diffusione di un articolo del New York Post basato su email trapelate da un portatile di proprietà del figlio Hunter. Inizialmente, Facebook ha ridotto la visibilità delle notizie perché si riteneva che il contesto non fosse chiaro, aggiungendo una nota che diceva: “Se abbiamo segnali che un contenuto è falso, ne riduciamo temporaneamente la distribuzione in attesa della revisione da parte di un fact-checker di terze parti”. Il blocco è stato poi annullato di fronte all’evidenza e Meta ha dovuto ammettere sospetti per una presunta campagna di disinformazione russa. Lo stesso ad di Meta ha ammesso: “Il dossier non era disinformazione russa, non avremmo dovuto sminuire la notizia”. L’ultimo contenuto controverso ha riguardato il video di Biden in Puglia, circolato come prova del suo stato psicofisico compromesso. Fact-checker di tutto il mondo hanno provato a rintracciare manipolazioni, ma anche a guardare le clip integrali, il dubbio restava. E infatti, non sembra essere stato censurato.
Trump. È stato invece Elon Musk, appena acquistato Twitter, a diffondere i cosiddetti “Twitter files”, che svelavano le sistematiche censure sulle notizie scomode per il Partito democratico in funzione anti-Trump. Anche Twitter, con filtri e black list, oscurò su richiesta dello staff di Biden gli scandali di Hunter e i suoi affari con l’Ucraina. Inoltre, nel 2021 Trump fu sospeso a tempo indeterminato da entrambi i social, dopo l’attacco a Capitol Hill, per istigazione alla violenza. In quel caso, il board confermò sì la decisione del social network, ma lo “sgridò” per aver imposto, testualmente, “una sanzione indeterminata e senza standard della sospensione a tempo indeterminato”. Non gli oscurarono la pagina, insomma, ma neanche stabilirono un tempo per la sospensione.
Covid. Zuckerberg ha raccontato al Congresso Usa di aver avuto le maggiori pressioni. Mentre il Covid si diffondeva, Facebook sopprimeva i suggerimenti secondo cui il virus poteva essere una creazione umana, facendo infuriare il New York Post che ne aveva parlato con un articolo di opinione. Mesi dopo un rapporto dell’intelligence Usa del 2023 affermava che le sue agenzie erano state “incapaci di determinare l’origine precisa del Covid-19”. La Cina insisteva sulla falsità dell’ipotesi. Nel dubbio, Facebook revocò il divieto.
Vaccini. Sempre Zuckerberg ha raccontato che durante la pandemia, i funzionari di Biden avevano telefonato ai dirigenti di Meta per “urlare” e “imprecare” chiedendo di rimuovere qualsiasi post antivaccino. Peccato che la moderazione di Facebook abbia talvolta bloccato anche post che cercavano di fornire informazioni utili in materia di salute, dovendo fare spesso marcia indietro. Nel 2021, invece, Meta fu accusata di aver verificato erroneamente un articolo sul vaccino anti-Covid-19. Un rapporto del British Medical Journal denunciava cattive pratiche cliniche di un appaltatore che svolgeva ricerche per Pfizer. Era stata aggiunta un’etichetta sostenendo che la storia era “mancante di contesto” e poteva “fuorviare le persone”. I redattori del BMJ protestarono.
Russia&Ucraina. Due pesi e due misure talvolta anche sulle guerre. L’11 marzo 2021, per dire, mentre partivano nuovi aiuti Usa a Kiev (6 miliardi in armi e 6 per i profughi) Facebook censurava tutti i media statali russi. Lo stesso faceva Twitter. A quel punto il gruppo americano decide di esentare gli utenti Facebook e Instagram di alcuni Paesi dal rispetto dei divieti contro il linguaggio d’odio, purché fosse rivolto contro politici e soldati russi. “A causa dell’invasione russa dell’Ucraina, siamo tolleranti verso forme di espressione politica che normalmente violerebbero le nostre regole sui discorsi violenti come ‘morte agli invasori russi”, aveva detto Andy Stone, capo delle comunicazioni Meta, specificando che però avrebbero continuato a non consentire “appelli credibili alla violenza contro i civili russi”. Circolava invece senza problemi l’allarme su Zaporizhzhia come una catastrofe nucleare tipo Chernobyl “per un miliardo di persone in 40 Paesi” anche se l’Agenzia internazionale per l’energia atomica non rilevò “alcun impatto critico sulla sicurezza”. E questo è il campo di ciò che all’apparenza non pare venga sottoposto a moderazione, come nel caso del dissidente nazionalista Aleksei Navalny, trovato morto nella sua cella nella colonia artica Ik-3. Nonostante il presidente russo sia stato definito “assassino”, non c’è stata traccia di contestualizzazione o contestazione, così come è circolata senza troppi problemi l’ipotesi del “complotto occidentale” per accusare Putin.
Gaza. Da marzo, Instagram ha creato una squadra per moderare i contenuti sulla guerra israelo-palestinese. Peccato che in migliaia da ogni parte del mondo abbiano denunciato l’oscuramento di contenuti filo-Palestina. Al punto che il portavoce di Meta, Andy Stone, aveva dovuto parlare di un “bug generalizzato”. Per fare alcuni esempi: un utente ha fatto ricorso contro la decisione di Meta di lasciare un post su Facebook in cui sosteneva che Hamas aveva avuto origine dalla popolazione di Gaza e rifletteva i loro “desideri più intimi”, paragonandola a un’orda selvaggia”. La società ha dovuto annullare la sua decisione originale e rimuovere il post. Tempo dopo, un giornalista ha fatto ricorso contro la rimozione del suo post che parlava di una intervista ad Abdel Aziz Al-Rantisi, un cofondatore di Hamas. “Questo caso evidenzia un problema ricorrente nell’applicazione eccessiva della politica aziendale sulle organizzazioni e gli individui pericolosi, in particolare per quanto riguarda i post neutrali”, recitava la decisione presa dal Consiglio di revisione.
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