Le scommesse come bene di consumo
DI MICHELE SERRA
La mite sentenza della giustizia sportiva sul ragazzo Nicolò Fagioli, di anni ventidue, stella nascente della Juventus, mi trova consenziente. Solo dodici mesi di squalifica, dei quali cinque assegnati a “pene alternative”, in parole povere andare nelle scuole (anche le scuole calcio) a spiegare quanto si può essere deboli e cretini, nella vita, anche quando si ha tutto. Stagione finita, calcisticamente parlando, ma alla sua età Fagioli avrà tutto il tempo per rifarsi. Anche per rifarsi un’opinione meno distratta, e meno squallida, sul valore dei soldi, e sulla fatica che le persone comuni fanno per mettere insieme quanto basta per vivere.
Sono contento anche per suo papà, del quale ho letto una bella intervista, dispiaciuta e civile. Penso sempre, in casi come questi, a cosa avrebbe scritto Gianni Mura, che mi manca, da lettore, come il faro manca al navigante. Magari avrebbe detto che in un mondo nel quale, e del quale, il gioco d’azzardo legale è uno dei motori economici (non si può vedere una partita, nei canali dedicati, senza sorbirsi quintali di pubblicità delle scommesse), certe inibizioni etiche e culturali sono destinate a scomparire. Ed è ipocrita, poi, lamentarsene. Fior di campioni fanno pubblicità al “bet” (le chiamassero almeno scommesse) come se si trattasse di formaggi o biscotti o automobili. Un genere di consumo come un altro, e chi se ne frega se ci sono persone che si rovinano la vita, e famiglie distrutte, per una patologia che si chiama ludopatia.
So bene che ci sono scommesse legali e illegali, quelle “in chiaro” e quelle sommerse nel nero malavitoso. Ma insomma, a conti fatti, non sono solo Fagioli, Tonali e Zaniolo a doversi fare delle domande.
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