La Brianza non è il Louvre
DI MICHELE SERRA
La favolosa, incredibile storia della quadreria di Arcore, il capannone nel quale Silvio Berlusconi ha ammassato, con smania micidiale, circa 25 mila opere d’arte, e anche nond’arte, è la parabola perfetta di un’epoca – la nostra – che sta metodicamente tentando di abolire la differenza tra qualità e quantità.
Nell’illusione che la seconda, la quantità, possa rendere ininfluente la prima, la qualità, e che ammassando ricchezze, o beni di consumo, o clienti, o clic, o popolarità, ci si possa esimere da quell’implacabile vaglio che separa (o prova a farlo) il bello dal brutto, l’unico dal dozzinale, il significativo dal banale, eccetera.
D’accordo, quel vaglio è spesso soggettivo e precario (si litiga da secoli, sul bello e sul brutto). È una prova difficile per tutti. Ma pensare di poterlo seppellire sotto 25 mila croste, tra le quali, probabilmente per errore, pare ci sia anche qualche opera degna di nota, è tipicamente ingenuo e tipicamente incolto: la cultura non si compera, si frequenta, e il valore delle cose non è solo una cifra seguita da un pugno di zeri. Non è il numero delle opere a fare la pinacoteca, è lo sguardo del collezionista o del curatore. 25 mila quadri possono essere il Louvre e possono essere un deposito di croste.
Ogni erede conosce l’incertezza, a volte il faticoso imbarazzo, di fronte agli oggetti che sopravvivono, a volte minacciosamente, allo scomparso. Si vocifera che gli eredi Berlusconi sostino attorno alla catasta di quadri con un cerino in mano. Coraggio: ancora un passo ed è fatta. Potete contare sulla nostra omertà.
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