Pensioni. La solita moda di usare i figli per picchiare i padri e i nonni
di Alessandro Robecchi
Colpo di scena, tornano di moda i giovani. Non stupisce più di tanto, è una cosa che succede periodicamente quando si tratta di penalizzare i vecchi, e quindi si attua il facile barbatrucco di mettere generazioni contro generazioni, segnatamente quando si parla di pensioni e previdenza. Traduco: siccome le pensioni ci costano un bel po’ e data l’incapacità di chiedere qualche soldo ai nuovi ricchi (un milione e mezzo i neo-milionari italiani, cresciuti del 20 per cento durante l’età d’oro – per loro – del Covid), ecco che si indicano ai giovani i diritti dei vecchi additandoli come odiosi privilegi.
È un trucchetto antico come il mondo, che funziona sempre e che ha come unico effetto collaterale di rivelare la statura etica, morale e politica di chi lo conduce: poca cosa. Non mi addentrerò qui nel vortice attuale dei numeri e nel gorgo che si legge in giro: quota 102, no, 104, no Fornero forever, eccetera eccetera, e mi limiterò all’uso strumentale del giovane in quanto sfigato storico di riferimento, funzionale al dibattito, feticcio utile alla causa draghian-confindustriale. Un po’ occultati e nascosti sotto il tappeto (quando non se ne parla per dire che sono tutti scemi), i famosi giovani vengono buoni adesso per dire che loro probabilmente le pensioni non le vedranno, o le avranno sotto la soglia di una decente sussistenza. E si capisce: calcolandole col retributivo secco, e avendo fino alla mezza età lavori intermittenti e stipendi da fame, dall’Inps prenderanno due cipolle e un pomodoro. Da qui, dritta come una freccia, ecco la pressione sulle trattative per la previdenza di genitori e nonni: è colpa loro e della loro avidità se chi ha vent’anni oggi farà la fame domani. E giù interviste, pareri, interventi, per dire che il sistema è iniquo e penalizza le nuove generazioni (mentre i pensionati anziani, si sa, nuotano nell’oro). Naturalmente essendo le basse paghe e il precariato ad libitum a penalizzare eventuali pensioni dei giovani, bisognerebbe intervenire su quei punti: meno contratti fantasiosi, meno stage e tirocini, più stipendi veri, magari un salario minimo che finisca per rasentare la decenza. Invece, su quel versante, niente, mentre si spinge sul pedale della guerra tra generazioni, mettendo figli contro padri, cioè i futuri poveracci contro i “privilegiati” che dopo aver lavorato una vita prendono (addirittura!) la pensione.
Il trucchetto ha il suo fascino, e a volte funziona. A pensarci, è quello su cui basa la sua propaganda anti-immigrati Matteo Salvini che tuona “prima gli italiani”, cioè invita i penultimi (gli italiani poveri) a odiare gli ultimi (i migranti). Altro caso di scuola, la narrazione renzista che portò all’abolizione dell’articolo 18. Siccome moltissimi non l’avevano, invece di darlo anche a loro si additò chi ne usufruiva come egoista e privilegiato. Anche allora i giornali erano pieni di giovani che dicevano: io, precario, l’articolo 18 non lo avrò mai, e allora perché deve averlo un metalmeccanico? Il meccanismo culturale che sovrintende il “ridisegno” del sistema pensionistico è esattamente lo stesso: lasciare una moltitudine senza diritti e poi – fase due – additare chi i diritti ancora ce li ha come un pescecane profittatore. Questo il desolante quadro del dibattito: trasferire la guerra ai piani bassi della società, mentre ai piani alti si stappa e si festeggia la ripresa “oltre le previsioni”. Siamo sempre lì: un Monti, un Renzi, un Draghi, la stessa sostanza di cui sono fatti gli interessi dei ricchi.
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