sabato 4 maggio 2019

È così che si scrive!


sabato 04/05/2019
I finti tonti

di Marco Travaglio

“Ma l’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”. Nulla di meglio di questo verso di Lucio Dalla per descrivere le reazioni al discorso – normalissimo e dunque eccezionalissimo – di Giuseppe Conte sul sottosegretario Armando Siri. Sia quelle, positive, di tanti commentatori del web che si congratulano con il premier sinceramente stupiti per averlo sentito pronunciare parole mai dette prima da un premier, almeno negli ultimi trent’anni. Sia quelle, negative, dello stesso Siri, di Salvini, dei suoi gemelli berlusconiani e dell’ampia corte che circonda il Cazzaro Verde: una corte che va ben oltre i confini della Lega e del centrodestra, e abbraccia anche i rosiconi di centrosinistra che non vogliono dare atto a Conte di non essere il burattino che descrivevano e di aver fatto una cosa giusta. L’altra sera, per dire, auscultato solennemente a Piazza Pulita come l’Oracolo della Pizia di Delfi, quel simpatico furbacchione di Sabino Cassese spiegava che non si vede perché Siri debba lasciare il governo visto che è “soltanto indagato”: cioè fingeva di non capire che il premier ha cacciato Siri non in quanto inquisito, ma in quanto marchettaro, cioè postino di una norma ad aziendam per favorire Arata e il suo socio occulto Nicastri (pregiudicato per corruzione e imputato per mafia). E le stesse cose scriveva ieri sul Messaggero quell’altra lenza di Carlo Nordio, pm per fortuna in pensione, facendo anche lui il finto tonto, concentrandosi sull’indagine penale anziché sul conflitto d’interessi e sproloquiando di “presunzione di innocenza” e “giacobinismo”.

Un cumulo di corbellerie che riescono addirittura a superare quelle uscite dalla bocca di Siri, altro finto tonto di cui il Corriere ha raccolto lo sfogo post-licenziamento: “Non mi possono usare come carne da macello per la campagna elettorale delle Europee”, “resto al mio posto perché sono convinto di poter dimostrare la mia totale innocenza”, “la flat tax l’ho inventata io e non è ammissibile che adesso venga scaricato così”, “tutto questo giustizialismo alla fine si ritorcerà contro Conte” e via delirando. Non male anche Claudio Tito che, su Repubblica, ne deduce che il governo “si poggia su una contraddittoria intesa tra nemici” che “litigano costantemente perché non sono d’accordo su niente”: non male per chi ha passato 11 mesi a raccontarci che 5Stelle e Lega sono la stessa cosa, “le due destre” unite in un solo “esplosivo laboratorio populista”, dunque guai se il Pd si lascia infettare dal contagio nero-grillino. Uno legge e ascolta tutti questi sproloqui e una domanda gli sorge spontanea.

Ma che c’è di strano se il premier non si fida più di un sottosegretario (per giunta ai Trasporti, non all’Ambiente) che per otto mesi è andato in giro per ministeri e commissioni parlamentari a vendere un emendamento-marchetta commissionatogli da un suo compare, per giunta spacciandolo per un nobile aiuto alla green economy? Se l’ha fatto gratis, è in conflitto d’interessi. Se s’è fatto pagare o promettere tangenti, è pure un corrotto. Ma, anche se fosse archiviato o prosciolto dai giudici, il conflitto d’interessi resterebbe grande come una casa. Dunque Siri non potrebbe rientrare al governo neppure allora. Mentre questi onanisti del nulla menano scandalo per un fatto assolutamente normale in qualunque democrazia, la premier britannica Theresa May caccia su due piedi non un sottosegretario qualunque, ma il potentissimo ministro della Difesa a cui deve la sua carriera politica: Gavin Williamson. E non perché sia certa che abbia fatto qualcosa di male, ma perché lo sospetta di avere spifferato al Daily Telegraph le decisioni assunte a porte chiuse dal Consiglio per la Sicurezza Nazionale sul ruolo del colosso cinese Huawei nel progetto 5G in Gran Bretagna. Contro Williamson non ci sono indagini penali né prove: solo una telefonata, dopo la riunione, fra il ministro e un giornalista, di cui si ignora il contenuto. E se Williamson avesse risposto al cronista di non potergli rivelare ciò che si era deciso? È quel che sostiene lui, affermando di essere stato incastrato da un rivale interno ai Tory e che il vero spifferatore è ancora da scoprire. Ma la premier è stata irremovibile: perché non si fida più di lui e perché, con un sospetto così grave, rischiano di non fidarsi più di lei e del suo governo i cittadini di Sua Maestà.

Intanto l’ex vicepresidente Usa Joe Biden, ora ricandidato alla Casa Bianca, chiedeva le dimissioni del ministro della Giustizia William Barr per le sue reticenze, omissioni o bugie sul Russiagate e il rapporto Mueller: neppure Barr è indagato per alcunché, eppure rischia il posto, anche per aver rifiutato di riferire per la seconda volta alla commissione parlamentare. Dunque, secondo Biden e tutti i democratici, “ha perso la fiducia del popolo americano”. Sono le stesse ragioni enunciate da Conte per spiegare, a prescindere dall’indagine penale, la rimozione forzata di Siri: “I cittadini devono continuare a fidarsi della politica e delle istituzioni” e di chi tenta di piazzare marchette per gli interessi privati di un amico non può fidarsi né il premier, né gli altri ministri, né l’opinione pubblica. Ma esiste, in Italia, l’opinione pubblica? A giudicare da chi dovrebbe informarla e formarla, si direbbe di no: è tutta una guerra per bande. Il trionfo del Partito Preso descritto l’altro giorno da Antonio Padellaro. Il Partito Preso che se ne infischia dei fatti e giudica tutto secondo le convenienze di amici o nemici. Chi ripeteva a pappagallo che Salvini è il padrone del governo e Conte è una marionetta priva di vita e personalità propria, ora che arriva l’ennesima smentita preferisce sorvolare, per non ammettere di aver mentito. Sennò poi, magari, gli tocca pure cambiare idea.

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