mercoledì 1 maggio 2019

Biblico!


mercoledì 01/05/2019
Franza e Spagna

di Marco Travaglio

Afuria di guardarci l’ombelico e attendere l’Apocalisse (che pare un’altra volta rimandata, dopo i dati di ieri su Pil e occupazione), rischiamo di perdere di vista ciò che accade attorno a noi. In Spagna vince il centrosinistra tradizionale ed europeista, il Psoe (anche se non ha i numeri per governare da solo), perché fa o promette l’opposto delle politiche del suo omologo italiano e dell’austerità europea: patrimoniale dell’1% sulle rendite oltre 10 milioni, aumento dell’Irpef locale per i più ricchi (+2% per redditi superiori ai 13 mila euro e +4% per gli over 300 mila), Tobin tax dello 0,2% sulle transazioni finanziarie delle imprese sopra il miliardo di capitale, “tassa digitale” per le multinazionali del web, aumenti alle pensioni e al salario minimo (lì ne hanno uno) da 735 a 900 euro al mese, misure per le fasce più deboli come i bonus sulla bolletta dell’elettricità, impegno a demolire la controriforma del lavoro del 2012 (il Jobs Act spagnolo, realizzato però dal centrodestra, non dal centrosinistra), riduzione delle tasse universitarie, lotta all’evasione, politiche per la casa e per l’ambiente, incentivi alle auto elettriche e alle energie rinnovabili, aumento del 6,7% dei fondi per la ricerca. Il tutto coperto con gli aumenti di imposte ai ricchi, con la lotta all’evasione e lo sforamento del deficit concordato da Rajoy con l’Ue per il 2019 (non più 1,3%, ma 1,8%).

In Francia, per sopravvivere alla morsa piazze-Le Pen (di nuovo prima nei sondaggi), l’idolo degli europeisti acritici Emmanuel Macron arriva a dichiarare che quelle dei Gilet gialli sono “giuste rivendicazioni” e lui ha sbagliato a “sottovalutarle”. E si impegna ad allargare la democrazia diretta, a introdurre una quota proporzionale del 20% nell’Assemblea nazionale, a varare un piano ecologico partecipato, a non alzare l’età pensionabile (oggi a 62 anni), a indicizzare le pensioni sotto i 2 mila euro netti all’inflazione, a garantire un reddito universale ai poveri, a ridurre le tasse sul ceto medio e perfino a riformare drasticamente l’Ena, la scuola di amministrazione ritenuta troppo elitaria. Nel nostro povero Paese, chiunque osi dire o fare cose del genere viene bollato come “grillino” o “comunista” o “populista”, “nemico delle imprese”, “del Pil” e della “crescita”, anche se l’unico grande Paese europeo che cresce – la Spagna – lo fa esattamente con quella ricetta: lotta alle diseguaglianze, redistribuzione della ricchezza, aiuti alle classi sociali sterminate dalla crisi finanziaria, dal ceto medio ai precari, dai vecchi ai nuovi poveri. Una ricetta molto più simile al contratto giallo-verde che alle “riforme” montiane e renziane.

Per sconfiggere l’ondata di destra nazionalista che i poveretti chiamano fascismo o populismo o sovranismo, si fa così. Eppure, incredibilmente, il fu partito della sinistra detto Pd continua a biascicare fumisterie e ambiguità, candidando tutto e il contrario di tutto (da Pisapia a Calenda, e per fortuna Mimmo Lucano ha rifiutato, altrimenti ci sarebbe anche lui nell’Armata Brancaleone), a pasticciare con Miccichè (Miccichè!) in Sicilia e a inseguire un macronismo ormai sconfessato pure da Macron. L’unico dibattito che anima questi onanisti del nulla è il sì o no ai 5Stelle: i quali non esisterebbero proprio, se chi doveva fare la sinistra in questi ultimi vent’anni avesse fatto la sinistra, mentre la destra faceva benissimo la destra. E, ora che esistono, sono gli alleati naturali di una sinistra che faccia finalmente la sinistra. Certo, Pd e M5S se ne son dette e fatte di tutti i colori. I 5Stelle nel 2013 rifiutarono l’appoggio esterno a Bersani, poi il Pd rifiutò l’offerta di Grillo di votare Rodotà al Quirinale per poi governare insieme (preferirono B. e il Napolitano bis) e l’anno scorso respinse il contratto di governo proposto da Di Maio per salire sull’Aventino e godersi i pop corn, il rutto libero e la resistibile ascesa di Salvini. E ora continuano a rinfacciarsi i rispettivi errori come i bambini dell’asilo.

Avrebbero potuto farlo anche Pedro Sánchez, premier del Psoe, e Pablo Iglesias, leader di Podemos. Ancora nel marzo 2016, quando Sánchez gli chiese di appoggiare un governo coi centristi di Ciudadanos, Iglesias gli diede del “servo delle oligarchie e dei poteri forti” e lo iscrisse d’ufficio “ai consigli di amministrazione, al traffico di influenze e alle élite finanziarie”, sfidandolo a “togliere dal nome del partito la S e la O” (di “socialista” e “operaio”). L’altro replicò definendo Podemos “l’àncora di salvezza del Partito popolare”. Infatti Iglesias votò col Pp contro il governo Sánchez e rispedì la Spagna alle urne. Che produssero un nuovo governo Rajoy, grazie all’astensione decisiva del Psoe. Ma non impedirono il riavvicinamento fra le due sinistre nel 2018, col governo Sánchez appoggiato dall’esterno da Podemos, protagonista della “legge di Bilancio più di sinistra della storia”. I due la chiamarono “Manovra per uno Stato sociale”, con un preambolo simile a un manifesto politico: “I cittadini e le cittadine di questo Paese hanno visto crescere in questi anni le disuguaglianze, la povertà e la precarietà, mentre si riducevano gli investimenti nel Welfare… La maggioranza degli spagnoli si è impoverita mentre si privilegiava una minoranza: con la scusa della crisi si è portata avanti un’austerità a oltranza, esclusivamente sulla riduzione del debito pubblico”. La manovra fu bocciata dai catalani, che fecero cadere il governo. Ma ora viene premiata dagli elettori. E di lì ripartirà Sánchez con l’appoggio esterno o interno di Podemos. Chissà se qualcuno, nel Pd, se n’è accorto. Invece di litigare pro o contro l’alleanza col M5S, basta guardarsi intorno. Domandarsi che cosa vuol essere e deve fare oggi un centrosinistra. E darsi una risposta. Se sarà quella giusta, le alleanze verranno da sole.

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