Non in mio nome. Dalla Casa Bianca a Gaza: una lezione sul colonialismo
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Mentre scrivo questa piccola rubrica, tutto è in bilico, tutto poggia su precarissimi equilibri, tutto traballa minacciosamente. L’imposizione di una resa incondizionata al popolo palestinese, che trasformerebbe Gaza in una specie di protettorato occidentale in attesa di affidarla a qualche arabo amico – un giorno, chissà – ma circondata dall’esercito genocida di Israele, tanto per ricordare chi comanda, è il perfetto esito di un disegno coloniale. Come nell’Ottocento, gli imperatori di turno disegnano confini e poteri su un foglietto e chiamano “pace” il loro deserto. Il resto lo fa quella malattia perenne e un po’ ripugnante che si chiama Realpolitik: la conquista occidentale di Gaza, governata da Trump e Tony Blair (!), terreno di conquista per le grandi imprese della ricostruzione, con il popolo prigioniero e martoriato nemmeno consultato, in fondo, fa piacere un po’ a tutti. Trump rafforza i suoi dobermann a guardia del Medio Oriente, premiando di fatto un genocidio, Netanyahu si divincola dai suoi guai giudiziari e rischia addirittura di passare per uomo di pace, l’Europa si toglie un pensiero seccante e potrà mantenere tutti i suoi affari con uno Stato terrorista che ha assassinato deliberatamente più o meno centomila civili. Il tutto sotto la minaccia di proseguire con la soluzione finale: se con questa pistola puntata alla tempia non si accetterà l’accordo (sì, lo chiamano accordo), Netanyahu avrà mano libera (“finire il lavoro”, ndr), che significa altre migliaia di palestinesi uccisi, affamati, privati di qualsiasi diritto e dignità.
È presto per dire se tutto andrà come desidera l’imperatore, ma intanto il disegno c’è, e già si registrano numerosi consensi, perché se c’è una cosa che l’Occidente sa fare (compresa l’informazione) è vedere il mondo soltanto con i suoi occhi: noi civili e ragionevoli, bianchi, benestanti; gli altri barbari e terroristi. Se va bene faranno i camerieri e i domestici nella loro terra, che sarà governata da noi, per il loro bene, s’intende.
Si precisa in questo modo tutto ciò che il genocidio è stato: una mossa di conquista coloniale che solo i ciechi potevano non vedere. O i sordi, visto che il governo invasore lo ha detto in tutte le lingue, mostrando mappe della Grande Israele all’Onu, cucendo una cartina “dal fiume al mare” sulle uniformi dell’esercito genocida, dichiarando senza vergogna (molti ministri israeliani e molti ultras sionisti in giro per il mondo) che l’obiettivo è la soluzione finale del popolo palestinese tramite deportazione o sterminio (sulla Cisgiordania nemmeno una parola).
Resta, a parzialissima consolazione, che in questa vicenda di conquista e colonie, i popoli sembrano un po’ meglio di chi li governa. Il moto collettivo di repulsione di fronte a un genocidio, le mobilitazioni dal basso, il sincero ribrezzo per chi ha eseguito il peggior massacro della storia recente, e quindi per chi ha fornito sostegno, armi, copertura politica e informazione amica, per l’Europa paracula, per il negazionismo dei complici è piuttosto massiccio. Una buona notizia e una cattiva. La buona è che molti, moltissimi, restano umani, la cattiva è che non avranno rappresentanza politica, che assisteranno ancora una volta al balletto vergognoso di chi pensa a cosa conviene e non a cosa è giusto. Insomma sono tanti – bene – ma sono soli, e forse è bene anche questo, perché l’Impero conviene all’Impero, ma svegliarsi ogni mattina pensando “Io non sono complice di tutto questo” conta ancora qualcosa.
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