mercoledì 21 febbraio 2024

Un gran Rumiz!

 

Navalny, è anche colpa nostra
DI PAOLO RUMIZ
Ora tutti piangono Navalny. Fanno fiaccolate per lui e sgomitano per mostrare in tv la loro condanna di Putin. Temo non abbiano la più pallida idea di essere indirettamente corresponsabili di quella morte, sottovalutando per conformismo le poche, coraggiose voci libere che durante la guerra in Ucraina si levavano nell’impero moscovita. Temo si siano dimenticati di aver creduto che l’intero popolo russo fosse complice di un dittatore. Una semplificazione di comodo.
Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, la polizia delle Repubbliche baltiche rende impossibile la vita ai giornalisti espatriati per sfuggire alla censura moscovita e straccia unilateralmente i visti d’ingresso nella Ue concessi dalle università occidentali agli intellettuali dell’opposizione russa. I conti bancari di coloro che sono fuggiti dall’inferno sono bloccati. Gli intellettuali russi alternativi sono spesso banditi dalle nostre tv. Oppure, per accedervi, hanno dovuto scusarsi di essere russi.
Siamo di fronte alla tragedia di un popolo intero schiacciato tra due violazioni del diritto. La nostra e quella moscovita. Perché i Russi sono cattivi, che diamine: il megafono mediatico dell’Alleanza atlantica ci ha imbottito le menti con questa infantile stupidaggine e noi l’abbiamo ripetuta a pappagallo, accusando di complicità con Putin chiunque in Italia non fosse d’accordo con il teorema di cui sopra.
Per servilismo, abbiamo bandito Dostoevskij e abbiamo lasciato abbattere la statua di Puskin a Kiev e togliere gli autori russi dalle antologie scolastiche ucraine. Guai far sapere che esistono russi buoni. Meglio che la loro voce non compaia.
Navalny lo abbiamo ammazzato anche noi europei, inseguendo una visione manichea che non appartiene al nostro mondo.
L’America stessa, di fronte alla notizia, si è mossa con goffaggine e incoerenza. Trump barcolla: prima invita la Russia a invadere l’Europa, poi evita di accusare Putin e infine si dichiara vittima come Navalny. Lo smemorato Biden protesta senza far nulla, e intanto costringe Julian Assange — anima gemella di Navalny — all’esilio sorvegliato inInghilterra.
E la storia, dopo la prima ondata di emozione, sta già per essere catturata dal pantano dell’indifferenza e dell’oblio. Notizie enormi come questa sono destinate ad affogare nel frastuono dei notiziari e dei social per essere rapidamente dimenticate.
Il mondo va avanti. I ricchi si arricchiscono, discettano a Davos sui destini del mondo, e degli Altri chi se ne importa. Cadono bombe sulle navi nel Mar Rosso, i noli delle navi aumentano del 30 per cento e gli armatori brindano a champagne.
L’altezza dei bimbi inglesi continua a calare per malnutrizione. Un iceberg grande come l’Islanda si stacca dal Polo e punta sulle Svalbard. A Boston la General Electric ottiene un contratto da cinque miliardi per forniture di armi all’Ucraina.
In questo frastuono che disorienta, l’appello di Yulia Navalnaya mi ha fatto vergognare come europeo. L’ho ascoltato in silenzio, come ottant’anni fa si ascoltava Radio Londra. Le parole di lei cadevano come pietre su lle nostre coscienze. Yulia non parlava solo ai russi ma a tutto il mondo libero.
«E voi, non condividete con me la pena, ma la rabbia e l’odio per quelli che distruggono il nostro futuro». Quando ho sentito questa frase, pronunciata con la forza e la grazia della lingua di Puskin, ho capito di essere davanti alla Russia eterna, quella che non abbiamo saputo vedere.
La Russia resistente delle donne, il Paese di Anna Politkovskaja, uccisa per aver svelato i crimini di Putin in Cecenia.
Ho riconosciuto in lei la forza di un popolo oppresso capace di benedire lo straniero consegnandogli pane, sale e pesce secco nel segno della Croce. In quella donna parlava la terra di Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Svetlana Aleksjevi?. O di Nadežda Mandel’štam, che conservò, imparandole a memoria, le poesie proibite del marito, mandato a morire in Siberia.
Triste concludere che in questo nostro Occidente non esistono figure capaci, come lei, di trasformare in luce anche l’ora più buia.

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