mercoledì 5 luglio 2023

Robecchi

 

Avanspettacolo e noia. Il marketing dello “sgarbismo” ormai ha stufato
di Alessandro Robecchi
Chissà se un giorno potremo finalmente occuparci dei meravigliosi e popolarissimi danni operati sul tessuto culturale del Paese di un antico elettrodomestico novecentesco chiamato “televisione”, una cosa che ha prodotto alfabetizzazione e cultura, certo, ma che ha prodotto anche Sgarbi, per dirne uno, e quindi è lecito pensare che forse non tutto è andato per il verso giusto. Con grande
divertimento
si leggono oggi cronache e ricostruzioni e critiche sull’ultima performance del vetusto showman, liso e prevedibile come una gag dell’avanspettacolo. Chi tira di qua, chi tira di là, chi pigola un po’ ridicolo “Perché lo fai, Vittorio?” (spoiler: lo fa da trent’anni e passa), chi ne sottolinea la spudorata impunità, chi ne condanna la volgarità, come se potesse esistere uno Sgarbi senza volgarità, figurarsi.
E dunque prendersela con lui non ha molto senso: costruito dalla tivù e per la tivù, Sgarbi incarna quella tendenza all’iperrealismo che serve per brillare sullo schermo: nessuna realtà è abbastanza reale, bisogna “pettinarla”, come dicono quelli del mestiere. Se hai una storia devi esagerarla, se hai un personaggio deve debordare. E dunque risultano sempre un po’ ridicole le scuse e le giustificazioni del giorno dopo: se inviti Sgarbi avrai quella cosa lì, se inviti un mangiafuoco sporcherà tutto di benzina, se inviti un gregge di pecore sai che poi dovrai spazzare per bene lo studio. E non deve ingannare che l’ultimo gettonatissimo show si sia svolto in un museo anziché in televisione: la logica è quella, e da tempo ha debordato dall’etere per tracimare nella società.
Naturalmente non si tratta di Sgarbi, che usiamo qui come esempio di scuola. Si tratta piuttosto di una costante opera di malintesa provocazione, un “épater le bourgeois”, dove “le bourgeois” non si scandalizza per niente, anzi si fa una risata, perché conosce il meccanismo, e si incantano invece le masse poco scolarizzate che apprezzano chi urla di più e chi dice “cazzo”. E in soprammercato cascano come polli nella trappola della “competenza” in altri campi. In un Paese così ricco di capolavori, per esempio, pochi sanno guardare un Caravaggio, pochi sanno vedere le magie di un Giotto, e così ecco che quando arriva uno che te li spiega (che te li spiegava) come farebbe un onesto professore di Storia dell’arte, né bravo né cattivo, né più né meno, sembra che arrivi la scienza infusa.
Sgarbi dunque non è Sgarbi, sarebbe troppo semplice. Egli è piuttosto il suo posizionamento, meditato e calcolato, sulla platea pubblica: la trovata furbetta che in una discussione quasi sempre paludata e prudente, tendente al monocorde, se arriva uno che dà fuori di matto lo noteremo tutti, lo chiameranno ancora. Questo prima che la recita diventasse così scontata e già vista, prima di rivelarsi per quello che è: un semplice certificato di esistenza in vita. E la prova è che, se togli gli insulti, le diffamazioni sparse, le volgarità da bar, di quello che dice Sgarbi non si ricorda nessuno, non resta un concetto, una teoria, una tesi: quel che dice Sgarbi è l’immagine di Sgarbi, tutto lì. Non è molto.
Marketing, dunque. Posizionamento del prodotto sugli scaffali, vernicetta accattivante, confezione (che fu) innovativa, coperta e protetta però da ruoli istituzionali, sindaco di questo e di quello, sottosegretario, deputato, insomma impunito e impunibile. E superato da se stesso, perché ormai non è Sgarbi che fa ridere, ma il finto pentimento del giorno dopo: non dovevamo invitarlo. Fino alla prossima volta. Che noia.

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