Banca ’Ndrangheta
DI ALESSIA CANDITO E GIULIANO FOSCHINI
L’ultimo dato, per necessità approssimativo e probabilmente approssimato per difetto, arriva dall’Eurispes. Il giro d’affari delle mafie, stimano dall’istituto, è di 130 miliardi di euro l’anno. Un terzo, 40 circa, li muove soltanto la ‘ndrangheta. Per intenderci, è quattro volte il valore dell’ultima manovra Finanziaria. Dieci volte i fondi che il Governo vorrebbe impiegare per la realizzazione del ponte sullo stretto. È una cifra, il capitale di Mafia spa, che metterebbe in ordine i conti del nostro Stato. E il futuro di centinaia di migliaia di famiglie. E invece sono soldi infetti che esistono eppure non ci sono. Se non per pochissimi.
La maggior parte del capitale della società per azioni gestita dalla criminalità organizzata arriva dalla droga, sequestrata a tonnellate. Altri, gli spicci, dalle attività sul territorio, piccoli e grandi appalti o investimenti, che finiscono spesso per intercettare anche fondi pubblici. Ma da anni, ormai, inchieste e indagini puntano sulla finanza — legale, paralegale e clandestina — come vera autostrada dei soldi di mafia, a partire da quelli della coca. Per dire: i carichi regolarmente sequestrati sono centinaia eppure non è mai stata intercettata un’operazione di pagamento. Dov’è quel denaro?
Alcune tracce esistono. Nel 2017, gli investigatori che lo intercettano sentono Domenico Pelle, rampollo dello storico casato di ‘ndrangheta, lamentarsi dell’arretratezza dei narcos brasiliani che ancora non vogliono farsi pagare in bitcoin. Dove? A San Luca, un paio di migliaia di anime in mezzo all’Aspromonte. Passa qualche anno e sempre lì la procura antimafia di Reggio Calabria individua un circuito di pagamento clandestino, molto simile al sistema hawala — una sorta di money transfer informale, in grado però di spostare miliardi di euro nel giro di pochi secondi — gestito dalla criminalità cinese, capace di ritirare materialmente enormi somme di denaro e renderle subito disponibili dall’altra parte del globo. Esempi, a cui si aggiunge l’allarme solo un anno fa arrivato dal Cesi, che ha segnalato il sempre più frequente utilizzo dei “monero” — una delle criptovalute più difficilmente intercettabili — da parte dei clan. Ulteriori segnali d’allarme poi arrivano dalla nuova frontiera delle “cripto”, quei mixer o tumbler che alzano una cortina fumogena sulle blockchain d’origine. Ma sono transazioni che si ipotizzano, si immaginano. Uno di quei flussi — che si sappia — non è stato intercettato mai.
«Sono soldi che in Italia non rientrano, anzi non lo hanno mai fatto ». La confessione è di un vecchio dissociato di ‘ndrangheta, che dopo una breve esperienza da collaboratore si è ritirato ai margini. Ma sa. E di soldi ne ha maneggiati tanti. «Li spostavamo a bancali», racconta a Repubblica . «Erano gli anni Novanta, a Milano i calabresi raffinavano eroina e io la facevo bianca, perché la mandavamo in America e lì la crown non piaceva. I narcos mi mandavano tre chili di coca per un chilo di eroina». Significava soldi, a palate. «Fai conto che facevamo 100-120 chili al mese, la vendevamo a 65-70 milioni al chilo». Erano gli inizi, poi è arrivata la coca. A tonnellate. «L’obiettivo era prendere in mano Milano, perché era il centro economico dell’Italia, quindi di riflesso ci si prendeva tutta l’Italia e si creava il ponte con l’estero, sia in entrata che in uscita». Da allora sono passati trent’anni. Il business non si è mai interrotto. Dove sono questi soldi? È il tesoro dei clan che da sempre si cerca.
«Non servono tutti in Italia — svela il vecchio ‘ndranghetista aRepubblica — È come regalarli allo Stato. Se la mia famiglia in un anno spende un milione, non è necessario averne dieci perché avrei difficoltà a tenerli in casa, in banca, metterei in allarme la magistratura, le forze dell’ordine, gli organi di controllo». E quindi rimangono fuori. «In conti esteri, in paradisi fiscali o investiti anche in Sud America stesso, in grandi catene di alberghi, in banche». Tutte, spiega, le più grandi. «Io ci ho lavorato lì. Sono ancora oggi consulente finanziario di uno di quegli istituti», confida.
L’inchiesta Glicine
L’ultima indagine da cui questo racconto parte è l’ultimo lavoro della
Cosa e quanto sia effettivamente vero, è difficile da verificare. Meglio: impossibile. Ma di certo l’ex uomo dei clan parla di istituti bancari che nella storia delle inchieste di mafia tornano fin dagli anni Novanta, quando l’indagine della procura di Locri “Europa 1” ha svelato come la ‘ndrangheta abbia fatto shopping di fabbriche, immobili, terreni, casinò e catene di alberghi nei Paesi dell’ex Unione sovietica prima del crollo del muro «con la complicità — scrivono il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri e lo studioso Antonio Nicaso — di “nomi” sparsi in ovattati istituti di credito svizzeri, lussemburghesi e austriaci, tramite banche del calibro del Crédit Lyonnaise e della Deutsche Bank». Anni dopo, l’operazione “Artù” ha intercettato negoziazioni con banche nazionali e internazionali per la monetizzazione di un certificato di deposito da 870 milioni di dollari emesso da Credit Suisse e intestato al dittatore indonesiano Sukarno. Più di recente, un’informativa della Mobile di Palmi, finita dentro il procedimento “Euphemos 2” della procura di Reggio Calabria, ha raccontato le scorribande finanziarie di Roberto Recordare — mai oggetto di misura cautelare — per almeno un anno seguito dagli investigatori mentre carambola fra Malesia, Tagikistan, Turchia, Tunisia, Danimarca nel tentativo di monetizzare bond miliardari.
Sono solo alcuni dei tanti esempi possibili. Però tutti mostrano un problema strutturale per i clan: i capitali sporchi per essere utilizzati devono essere lavati e questo succede — ormai innumerevoli indagini lo dimostrano — grazie alla complicità non solo di singoli bank officer infedeli, ma di interi sistemi finanziari che di quella liquidità hanno bisogno. E diventa un’arma.
In pancia a istituti di credito, finanziarie, società di investimenti, quel denaro inizia una nuova vita. Matura interessi, viene usato per prestiti, costruzione di prodotti finanziari con cui intossicare mercati e società, come i mafia bond in cui è inciampata Generali anni fa. Ed è strumento di ricatto. «Allora se tu hai una banca, se hai una linea di credito che ti blocca cinquecento milioni e te li manda in una banca, tu ti blocchi i 500 milioni (con un’operazione chiamata “blocco fondi” ndr) e poi io stesso la copro e l’affitto allo Stato Americano, francese, inglese», spiega intercettato Nicolino Grande Aracri.
Nessuno lo ha mai descritto semplicemente come un capo feroce, con l’italiano ci fa un po’ a botte, ma è stato stratega capace di contaminare con i suoi buona parte dell’Emilia Romagna, mettere a servizio politici, professionisti, imprenditori non solo calabresi. In pochi però lo avrebbero immaginato in grado di sviscerare — e con dovizia di particolari — artifizi e meccanismi finanziari segreti che il suo, come gli altri clan più potenti, hannoa disposizione.
«Quei soldi là, da quella banca — spiega — li affittiamo sulla piattaforma, che a sua volta li affitta all’America, li affitta alla Russia, non li affitta a Piero, ma a uno Stato». Che strutturalmente non può fallire, ma da quella provvista finanziaria potrebbe essere influenzato, mentre gli interessi lievitano. «Ci sono certe banche che li moltiplicano per cinque volte» sottolinea il boss, che soddisfatto dice: «Noi possiamo interferire nella Cina, nel Congo, nell’America, in Italia dove vogliamo, a livello bancario».
Un mondo in cui i clan si muovono grazie a un esercito assai diverso da quei picciotti e soldati che tanta narrativa racconta come espressione più pura della ‘ndrangheta. Al servizio dei più potenti casati di mafia calabresi — ha svelato “Glicine”, l’ultima inchiesta della procura di Catanzaro, diretta da Nicola Gratteri — ci sono hacker, trader, consulenti, direttori di banca che sanno benissimo con chi si stanno rapportando. E non mancano neanche gli spioni. Spesso russi o dell’ex Ddr. Ma ci sono anche tanti italiani, spiegano pentiti come Gennaro Pulice.
Killer con la laurea, con interessi che vanno da una lavanderia a Serravalle Scrivia a società di consulenza finanziaria, uno studio in Svizzera ha personalmente curato lo svuotamento di alcuni conti in Spagna, con denaro fittiziamente spostato in Germania per un falso investimento in prodotti finanziari, in realtà trasformato in linee di credito aperte in Svizzera, grazie alla complicità di funzionari di Deutsche bank e ai buoni uffici di società e trader. «I controlli interbancari fra Spagna e Germania — racconta — sono stati elusi grazie all’intervento di personale dei servizi segreti italiani».
Di uno spione nostrano disponibile ad operazioni del genere, in un’altra conversazione ascoltata dagli uomini del Ros, salta fuori anche il nome, Donato Cossi. A farlo è Stefano Strini — l’ex genero di Calisto Tanzi, la mente del crack Parmalat che ha messo in ginocchio migliaia di lavoratori e risparmiatori — intercettato mentre chiacchiera con il boss dei papaniciari Mario Megna di schede nere, conti da svuotare, soldi da «scaricare».
Ma questo è solo uno dei grandi canali del riciclaggio finanziario venuti fuori dall’inchiesta Glicine. Un’indagine enorme — la richiesta di misura cautelare è di oltre 4 mila pagine — in grado di mostrare la ‘ndrangheta in tutte le sue sfaccettature: quella che controlla un territorio in cui la politica si muove come in un suq in cui tutto — carriere, concorsi, incarichi — risulta in vendita in cambio di voti e quella che ha infettato il mondo con soldi sporchi in quantità difficile da stimare. E per la prima volta inizia ad essere individuata in maniera chiara la filiera che ha permesso di lavarli.
procura di Catanzaro con i carabinieri del Ros. «L’epicentro dell’indagine — spiega il procuratore di Nicola Gratteri — è la provincia di Crotone con il locale di ‘ndrangheta dei papaniciari che ha rapporti sistematici con la pubblica amministrazione che partono dal 2014 fino al 2020. Una pubblica amministrazione asservita all’organizzazione ‘ndranghetistica con rapporti diretti con la politica regionale». L’inchiesta partiva, infatti, dall’aiuto che la criminalità organizzata ha dato nelle elezioni dal 2019 al 2024. «Abbiamo documentato una serie di illecite ingerenze in una serie di enti — spiegano i Carabinieri — il Comune di Crotone, le partecipate, la Provincia di Crotone soprattutto per quanto riguarda il settore “strade e viabilità”, l’Aterp regionale, l’Asp di Crotone». Nell’inchiesta ci sono ingerenze nelle nomine e negli appalti: dal progetto di recupero e valorizzazione archeologica dell’antica Kroton agli incarichi tecnici. Ci sono concessioni edilizie, non dovute, rilasciate a mafiosi o assunzioni fasulle nelle partecipate. Gli indagati sono 123. Tra gli altri l’ex governatore della Regione di centrosinistra, Mario Oliverio, l’ex assessore regionale Nicola Adamo, l’ex consigliere Enzo Sculco e una serie di amministratori locali.
Le praterie finanziarie dei clan
Piccinerie, scambi da poco, che il territorio paga e ai clan servono. Gli affari però sono altrove, in un mondo assolutamente virtuale ma in cui si muovono cifre a sei o sette zeri, movimentate per il mondo, ripulite, fatte fruttare, rimesse in circolo. Il campo è ancora tutto da esplorare, non è ancora chiaro quante delle operazioni di cui gli investigatori hanno sentito parlare in dettaglio siano andate a buon fine, ma adesso si inizia a capire il perimetro in cui i clan si muovono anche grazie agli hacker che ormai da anni reclutano.
I canali sono sostanzialmente quattro — schede nere, conti dormienti «come quelli di Bin Laden», bank guarantees, blocco fondi e altre operazioni su piattaforme finanziarie segrete — e spesso si incrociano fra loro. Per tutti smanettoni informatici, trader, consulenti finanziari e colletti bianchi sono fondamentali. Alcuni vengono da contesti di ‘ndrangheta, come Gennaro Pulice o Alfonso Diletto, imprenditore al servizio dei cutresi in Emilia, che per i pentiti «ha utilizzato false garanzie bancarie per accaparrarsi lavori in Africa, dove ha costruito strade, ospedali e appartamenti». Altri sono dei professionisti della finanza, a cui non importa poi molto da dove arrivino i soldi. Quando una maxi-inchiesta smantella pezzi dell’impero dei Grande Aracri in Emilia-Romagna, gli investigatori li sentono solo ridacchiare. Si mostrano consapevoli del rischio, ma ci guadagnano abbastanza da decidere di rischiare. Quanto? Almeno il 4% su ogni singola transazione. Milionaria.
Che vengano da mondi di ‘ndrangheta o no, sono a disposizione non solo dei clan, ma di tutti. «Posso citare i casi del Como Calcio, del Botev Plodiv e del Viren Sundaski — dice il pentito Pulice sotto interrogatorio — trattasi di squadre di calcio che abbisognavano di fidejussioni o linee di credito per l’iscrizione al relativo campionato. Le fidejussioni di cui sto parlando erano false: in pratica si predispone una documentazione a garanzia che viene mostrata al funzionario di banca estero compiacente, che attiva la corrispondente linea di credito garantita».
E poi ci sono gli hacker, altro nodo necessario. Al servizio dei papaniciari il Ros nell’indagine Glicine ne ha individuati almeno due. Si chiamano Salvatore Lumare e Mark Ulrich Goke, sono due signori di mezza età ed erano totalmente a disposizione del clan. «Questi sono dei cervelloni, non so… hanno preso due hacker, che hanno lavorato accoppiati, c’hanno messo tre anni».
Il loro ruolo? Fondamentale: bucano le procedure di controllo, trasferiscono garanzie bancarie fasulle, alterano i codici bancari e permettono di accedere e svuotare i cosiddetti “conti dormienti”. Lumare è l’esperto di schede nere, viene intercettato in mezza Italia mentre cerca di reclutare imprenditori da coinvolgere nell’affare. Goke però sembra un passo oltre.
E all’ombra della sua “balia di ‘ndrangheta” Mario Megna — nipote del capo dei papaniciari, Domenico — mette i suoi servigi a disposizione anche di altre organizzazioni criminali, come quei narcos che avevano necessità di spostare dal Portogallo danari provenienti dal narcotraffico. Quando il Ros lo ascolta è spaventato perché «sono delinquenti pericolosi, quella gente là ci elimina senza pensarci. Immagina che noi andiamo a prendere quella roba e non riusciamo a portarla dove va portata». Ma Megna lo rassicura, «ognuno ha il suo territorio, non dimenticarlo. Se si va in Portogallo la cosa è pericolosa, se siamo qui no».
Goke è uno sveglio, dicono tutti. A Crotone si accontenta di poco, «sta sempre buttato al computer, non si alza mai — commenta Megna con uno dei suoi — se vai la sera lo trovi al computer, vai la notte e lo trovi al computer ». E da lì surfava fra istituti di credito e banche sparse in tutto il mondo. Secondo l’imprenditore e faccendiere tedesco Johan Mair — specialista nel confezionamento di falsi contratti e procure in grado di legittimare operazioni totalmente illegali — era stato in grado anche di costituire la sua propria banca «perfettamente operativa».
Per gli inquirenti, Goke «era stato individuato come il fulcro internazionale di queste operazioni miliardarie, capace di coordinare l’operato clandestino di banchieri tedeschi della Deutsche Bank e di imprenditori miliardari».
Gli schemi
Ma questo è solo uno e forse il più tracciabile dei canali. L’inchiesta inizia a squarciare il velo su un mondo in cui i confini fra lecito e illecito scompaiono, seppelliti da una valanga di soldi. Pecunia non olet e l’importante per una serie di professionisti del settore è farli girare. È lo stesso per i clan che quel denaro hanno bisogno di muoverlo, pulirlo e utilizzarlo. E la finanza è diventata una galassia perfetta allo scopo. Ci gravitano personaggi diversi — broker, trader, facilitatori, commercialisti, semplici faccendieri — ma tutti con un ruolo specifico.
A decine sono stati a lungo ascoltati nell’inchiesta Glicine, la maggior parte sono stati identificati, alcuni formalmente indagati. Tutti hanno una caratteristica comune: non domandare mai da chi arriva il denaro. Mai fare le pulci agli “investitori”, quali che siano. Del resto, sono spesso personaggi abituati a lavorare sul filo della legalità, più di uno è scivolato su inchieste per riciclaggio o altri reati finanziari e qualcuno in pedigree ha anche qualche condanna.
Gli investigatori ascoltano per esempio il broker Gaetano D’Amore (ndr, non indagato) vantarsi di poter attivare linee di credito in diversi istituti europei: «Li ho sia in Svizzera, che a Montecarlo e anche qualcuna a Londra sono già attive, le ho sia Zurich, Hsbc e in Barclays». E non è l’unico che Salvatore Aracri, il “consulente finanziario” dei clan del crotonese che ha aperto loro le porte della finanza tedesca, porti alla corte delle famiglie di ‘ndrangheta.
Più a valle ci sono i facilitatori, l’anello di congiunzione fra i trader e i clan. Si tratta di soggetti che non necessariamente hanno competenza specifica in artifizi finanziari, ma possono contare su una rete di contatti ampia. Ma a volte non ce n’è neanche bisogno, perché trader ed esperti sono già interni al clan.
Antonio Valerio era uno di loro, stava all’ombra dei Grande Aracri e adesso che si è pentito a inquirenti e investigatori sta spiegando in dettaglio le strategie finanziarie di famiglie e casati di ‘ndrangheta. Una delle più semplici è la garanzia bancaria fasulla. E la usano tutti i clan, non solo quelli del crotonese, magari con un aiuto dall’esterno.
«I Papalia — spiega interrogato l’ex capolocale di Belvedere Spinello, Francesco Oliverio, oggi collaboratore — mi confidavano di sapere che dietro l’attivazione di false operazioni bancarie per il rientro di capitali esteri spesso risultavano coinvolti i servizi segreti». In più, aggiunge il pentito Pulice, «in Svizzera diverse cosche calabresi avevano studi di consulenza e/o faccendieri capaci di procurare fidejussioni ». Alcuni, come Vincenzo Donato, stanno a Lamone, in Svizzera «vogliate considerare che è paese gemellato con Mesoraca, nel crotonese». Il meccanismo è complesso ma è stato individuato. Basta una rete di imprese, spesso fittizie — quasi sempre inconoscibili ltd di diritto britannico, magari schermate da un trust o detenute a catena da altre ltd — che stipulino un finto contratto di joint venture per altrettanto inesistenti progetti. Un direttore di banca compiacente fa il resto: valuta quella spazzatura come oro colato ed emette la garanzia. È uno dei metodi, non l’unico.
A volte, capita che la fidejussione — che spesso è un codice bancario — sia manomessa da un hacker. «L’importante — sottolinea il commercialista del clan Grande Aracri, oggi pentito Paolo Signifredi — è far sì che la banca ricevente attivi un credito da monetizzare». Ne può parlare perché una di queste fidejussioni l’ha avuta in mano: “pesava” 600 milioni di euro, era stata fornita dall’Hsbc di Londra e «utilizzata per far fronte ai debiti del Parma calcio».
A corredo di operazioni di questo genere — confermano diversi colletti bianchi diventati collaboratori — viene costituita anche una fondazione o una onlus «per due scopi principali: primo — sottolinea Valerio — è un ente anonimo, secondo, la movimentazione di denaro non suscita sospetto in quanto non viene fatta a fini di lucro». Almeno formalmente.
Una di quelle usate dai papaniciari si chiamava Fondazione Cavaliere Dino Leone, i conti li aveva in Puglia nel circuito “Banca prossima” e doveva servire per ricevere, via Brasile, una “donazione” di 300 milioni proveniente da conti off shore catalogati nei “Panama Papers”. È il fascicolo riservato digitalizzato composto da 11,5 milioni di documenti confidenziali su oltre 214 mila conti off shore — spesso riferibili a organizzazioni criminali — messo insieme fin dagli anni Settanta dallo studio panamense Mossack Fonseca e nel 2015 finito nelle mani di giornalisti di tutto il mondo. Lì in mezzo ce n’era almeno uno che i papaniciari conoscevano o detenevano e stavano provando a movimentarlo.
La testa dell’operazione, coordinata dal consulente finanziario della cosca Salvatore Aracri, stava in Germania: lì lavoravano Goke, per gli investigatori «fulcro del gruppo di trader tedeschi», Mair (non indagato in Italia), immobiliarista e faccendiere tedesco con ampio portafoglio di contatti «che fungeva da raccordo con altri broker clandestini che operavano a Panama e in Brasile» e Marco Cordovado (non indagato in Italia), incaricato di mantenere i contatti con altri trader, solo in parte identificati, che operavano in Germania, Panama e Brasile.
I facilitatori
Altro anello della catena per quell’affare erano “receiver facilitator”. Allo stato, nessuno di loro risulta indagato ma il Ros li identifica in Maurizio Medici, Gaetano D’Amore e Ivano Melchionda «incaricati di individuarele persone fisiche e giuridiche in grado di ricevere il denaro e di sistemare carte e documenti perché risultasse legale», si legge nelle carte. Alla fine c’erano i receiver, Osvaldo Catucci e Leonardo Leone (non indagati) rappresentanti di quella fondazione che avrebbe dovuto ricevere il denaro. Altro elemento fondamentale, i sender, spesso funzionari e dirigenti di banca corrotti — i b.o. li chiamano in gergo — in grado di avviare il processo. E non solo per questo schema di riciclaggio sono nodo fondamentale.
Sono loro, spiega il pentito Valerio, a permettere ai clan di mettere a segno le truffe più diverse, «dall’estrapolazione di denaro dai conti dormienti, fino all’ottenimento di sconti e castelletti bancari con assegni falsi, che vengono comunque liquidati».
Il rischio c’è, ovvio. «Ma è anche vero che l’alta remunerazione di queste operazioni fa sì che il direttore trovi più conveniente essere licenziato che perdere il guadagno». E se succede, non è detto che non sia ancora una risorsa per i clan, almeno stando a quanto assicura intercettato Salvatore Aracri, che con Goke sognava in grande: «Apriamoci una bella banca tutta per noi. Questo è più importante di tutte le altre cose. Insieme al leader della banca Hsbc possiamo trafficare quando vogliamo».
Non era una proposta buttata lì, ma un vero e proprio progetto di lavoro. Anche perché nell’affare — si legge nelle carte dell’inchiesta Glicine — Aracri era sicuro di poter cooptare anche il banchiere tedesco Heinz-Martin Humme, in passato presidente del Consiglio della Stadtsparkasse di Düsseldorf, accusato di corruzione e destituito. «Questo qua ha concesso diversi crediti che poi sono scoppiati e ha perso il suo lavoro. Ma è l’unico che ha una licenza bancaria e la licenza bancaria è indispensabile affinché la banca possa essere operativa. E questo qua ce l’ha, lo hanno licenziato ma non gli hanno ritirato la licenza bancaria. Infatti mi aveva detto che se mai avessi avuto una banca sottomano di farglielo sapere e che avrebbe ben volentieri accettato». È la conferma di uno degli scenari che più preoccupa inquirenti e investigatori, da tempo convinti che i clan di ‘ndrangheta — tutti, non solo i crotonesi — abbiano in mano finanziarie e istituti di credito. Ma non è certo l’unico. A inquietare di più è forse quello che a stento si intuisce dalle conversazioni intercettate e di cui qualche collaboratore ha parlato: la galassia delle piattaforme di trading clandestine attraverso cui la ‘ndrangheta — stando a quanto assicura intercettato il boss Nicolino Grande Aracri — sarebbe riuscita a diventare uno dei grandi creditori degli Stati. Di base e formalmente le piattaforme finanziarie non sono strumenti illegali, i controlli ci sono. In estrema sintesi, potrebbero essere raccontate come uno spazio virtuale che permette all’utente di acquistare o vendere bond, titoli di Stato, oro, petrolio, azioni. Sono tutte operazioni che creano un bacino economico su cui maturano interessi. A volte sono legate o agganciate a istituti bancari o finanziari, di certo sempre sono gestite da un trader. Ma dietro — o forse dentro, su questo si sta investigando — si nasconde un altro mondo, riservato a pochissimi, gestito da un ridotto numero di professionisti. È quello delle piattaforme clandestine, in cui nessuno sta troppo attento a controllare l’origine dei fondi, «che generano tra il 70 e l’80 per cento di interessi settimanali rispetto all’investimento effettuato che — spiega il collaboratore Signifredi — deve essere di almeno dieci milioni di euro». Sono pochissime, solo cinque, e sono in mano ad altrettanti broker. I loro nomi Signifredi non li sa, ma agli inquirenti dà una pista per rintracciarli: sono i faccendieri che sono in grado di contattarli. «Vincenzo Nocera, di origine siciliana, un arabo conosciuto a Parma con il nome di Nabil, sulla piazza di Torino, tale ingegnere Giancarlo Mongarli, mentre sulla piazza di Trento conosco tale Renzo Foladori».
È in questo limbo che la ‘ndrangheta, che per il pentito Valerio «riesce a investirci in quanto notoriamente si sa dell’enorme disponibilità e la serietà dei componenti», pulisce il suo tesoro.
«Si conferisce oro, prodotti finanziari, anche titoli storici di ingente valore», spiega Valerio, che a quanto pare li ha anche personalmente trattati, tanto da poter fare esempi precisi. «Posso citarvi il cosiddetto “Black Eagle” emesso dagli Usa nel ‘900. Tali titoli vengono autenticati da notai appositi e conferiti agli istituti bancari come Ubs, City Bank e Hsbc». Con bond e titoli di Stato italiani e esteri, persino buoni postali — veri, falsi, verosimili — la ‘ndrangheta traffica da tempo. Ma il paniere però è composto per lo più da bond fresh, obbligazioni in teoria destinate esclusivamente ad investitori istituzionali.
Che non sia tutto frutto di pura fantasia, lo conferma l’inchiesta Glicine. «Tra agosto e ottobre 2019 gli indagati — sintetizza il gip — tentavano di effettuare un’operazione finanziaria illegale, rientrando in possesso di un flusso di denaro proveniente da una “piattaforma di trading clandestina” ». Valore dell’operazione, 120 milioni da trasferire dal Sud Est asiatico all’Europa. Un’altra operazione è del mese successivo, ma è andata a buon fine solo per metà: 49 milioni di euro scaricati e bonificati poi su una serie di conti svizzeri gestiti da Lorenzo Colombo (allo stato non indagato ndr), trader del gruppo “Centi”, un’altra filiera di trader, broker, facilitatori e receiver che non avrebbe esitato a mettersi al servizio della ‘ndrangheta. Che forse però è già andata oltre. Perché a un potenziale investitore mai individuato, Nicolino Grande Aracri dopo aver garantito di poter addirittura assicurare linee di credito agli Stati, giurava: «La piattaforma sono io».
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