Roma-Foggia sul treno della discordia
Dopo il racconto di Alain Elkann sui “giovani lanzichenecchi” che ha suscitato polemiche e risposte, un altro scrittore ha ripercorso la stessa tratta, descrivendo la realtà opposta
Dopo il racconto di Alain Elkann sui “giovani lanzichenecchi” che ha suscitato polemiche e risposte, un altro scrittore ha ripercorso la stessa tratta, descrivendo la realtà opposta
DI PAOLO DI PAOLO
Non c’è da raccontare niente. Quindi si può raccontare tutto. Non esiste déjà vu su un treno che da Roma parte per Foggia, se – come è accaduto ad Alain Elkann (Repubblica del 24 luglio) – si può scoprire che fa tappa a Caserta e a Benevento, o che nella vecchia “prima classe” (la nominazione è cangiante: business, executive…) è possibile incontrare adolescenti rumorosi e poco deferenti. Niente, anzi nessuno è mai davvero già visto: basterebbe rovesciare astrattamente l’articolo di Elkann e immaginarlo scritto da un “lanzichenecco”. Quel «signore con i capelli bianchi, una sorta di marziano che veniva da un altro mondo» – così Elkann si autoritrae – proprio perché non déjà vu da quei passeggeri potrebbe aver suscitato in loro qualche curiosità. Chi può dirlo? A Elkann sarebbe forse bastato un minimo slancio in più e un filo di insofferenza in meno; e, da esperto intervistatore (da Moravia a Montanelli a una ragazzina di undici anni), avrebbe trovato materiale interessante. Scavare col pensiero in quel muro apparentemente invalicabile tra il suo abito «stazzonato » di lino blu e i loro cappelli con visiera: chi sono? Che cosa stanno pensando? Che cosa desiderano? Oltre quello che stanno dicendo a voce alta. «Tutte le persone sono simpatiche quando si riescono a capire»: non è Proust, l’autore che Elkann tentava di leggere fra gli schiamazzi. È Harper Lee.
Per quanto mi riguarda, rifacendo la tratta (all’andata su un Frecciargento Trenitalia, al ritorno su un Italo), non ho portato libri: solo una pagina di Tondelli, che con Elkann e altri fondò una rivista. A bordo di un regionale all’inizio degli anni Ottanta, «accaldato, sudato e appiccicoso», lo scrittore intendeva farsi tramite delle «storie di gente comune»: «Gente che fa, gente che produce, gente sottoccupata, gente incantata, gente improduttiva, gente selvatica», «gente che costituirebbe a prima vista una massa anonima ma che, se indagata con solo un poco di attenzione, riserverà molte sorprese».
Confermo: nella prima mescolatissima classe del Frecciargento del mattino per Foggia, trovo la turista con cappello a falda larga e trovo la ragazza che cerca di resistere all’aria condizionata sfilando dalla grossa valigia un accappatoio. Non c’è un medico presente a bordo – un messaggio accorato lo invita a presentarsi nella carrozza 6. Penso: nessuno che chieda mai di uno scrittore! E sì che potrebbe, volendo, trovare le parole per descrivere il curioso rapporto tra un ragazzino saputello e sua nonna. Lui quasi la ossessiona non con le domande, ma con le sue competenze: sulla misura dei bagagli, sulle lattine d’acqua che ultimamente vengono distribuite (in prima classe!), su un panorama ripetitivo («qua ci sono solo campagne, zone industriali, binari»), sui tratti in cui va via la linea dei cellulari. Il mio dirimpettaio, le cuffie wireless come noccioline bianche nelle orecchie, si affanna a riprendere contatto con un certo Gennaro, e ripetendone familiarmente il nome – Genni, Genni – sente abbaiare un cane accucciato sotto un sedile. Al che la proprietaria spiega che anche il cane si chiama (suppongo io) Jenny. C’è il maniaco dell’igiene – disinfetta con l’Amuchina spray i tavolinetti – e c’è un drappello di “lanzichenecche” belle e loquaci, le unghie finte, la voce un pelo alta, le risate un po’ esagerate. D’altra parte, qualche sopracciglio si alza, qualcuno sbuffa: la verità è che tutti possiamo essere il lanzichenecco vicino di posto di qualcun altro. A questo proposito, urge segnalare che fra noti critici e critiche del racconto di Elkann – rilanciato, rimaneggiato, reso virale – vi è chi sbraiterebbe al primo segnale di disturbo. In modo così sgradevole e scomposto e incapace di compromesso che la mansueta insofferenza di Elkann, al confronto, è balsamica. Percorro le carrozze in cerca di qualche abito di lino, lo trovo. Trovo piedi piazzati sui sedili, accese partite a carte, in cosiddetta seconda classe, e trovo copie di libri, che non avevo trovato in prima. E non c’era Proust, ma c’era un Roth e un Bret Easton Ellis: sul tavolino di un ragazzo con indosso la t-shirt arancione di una qualche truppa sportiva.
Gli occhi al cielo per il canonico ritardo, sia all’andata che al ritorno. Una voce che chiede se Vittorio ha mangiato. «I Bucaneve mi ricordano quando ero bambina!». Una signora che piange perché le porte si sono chiuse e il marito è rimasto giù. «’Nu guaio!». La vicina di posto la aiuta a cercare gli orari, a calmarsi. Eccolo il meraviglioso condominio ferroviario in cui le distanze di classe si sfarinano; talvolta perfino i pregiudizi. L’elzevirista accigliato può incontrare il suo opposto, faticando ad accettarlo (su questo giornale, molti anni fa, a un Citati che inaspettatamente elogiava i “borgatari” che mangiano il gelato in centro, rispondeva un infastidito Malerba). L’incontro non è facile ma la curiosità è vitale; e ogni viaggio, ogni viaggetto è un’occasione per polverizzare l’abitudine. E, come invita a fare una scrittrice nell’ultimo numero di Robinson – quello che Elkann ha sfoderato accanto ai giovani passeggeri – per diventare «estranei a sé stessi». Provando a varcare, con le frontiere geografiche, quelle mentali. Le più spesse. In un verso o nell’altro, le più difficili.
Per quanto mi riguarda, rifacendo la tratta (all’andata su un Frecciargento Trenitalia, al ritorno su un Italo), non ho portato libri: solo una pagina di Tondelli, che con Elkann e altri fondò una rivista. A bordo di un regionale all’inizio degli anni Ottanta, «accaldato, sudato e appiccicoso», lo scrittore intendeva farsi tramite delle «storie di gente comune»: «Gente che fa, gente che produce, gente sottoccupata, gente incantata, gente improduttiva, gente selvatica», «gente che costituirebbe a prima vista una massa anonima ma che, se indagata con solo un poco di attenzione, riserverà molte sorprese».
Confermo: nella prima mescolatissima classe del Frecciargento del mattino per Foggia, trovo la turista con cappello a falda larga e trovo la ragazza che cerca di resistere all’aria condizionata sfilando dalla grossa valigia un accappatoio. Non c’è un medico presente a bordo – un messaggio accorato lo invita a presentarsi nella carrozza 6. Penso: nessuno che chieda mai di uno scrittore! E sì che potrebbe, volendo, trovare le parole per descrivere il curioso rapporto tra un ragazzino saputello e sua nonna. Lui quasi la ossessiona non con le domande, ma con le sue competenze: sulla misura dei bagagli, sulle lattine d’acqua che ultimamente vengono distribuite (in prima classe!), su un panorama ripetitivo («qua ci sono solo campagne, zone industriali, binari»), sui tratti in cui va via la linea dei cellulari. Il mio dirimpettaio, le cuffie wireless come noccioline bianche nelle orecchie, si affanna a riprendere contatto con un certo Gennaro, e ripetendone familiarmente il nome – Genni, Genni – sente abbaiare un cane accucciato sotto un sedile. Al che la proprietaria spiega che anche il cane si chiama (suppongo io) Jenny. C’è il maniaco dell’igiene – disinfetta con l’Amuchina spray i tavolinetti – e c’è un drappello di “lanzichenecche” belle e loquaci, le unghie finte, la voce un pelo alta, le risate un po’ esagerate. D’altra parte, qualche sopracciglio si alza, qualcuno sbuffa: la verità è che tutti possiamo essere il lanzichenecco vicino di posto di qualcun altro. A questo proposito, urge segnalare che fra noti critici e critiche del racconto di Elkann – rilanciato, rimaneggiato, reso virale – vi è chi sbraiterebbe al primo segnale di disturbo. In modo così sgradevole e scomposto e incapace di compromesso che la mansueta insofferenza di Elkann, al confronto, è balsamica. Percorro le carrozze in cerca di qualche abito di lino, lo trovo. Trovo piedi piazzati sui sedili, accese partite a carte, in cosiddetta seconda classe, e trovo copie di libri, che non avevo trovato in prima. E non c’era Proust, ma c’era un Roth e un Bret Easton Ellis: sul tavolino di un ragazzo con indosso la t-shirt arancione di una qualche truppa sportiva.
Gli occhi al cielo per il canonico ritardo, sia all’andata che al ritorno. Una voce che chiede se Vittorio ha mangiato. «I Bucaneve mi ricordano quando ero bambina!». Una signora che piange perché le porte si sono chiuse e il marito è rimasto giù. «’Nu guaio!». La vicina di posto la aiuta a cercare gli orari, a calmarsi. Eccolo il meraviglioso condominio ferroviario in cui le distanze di classe si sfarinano; talvolta perfino i pregiudizi. L’elzevirista accigliato può incontrare il suo opposto, faticando ad accettarlo (su questo giornale, molti anni fa, a un Citati che inaspettatamente elogiava i “borgatari” che mangiano il gelato in centro, rispondeva un infastidito Malerba). L’incontro non è facile ma la curiosità è vitale; e ogni viaggio, ogni viaggetto è un’occasione per polverizzare l’abitudine. E, come invita a fare una scrittrice nell’ultimo numero di Robinson – quello che Elkann ha sfoderato accanto ai giovani passeggeri – per diventare «estranei a sé stessi». Provando a varcare, con le frontiere geografiche, quelle mentali. Le più spesse. In un verso o nell’altro, le più difficili.
La lettera
Anatomia di uno “scandalo”
DI FABIO FINOTTI
Anatomia di uno “scandalo”
DI FABIO FINOTTI
(L’autore è direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York e professore emerito all’Università della Pennsylvania)
Caro Direttore, ho letto su Repubblica il bel racconto di Alain Elkann sui “nuovi lanzichenecchi”. Poi ho visto le critiche, e mi sono sorpreso e rallegrato. Ma dunque la letteratura può ancora scandalizzare, muovere le coscienze, dare scandalo? A questo punto vorrei fare — per esercizio — il mestiere di critico che mi ha procurato una cattedra negli Stati Uniti. Come un anatomista chiamato a eseguire l’autopsia su un corpo reso cadavere dai colpi di tanti illustri giornalisti. Chi dice “io” in un racconto non è lo stesso che dice “io” nella realtà, lo sappiamo tutti.
Il protagonista del nostro racconto non è e non potrà mai essere il vero Alain Elkann. L’autore di un racconto si incarna nel personaggio che dice “io” ma ugualmente nei suoi antagonisti (qui i lanzichenecchi). Bakhtin la chiama polifonia. Fatta chiarezza (ma siamo all’ABC dell’analisi letteraria), vediamo come si presentano quei “lanzichenecchi” in difesa dei quali si sono alzate tante spade. Se nessuno porta l’orologio non è perché siano dei poveracci, ma perché il loro tempo è ormai segnato dal telefono. Sembrano appagati di quel che sono, tanto da non vedere il mondo attorno che li circonda. Di fronte a loro c’è lo scrittore che li descrive. Il vero poveraccio sembra lui. Il suo vestito è «molto stazzonato di lino blu». L’impressione è di disordine, sciatteria. C’è malinconia nel modo in cui lo scrittore si affida non all’elettronica, ma a vecchi materiali, usa non lo zaino ma una cartella «di cuoio marrone», e da lì tira fuori un armamentario di oggetti tutt’altro che virtuali: giornali, libri, un quaderno, una penna... a guardarlo con gli occhi dei giovani sembra un campionario da rigattiere.
Ma il punto è questo: i giovani non vedono. Non si rendono conto che tra quelle cianfrusaglie c’è qualche gemma, per esempio un Proust. Non sono i vecchi lanzichenecchi, sono quelli “giovani”. Non usano la lancia ma dissolvono egualmente tutto quello che sfiorano, perché non lo riconoscono, non lo guardano, non ammettono la sua esistenza. Il protagonista è uno di quegli scrittori crepuscolari che la letteratura moderna ci ha consegnato, da Morte a Venezia all’Angelo azzurro agli Occhiali d’oro di Bassani. Uomini che nascono e muoiono senza che il mondo si accorga di loro, se non per disturbarli, per distrarli dal loro destino. Ma i lanzichenecchi, questi giovani barbari che viaggiano in prima classe, meritano una difesa a spada tratta? Il vocabolario, l’ostentazione di potere, l’idea della donna davvero sono l’ideale che vogliamo difendere? Qui siamo di fronte a due mondi diversi, e chi ha deciso di schierarsi col secondo, quello più giovane, ha fatto una scelta tra due classi non sociali ma intellettuali.
La rivoluzione per i lanzichenecchi “esterni” al treno, che colpiscono lo scrittore dai social, è la cieca prepotenza del gruppo, mentre la cultura è un vezzo da snob. Lo scrittore esce dal treno silenzioso e non visto. Può considerarsi fortunato. La prossima volta il nuovo fascismo invece di ignorarlo potrebbe aggredirlo perché ha osato essere diverso dagli altri. Magari solo scrivendo con la stilografica un diario. Oppure creando un racconto. È meglio che non ci provi più.
Caro Direttore, ho letto su Repubblica il bel racconto di Alain Elkann sui “nuovi lanzichenecchi”. Poi ho visto le critiche, e mi sono sorpreso e rallegrato. Ma dunque la letteratura può ancora scandalizzare, muovere le coscienze, dare scandalo? A questo punto vorrei fare — per esercizio — il mestiere di critico che mi ha procurato una cattedra negli Stati Uniti. Come un anatomista chiamato a eseguire l’autopsia su un corpo reso cadavere dai colpi di tanti illustri giornalisti. Chi dice “io” in un racconto non è lo stesso che dice “io” nella realtà, lo sappiamo tutti.
Il protagonista del nostro racconto non è e non potrà mai essere il vero Alain Elkann. L’autore di un racconto si incarna nel personaggio che dice “io” ma ugualmente nei suoi antagonisti (qui i lanzichenecchi). Bakhtin la chiama polifonia. Fatta chiarezza (ma siamo all’ABC dell’analisi letteraria), vediamo come si presentano quei “lanzichenecchi” in difesa dei quali si sono alzate tante spade. Se nessuno porta l’orologio non è perché siano dei poveracci, ma perché il loro tempo è ormai segnato dal telefono. Sembrano appagati di quel che sono, tanto da non vedere il mondo attorno che li circonda. Di fronte a loro c’è lo scrittore che li descrive. Il vero poveraccio sembra lui. Il suo vestito è «molto stazzonato di lino blu». L’impressione è di disordine, sciatteria. C’è malinconia nel modo in cui lo scrittore si affida non all’elettronica, ma a vecchi materiali, usa non lo zaino ma una cartella «di cuoio marrone», e da lì tira fuori un armamentario di oggetti tutt’altro che virtuali: giornali, libri, un quaderno, una penna... a guardarlo con gli occhi dei giovani sembra un campionario da rigattiere.
Ma il punto è questo: i giovani non vedono. Non si rendono conto che tra quelle cianfrusaglie c’è qualche gemma, per esempio un Proust. Non sono i vecchi lanzichenecchi, sono quelli “giovani”. Non usano la lancia ma dissolvono egualmente tutto quello che sfiorano, perché non lo riconoscono, non lo guardano, non ammettono la sua esistenza. Il protagonista è uno di quegli scrittori crepuscolari che la letteratura moderna ci ha consegnato, da Morte a Venezia all’Angelo azzurro agli Occhiali d’oro di Bassani. Uomini che nascono e muoiono senza che il mondo si accorga di loro, se non per disturbarli, per distrarli dal loro destino. Ma i lanzichenecchi, questi giovani barbari che viaggiano in prima classe, meritano una difesa a spada tratta? Il vocabolario, l’ostentazione di potere, l’idea della donna davvero sono l’ideale che vogliamo difendere? Qui siamo di fronte a due mondi diversi, e chi ha deciso di schierarsi col secondo, quello più giovane, ha fatto una scelta tra due classi non sociali ma intellettuali.
La rivoluzione per i lanzichenecchi “esterni” al treno, che colpiscono lo scrittore dai social, è la cieca prepotenza del gruppo, mentre la cultura è un vezzo da snob. Lo scrittore esce dal treno silenzioso e non visto. Può considerarsi fortunato. La prossima volta il nuovo fascismo invece di ignorarlo potrebbe aggredirlo perché ha osato essere diverso dagli altri. Magari solo scrivendo con la stilografica un diario. Oppure creando un racconto. È meglio che non ci provi più.
Nessun commento:
Posta un commento