domenica 23 aprile 2023

Meditativo

 

Trucchi mediatici e slogan ripetuti così il centrodestra mina l’antifascismo
DI STEFANO MASSINI
Lo confesso, sono fra i tanti che in questi mesi hanno pensato che dietro i continui attacchi all’antifascismo non ci fosse un preciso costrutto, ma solo sguaiatorevanscismo cameratesco, legittimato dall’opinabile teoria che l’esito elettorale del 2022 sdoganasse full optional l’armamentario dottrinale di Salò, Predappio e mete affini del black tour. Poi ho mutato opinione.
Adesso, man mano che il mosaico accoglie nuove tessere, mi convinco sempre più che una strategia presieda a questi apparentemente bradi colpi di mortaio.
Quasi cinque secoli sono passati dall’illuminante “Discorso sulla servitù volontaria” di Étienne de La Boétie, in cui di fatto si stigmatizzava la pigrizia dei sudditi come anticamera del dispotismo: la libertà è bellissima a parole, ma al di là della collosaretorica, richiede fatica, sforzo, cura, senso critico, ovvero una forma concreta di manutenzione da cui puoi esimerti delegando il potere a un capo carismatico che deciderà per te, tramutando la proposta in diktat, azzerando il dibattito sulle ipotesi a favore di un ordine tassativo. La lezione di La Boétie ha trovato da allora applicazione in ogni contesto, trionfando nei regimi totalitari dell’ultimo secolo che certo nacquero dal coacervo di paure e rabbie collettive, ma trovarono il proprio combustibile anche nel torpore, nell’abulia, nella facile fiacchezza che azzera l’essere pensante e di un libero cittadino fa una pedina catechizzata, inquadrata e asservita.
Di questa tendenza fu notoriamente corresponsabile l’ascesa dei mezzi di comunicazione, determinanti nel convertire la politica nella propria narrazione, articolata in una vera drammaturgia di cui, col tempo, la stanza dei bottoni ha affinato tecniche e trucchi.
Ecco, ciò a cui stiamo assistendo può essere ricondotto a questa matrice, e non solo perché usa il metodo (descritto alla perfezione da Harold Lasswell) dello slogan che entra sottopelle del ricevente non come parere vagliabile ma come un dato incontrovertibile (e dunque non “io dissento dall’antifascismo”, bensì nettamente e inmodo assertivo “l’antifascismo non è nella Costituzione”). A blindare l’effetto, c’è un furbissimo uso del meccanismo mediatico dell’inflazionamento: ad ogni bordata di La Russa e sodali contro i pilastri fondativi della nostra Repubblica, è come se lo scandalo diminuisse, perché l’eversione stessa si trasmuta in ordinaria amministrazione se assume la forma di un copione sempre uguale, e come tale prevedibile. Dunque l’attacco frontale e puntuale degli ex-post-neo-fascisti contro l’antifascismo innesca la conseguenza primaria di rendere la contrapposizione tediosa, ripetitiva e inevitabilmente banale, svuotandola di significato.
Oggi per esempio è il 23 aprile, 48 ore ci separano dalla Festa della Liberazione, ed è per tutti scontato che le agenzie ribatteranno a breve affermazioni variopinte e frasi in libertà carpite dalle labbra di un ministro o di colui che pur ostentando fascist-pride è kafkianamente Capo supplente di uno Stato nato dall’antifascismo. Lo sappiamo già, ce lo aspettiamo, potremmo perfino scrivere preventivamente parole di reazione accorata, celando il punto nodale che un sassolino che ti cade in testa dal cielo ti fa alzare gli occhi a cercarne la provenienza, ma se lo stesso ti colpisce durante una grandinata, passa del tutto inosservato.
E allora, per paradosso, qualcuno ormai potrebbe perfino dichiarare di festeggiare la fondazione della Gestapo (per ironia della sorte creata da Göring il 26 aprile 1933), e la notizia susciterebbe più ilarità che indignazione, più sconforto che pubblica condanna, cosicchè la missione può dirsi in un certo senso compiuta, perché centra il bersaglio di desacralizzare la memoria, riducendola a un flipper in cui la pallina rimbalza fra le sponde fra lampadine e campanelli, ma è comunque destinata a finir presto in un game over.
In fondo l’antifascismo si regge completamente sullo scandalo percepito del fascismo, ed è una contrapposizione che non può sbiadirsi né tantomeno ridursi a un cartoon in cui ci si prende a pugni rimbalzando come gomma. E la riprova sta nella storia stessa, se si pensa che il 4 ottobre 1936, nell’East End, la “marcia su Londra” di migliaia di camicie nere inglesi guidate da Oswald Mosley fu respinta a Cable Street dall’insurrezione popolare di 20.000 democratici che le sbarrarono la strada, prendendo molto sul serio la sua minaccia.
Se quei londinesi si fossero viceversa stretti nelle spalle, riservando all’Unione Fascista Britannica il sorriso bonario che sempre più spesso offriamo al caravanserraglio di questi nostalgici, chissà come poteva evolvere la vicenda, e forse studieremmo Mosley al pari di Churchill. È chiaro che è utopia, ma fino a un certo punto, dal momento che l’assuefazione è sempre prologo dell’avallo.
E su questo ci sono pochi dubbi.

Nessun commento:

Posta un commento