venerdì 21 aprile 2023

Colpisce sempre

 


“Social hospital”: diagnosi, prognosi e morte sul web

UNA MODA NON SOLO TRA INFLUENCER - Rincorse. Dentro una società malata (e con sempre meno welfare), al malato non resta che la finta libertà di pubblicizzare se stesso

di Daniela Ranieri

La Sanità pubblica attraversa la sua congiuntura più drammatica proprio mentre sui social vive una inopinata popolarità. Ogni giorno, decine di nostri contatti postano foto di stanze d’ospedale, diagnosi di pronto soccorso, referti di colonscopie, lastre, ecografie (anche di gravidanze, e appena il neonato viene al mondo lo si fotografa e lo si socializza subito, ancora quasi sporco di placenta), e poi ancora bocce di flebo, scatole di farmaci, braccialetti da ricovero col proprio nome. Non mancano resoconti di eventuali esiti fatali riguardanti propri congiunti.

Il social hospital è trasversale a tutte le piattaforme, con preferenza per Facebook (il social più generalista, che si presta a lunghe narrazioni editabili), Instagram (con le sue “storie”, i brevi video con cui anche gli influencer condividono confessioni cliniche) e sempre più spesso Twitter (privilegiato da chi vuole accesso rapido a notizie di politica e attualità.)

Dopo la prima ondata di Covid, quando la gente si faceva selfie dalla terapia intensiva per testimoniare la gravità della malattia, la pratica si è estesa ormai a tutte le patologie. Il patema testimoniale sfocia in un’epica morbosa. Si chiede ai followerdi partecipare alla propria angoscia, esponendosi anche al rischio di freddezza o ostilità. Se il personaggio che svela di esser malato è famoso (ne abbiamo scritto qui il 18 marzo parlando della merce della “vulnerabilità” presso gli influencer), aumenteranno gli attestati di solidarietà, ma anche i messaggi aggressivi e gli auguri di morte. Se c’è un che di emotivamente ricattatorio e di sadismo macabro nell’infliggere agli altri le proprie disgrazie (qualcuno fotografa e pubblica la mano del proprio genitore morto; tempo fa un mio contatto postò la foto di sua madre nella bara), nondimeno pubblicare la propria cartella clinica e i propri lutti è un modo per ridurre il dolore a una delle forme che assume il nostro stare online. L’alienazione di mettere in piazza ogni nostra facezia ci è talmente familiare, che tentiamo di riprodurla nei momenti più traumatici per sentirci al sicuro. Sulle bacheche dei morti gli “amici” continuano a scrivere messaggi, rivolgendosi direttamente allo scomparso, come se egli dall’aldilà avesse comunque accesso ai suoi profili.

L’effetto paradossale di questo flusso di testimonianze e della sollecitazione emotiva che genera non è però la sensibilizzazione riguardo alle sofferenze altrui o alla ricerca scientifica su alcune malattie, ma l’anestesia generale. Tutti i post si somigliano, per stilemi e tono (a volte drammatico, a volte artatamente spiritoso o futile, specie nei lutti: “Ciao papà, saluta nonno”), e il successivo scalza il precedente nel giro di pochi minuti.

Solitamente al primo post con la diagnosi data quasi in tempo reale seguono aggiornamenti, bollettini, accertamenti, anche conditi da suspense: “Non vi do buone notizie”, “L’affare si complica”. L’utente chiede di mandare “vibes positive”, preghiere; approfondisce la diagnosi; si addentra nella prognosi.

I commenti degli “amici” attingono all’immaginario bellico (“Forza, guerriero!”), secondo un lessico diffuso dai media nei casi di malattie dei “vip”: “Ha sconfitto il cancro”, “Ha lottato fino alla fine”, “Cede all’ultima battaglia col male” (titoli reali). Conoscenti, sconosciuti e semplici curiosi si trasformano in trainer motivazionali, incoraggiando la “resilienza” (la peste concettuale degli ultimi anni, finita anche nel nome del piano di ripresa economica post-pandemia), mandando l’emoticon del cuore e del bicipite gonfio. Gli incitamenti vertono sul raggiungimento della performance: bisogna vincere, imporsi sul destino. Il malato partecipa con la propria sofferenza (e con tutti i dati clinici squadernati) alla dis-etica corrente che vuole l’individuo sempre connesso, pimpante, dotato della qualità che è dei materiali inerti di resistere a urti, pressioni, deformazioni (ciò è la resilienza). “Ti rivogliamo subito in forma!”, pronto di nuovo a postare come se niente fosse successo: è l’imperativo morale della società improntata al darwinismo e all’adattabilità alle peggiori condizioni materiali. Se qualcuno fa un lavoro alienante, è depresso o si ammala, è perché non ha saputo lottare e rialzarsi, dove “lottare” non ha niente a che fare con la lotta di classe o per i propri diritti: al contrario, è “dentro di sé” che deve trovare la felicità, affrancarsi dal dolore come gli è richiesto dalla catena fordista del godimento obbligatorio. Dentro una società malata (e con sempre meno welfare), al malato non resta che la finta libertà di pubblicizzare sé stesso.

Tutte le premure per la privacy decadono. Mettiamo i nostri dati online non solo a beneficio (?) di persone sconosciute, ma anche di aziende, che possono decidere se assumerci o licenziarci sulla base del nostro stato di salute, o usarli per vendere prodotti a noi e noi ad altre aziende e piattaforme. Comunicando sgomento, paura, dolore, li stiamo monetizzando a beneficio di terzi. Ci produciamo e ci vendiamo gratis, usando perdipiù la nostra manodopera e avendo l’impressione che tutto questo ci sia dato in dono. Il corpo e i suoi organi sono assoggettati al potere disciplinare, che a differenza del potere tradizionale non controlla la vita minacciando la morte, ma promette di perpetuare incessantemente la routine. Se il flusso della vita raccontata, fotografata, testimoniata prosegue ininterrotto anche da una stanza d’ospedale, vuol dire che siamo vivi. Il corpo stesso non è essenziale, com’era nella fabbrica; nella produzione neo-liberale è solo il mezzo dello storytelling, è un corpo di pixel, smaterializzato, che deve essere fotografato per esistere davvero.

Più l’annuncio è grave, più risalto, visualizzazioni, “mi piace” otterrà. La solennità dei momenti cruciali dell’esistenza è stemperata in un tono di blando terrore dentro un contenitore di puro intrattenimento. Il mero dato biologico è glossato, commentato, apprezzato o disprezzato, ma mai (dal suo possessore) realmente compreso e meditato. La pratica è social, ma non sociale: crollate le tradizionali agenzie di solidarietà (famiglia, parenti, vicinato, etc.), si resta soli con un dolore non metabolizzato, irrisolto. Analogamente il lutto, scaraventato sui social, per un certo periodo non viene elaborato, silenziato dal clamore delle condoglianze “virtuali”.

Un esempio interessante è la narrazione quotidiana, su Twitter e blog, che lo scrittore britannico Hanif Kureishi ha fatto della sua degenza in ospedale in seguito a un malore. Anche Kureishi ha condiviso dati clinici, pensieri, dialoghi coi medici e altri pazienti, ma il dato brutale dell’esperienza nel suo caso era trasformato dall’arte, era cioè un atto creativo e autonomo. Invece il flusso di notizie sulla nostra mortalità è annichilito dall’essere identico a quello di milioni di altri utenti, analogo negli effetti ai post delle vacanze; tutto è risucchiato nel tritacarne del web, che crea desideri inesistenti (come la finta intimità con sconosciuti) e abbatte e annienta la faticosa, reale volontà di comunione.

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