sabato 3 dicembre 2022

Daniela e il PD

 

Bonaccini O Schlein? il Pd è un’élite del marketing
DI DANIELA RANIERI
Apprendiamo dai giornali che domenica si terrà una kermesse al Monk di Roma (dal sito del Monk: uno “spazio trasversale che riconosce l’importanza della condivisione: tanti percorsi che si incontrano e si intrecciano per generare nuova linfa”: praticamente il programma del Pd) dove Elly Schlein formalizzerà la sua candidatura alla guida del Pd, a cui non è iscritta, e dal cui parterre si capirà chi sta con lei e chi invece, assentandosi, con Bonaccini. Il Pd si è ridotto al punto di dover riporre tutte le sue speranze in mano a queste due figure (le altre possibili, De Micheli, Nardella, Ricci, sono chiaramente carne da primarie). Perché? Quali sono le visioni della società e del mondo di Bonaccini e Schlein?
Di Bonaccini si sa che, dopo una gavetta nella sinistra e un’affermazione renzian-contundente, è diventato presidente di Regione, o, detto in modo sbarazzino, “governatore” (una di quelle parole, insieme a “premier”, usate per designare figure che nel nostro ordinamento non esistono e a cui pian piano ci si abitua, così quando introducono di soppiatto la norma che istituisce il referente di quella parola nessuno se ne accorge), che è favorevole all’autonomia differenziata (esattamente come i leghisti) e che parla ancora della sua vittoria sulla leghista Bergonzoni in Emilia-Romagna come fosse la battaglia di Stalingrado.
Di Schlein si sa che è la vice di Bonaccini e che con la sua lista Coraggiosa, incentrata sui diritti civili e la transizione ecologica, ha contribuito a battere Bergonzoni. L’attuale, altisonante e grottesco “percorso costituente” del Pd, che lo porterà al Congresso che lo porterà alle primarie etc., è in realtà una grande campagna di marketing: stanno temporeggiando per testare i prodotti da immettere sul mercato. Non avendo visioni del mondo da discutere, il partito che si era messo a pelle d’orso sotto la fantomatica agenda Draghi (uno dei feticci fantasy di questa finta sinistra insieme a “governabilità”, “democrazia decidente” etc.) ha solo facce da proporre. Le correnti punteranno sul cavallo ritenuto vincente, cercando di capire quale delle due strategie abbia più presa: un partito-Regione da affidare all’efficiente “governatore” hipster di mezza età abilissimo nella pratica del selfie, o un partito-Monk, trasversale e linfatico, da affidare alla pasionaria dell’identità fluida e non binaria. La valorizzazione della individualità-differenza è in effetti molto di moda e il Pd potrebbe montarci sopra. Il marketing incoraggia questa finta liberazione, non certo per migliorare la società e aumentare il rispetto delle diversità, bensì per monetizzarle. Per il mercato e per la politica neoliberista, sposi felici, siamo tutti uguali non perché ciò sia democratico, ma perché il denaro “costringe le cose contrarie a baciarsi” (Marx). Se siamo tutti individui e uguali, nessuno ha coscienza di appartenere a una collettività e tantomeno a una classe. Gli individui liberati sono tutti dei senza classe. E chi tutela le classi subalterne, chiaramente attaccate da un governo di destra che toglie il pane di bocca ai poveracci e favorisce ogni genere di parassiti, in un mondo che si pretende senza classi, ma abitato solo da individui fluidi? Può farlo il Pd, avendo varato il Jobs Act e messo zizzania tra lavoratori (togliendo garanzie a tutti, non dandole a chi non le aveva) senza mai intaccare gli attuali rapporti di forza? Inoltre i media padronali da anni lavorano a rinominare “populismo” qualunque eventuale insorgenza popolare, in chiave anti-M5S, e il Pd si è imbellettato di fronte ai potentati internazionali come anti-populista, agile, ideologicamente slavato e inoffensivo. Ultimamente, dopo la pestilenza renziana, si è fatto pure accecare dal “moderatismo” di Calenda (l’unione non si è concretizzata perché Calenda ha scaricato Letta, non per insorgente decenza), il quale Calenda adesso, da leader serio e moderato, non si fa alcun problema a mettersi a disposizione della postfascista Meloni. Il Pd non è un partito (tantomeno di massa), ma un’associazione culturale d’élite che cerca di captare quel che va di più nella società in un dato momento per tradurlo in voti. Lungi dal capire che è stato per ciò che è diventato un apparato incistato dal potere, odiato dal suo elettorato storico (lavoratori dipendenti, operai, giovani precari, percettori di Rdc, contro cui votò) e governato da narcisismi contrapposti detti correnti, si dedica al rebranding lanciando due nuovi prodotti e cambiando logo. Il sindaco di Bologna Matteo Lepore ha proposto di rinominare il Pd “Partito democratico e del lavoro” (il cui acronimo sarebbe PaDeL, come il gioco simil-tennis che va tanto di moda presso i detentori di partita Iva in pausa pranzo), come se l’industria delle automobili inquinanti da domani decidesse di chiamarsi “industria dei motori e dell’aria pulita” e automaticamente lo diventasse.

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