venerdì 20 maggio 2022

Pezo el tacòn del buso

 

Dietro l’assoluzione di Fontana restano i segreti dei Caraibi
di Gianni Barbacetto
Che bello vedere i leghisti esultare in Consiglio regionale, con standing ovation e cori da stadio, per l’assoluzione del presidente della Lombardia Attilio Fontana. “Assolto Fontana! Giustizia è fatta, ora chiedete scusa”: così avevano scritto sulle loro magliette. Ma prima di chiedere scusa, possiamo mettere in fila i fatti? Sapendo che ci sono comportamenti che possono non essere riconosciuti come reati, ma sono ugualmente disdicevoli, o politicamente inopportuni, o semplicemente stupidi. E dunque: Fontana è stato assolto dall’accusa di frode in pubbliche forniture nell’inchiesta sul “caso camici”. E prima ancora, ha visto archiviata l’inchiesta per autoriciclaggio e falso in voluntary. Che cosa resta, dunque? Restano i fatti. Di una storia forse non criminale, ma certamente gustosa che vale la pena di raccontare. Inizia nella primavera del 2020, quando esplode l’emergenza Covid in Lombardia. La Regione, a caccia di materiale sanitario, il 16 aprile firma un contratto con una azienda, la Dama spa, che s’impegna a fornire 75 mila camici al costo di 513 mila euro. A maggio, però, un giornalista guastafeste di Report va a chiedere spiegazioni al proprietario della Dama spa: è Andrea Dini, cognato di Fontana, che la controlla al 90%, insieme alla sorella (che ha il 10%), Roberta Dini, che guarda caso è la moglie del presidente Fontana. Per non ammettere un affare in conflitto d’interessi, Fontana dice di non saperne niente. Poi cambia versione e dice che si trattava di una donazione gratuita. Il 20 maggio 2020, Dini comunica alla Regione di rinunciare ai pagamenti (in realtà già fatturati, dunque non era un regalo) e trasforma in donazione la fornitura dei 50 mila camici già consegnati. Non “dona” però i restanti 25 mila camici, che tenta invece di vendere a prezzo maggiorato a una azienda di Varese.
Era stato Fontana, il 17 maggio 2020, a chiedere in segreto al cognato di rinunciare all’affare, per non metterlo in imbarazzo. E due giorni dopo, per “risarcirlo”, gli aveva fatto un bonifico urgente di 250 mila euro. Con soldi suoi privati, parcheggiati in un conto svizzero Ubs su cui c’erano 5,3 milioni di euro. Questa mossa diventa oggetto di una Sos (“segnalazione di operazione sospetta”) che arriva alla Guardia di finanza e alla Procura. Fontana si trova così indagato: per frode in pubblica fornitura, per aver disatteso il contratto con cui la Dama spa si era impegnata a fornire alla Regione 75 mila camici, non solo i 50 mila “donati”. Il giudice ha deciso che non è reato e ha assolto. Ma per uscire dal pasticcio della fornitura in conflitto d’interessi, Fontana si è ficcato in un pasticcio più imbarazzante: ha fatto sapere al mondo che aveva misteriosi conti all’estero, aperti in Svizzera nel 1997 e nel 2005, poi schermati da società e trust alle Bahamas e in Liechtenstein e infine “sbiancati” con la voluntary disclosure nel 2015. Pezo el tacón del buso, peggio la toppa del buco. Da questo è scaturita la seconda imputazione (autoriciclaggio e falso in voluntary) da cui Fontana è uscito per scelta della stessa Procura, che non è riuscita a ottenere tutti i documenti svizzeri necessari a sostenere l’accusa. Ma intanto i lombardi hanno saputo che il presidente teneva “soldi di famiglia” in Svizzera: “Allora si usava così”, tenta di spiegare. Non spiega però i soldi del secondo conto (aperto nel 2005 con una firma dubbia dalla madre di 82 anni, ormai in pensione a 20 mila euro l’anno), su cui ai 3,4 milioni del primo si aggiungono altri 2 milioni che compaiono magicamente dal nulla. Di chi sono? Da dove vengono? Non lo sapremo mai. Restiamo dunque ai fatti, che siano o non siano reati: Fontana è sempre lo stesso simpatico pasticcione che sui camici mente ai cittadini e continua a tenere nascosti i suoi arzigogolati pasticci svizzero-caraibici. Chi deve chiedere scusa?

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