A Venezia
Gita a San Marco
la chiesa giullare
che sa d’Oriente
In questo secondo racconto lo scrittore rievoca una sua passeggiata in laguna, con i libri di Ruskin come guida: il giro in gondola, i canali che sono strade, l’arrivo alla basilica E tutt’intorno “ la lentezza, il silenzio, la grazia” riservati non solo ai ricchi e ai “ sognatori” ma anche agli abitanti più umili.
di Marcel Proust
Mentre leggevo queste pagine su Venezia, nella mia camera entrava il sole, inondandola per metà. E di lì a poco mi alzavo dal letto, camminavo sul sole adagiato nella mia stanza, scendevo le scale di marmo dove le porte chiuse male lasciavano passare, dagli spifferi, la fresca brezza marina di quelle calde giornate, e giunto davanti al blu del Canal Grande, sul quale lo sguardo si attardava, si riposava, si rapiva, si incantava, come una guancia ancora tiepida del sonno recente si riposa, si attarda, si incanta su un morbido cuscino, si arrivava alla porta dell’albergo, con i tre scalini di cui i primi due erano di volta in volta ricoperti dall’acqua oppure sgocciolanti, perché se da altre parti si abita in riva al mare, qui invece si abita in mare. I palazzi sono magnifici, e la domenica come carrozze, sulla piazza grande della città in festa, si affollano le gondole. Saltate in gondola e diciamo: «Palazzo dei Dogi, San Marco», dove i vostri amici vi aspettano già con i libri. Perché sin dalla vostra infanzia nei giorni di sole conoscete il piacere di dire: «Vi raggiungo», a giorno [fatto], quando l’appuntamento è sicuro, e la strada da percorrere da soli, per ritrovare gli [amici] partiti in anticipo, straripante della pienezza della felicità di una bella giornata, [sia] che si debba seguire il fiume, dove si sentono saltare i pesci e affollarsi intorno a una mollica di pane i girini, dove nei prati circostanti insieme alle margherite si accalcano i ranuncoli, e che ci sia da far scricchiolare il ponticello passandoci sopra, e da camminare nel profumo dei biancospini che, quando uno prova ad annusarli, non sanno più di niente, sia che scivolando in gondola … (la frase è incompiuta, N.d.T) Qui non passerete davanti al pasticcere, non attraverserete la strada per andare all’ombra. Ma il gondo-liere, portandovi verso dove gli avete chiesto, vi dirà indicandoveli: «Palazzo Foscari». A emergere dall’acqua blu, quando li accostate, li costeggiate, e poi li superate in gondola saranno proprio quelli che hanno esaltato i vostri sogni come Anna Karenina o Julien Sorel. Ma quelli non avete potuto conoscerli. Questi invece, protagonisti dei romanzi di Ruskin, da qualche parte esistevano, proprio qui dove siete giunti, in questa strada senza negozi, senza calessi, senza pavimentazione e dovete passarci davanti la sera per andare a cena, o prima di cena per andare a trovare qualcuno.
Naturalmente tutte queste parole: «la gloriosa architettura privata di Venezia», «il glorioso palazzo Foscari », avevano un fascino che non ritrovate qui, quando il gondoliere vi dice indicandovelo: «Palazzo Foscari». Ma un giorno «Foscari», detto dal gondoliere, mentre lo costeggiate in gondola prima di andare a fare visita a qualcuno al Grand Hotel, non sarà meno poetico dell’altro Foscari, quello di prima, che eravate deluso di non ritrovare, «il capolavoro di quella gloriosa scuola di architettura privata di Venezia»; poiché ci sono momenti della nostra vita che la percezione sensibile, la tirannia del presente, l’intervento dell’intelligenza, il reticolo delle cose da fare, il susseguirsi dei desideri egoisti, ci impediscono di vivere, ma che ridiventano gloriosi quando giunge finalmente il giorno della resurrezione.
Scendevo le scale di marmo tutto incappottato, con sottobraccio il plaid da buttarmi sulle spalle in gondola e i libri di Ruskin, e partivamo come per un viaggio per mare, prendendo il largo sul canal grande a colpi di remo, nel blu, sotto il sole, inspirando la brezza, per approdare a qualche tempio emerso dalle acque dove si ormeggiava la gondola. Certi altri giorni andavano ad aspettarci a San Marco e io partivo per le stradine che sembravano un corridoio interno del cortile dell’hotel talmente le case, una vicina all’altra da entrambi i lati, erano attaccate e avevano poco l’aria di stare dalle due parti di una strada. A Venezia i canali sono le strade. Ed è in questo forse che Venezia sorprende di più, per il fatto che altrove i canali, per quanto numerosi, sono canali che attraversano la città. A Venezia non sono canali, sono strade d’acqua, con tutta la caratterizzazione sociale che la parola strada implica. Le diverse attività della vita subiscono dunque la trasposizione che questa particolarità implica. Uscire vuol dire navigare. Non solo passeggiare davanti all’acqua come sulla banchina di un fiume, su una spiaggia o in riva al mare, ma proprio mettere il piede, direttamente uscendo dalla porta, nella gondola. Dove finisce la soglia comincia la strada ossia l’acqua, e la soglia è perennemente schizzata, lavata, inondata, riemergendo nell’ora del reflusso per poi essere di nuovo ricoperta dall’acqua crescente. La gondola non serve solo a passeggiare ma a circolare, alla vita più attiva, più povera, più frettolosa, malgrado il suo lusso che è solo apparente dato che serve a tutto e a tutti.
Il medico fa il giro delle visite in gondola, la casalinga va a fare la spesa, l’impiegato fa le sue commissioni. E con la lentezza, il silenzio, la grazia che sembrano riservati alla pigrizia dei ricchi o al tempo libero dei sognatori, la gondola porta i bagagli al treno, la carne della macelleria all’hotel, il criminale che è stato appena arrestato in galera. Esiste dunque la gondola scolatoio dell’insalata. E c’è anche la gondola carro funebre, visto che i funerali raggiungono per forza il cimitero sull’acqua; i parenti e gli amici che lo seguono piangendo lo seguono in gondola.
E così è l’idea di città a essere singolare a Venezia, più ancora dell’aspetto della città. I fondatori di Venezia non donarono solamente al mondo un’opera d’arte incomparabile. Crearono una nuova forma sociale abbastanza diversa dalla precedente idea di città da poter essere considerata un luogo di agglomerazione e soprattutto una forma di funzionamento sociale nuova. L’idea di togliere al mare e ai suoi canali il senso che da tempo immemorabile vi veniva attribuito, e che noi ancora oggi vi attribuiamo, di elemento intermedio il cui attraversamento, che serva alla pesca, al viaggio, alla scoperta, alla guerra, resta momentaneo, e di conferire loro il senso sociale fino ad allora indissolubilmente legato alle strade, di luogo in cui si va da una casa all’altra, dai fornitori, dagli amici, a messa, al Consiglio, in prigione, al cimitero, è un’invenzione assolutamente geniale in quanto implica una capacità di astrarsi dall’esistente per creare dal nulla. Noi stessi per svecchiare l’idea comune dell’originalità di Venezia (questa città tutta divisa in sezioni da canali) e per cercare di ristabilire la sua vera originalità non siamo forse obbligati a tentare di dare alla nostra mente un po’ di quella stessa forza, che i Veneziani del resto ci inculcano in qualche modo, cosicché facciamo infinitamente meno fatica di loro e abbiamo infinitamente meno merito? Dunque visto che tutto il senso e la personalità della strada vengono [alterati] (e profondamente trasformati dalle necessità dell’elemento così opposto alla terra in cui si imprimono), le strade di Venezia sono in qualche modo decerebrate da ciò che è costitutivo della strada, e somigliano a strade come i morti somigliano agli uomini. Dalle finestre dell’hotel non riuscite a credere di non affacciare su una chiostrina piccola piccola, e che quest’amalgama di case che hanno tutte l’aria di dipendere dalla vostra, di formare un tutt’uno, sia una strada. Ciò che per strada è di tutti, e separa dunque come estranei coloro che abitano case diverse e sono separati dalla strada, che è impersonale, che è di tutti, qui sembra non esistere e le finestre hanno tutte l’aria di orribili parti annesse dell’hotel.
Con il plaid sottobraccio, e i miei Ruskin in mano, arrivo a San Marco che mi sembra diversa da una chiesa quanto Venezia da una città. La personalità della chiesa, costituita, delimitata, apprezzabile in altezza si estende in larghezza, innalzandosi pochissimo dal suolo, e il Dio che sappiamo essere il nostro Dio, ma che sembra quasi un giullare pascià d’Oriente, è collocato così poco in alto rispetto a noi che ci tocca far rifluire le onde di marmo che vengono a spianarglisi intorno e seguire altrove la personalità dell’edificio, abbracciarne tutta la larghezza, non guardare più in alto ma a destra e a sinistra, distribuire in qualche modo l’altezza inesistente tra le lunghe linee di destra e di sinistra, e sentire la nostra idea di chiesa decapitata ed estesa all’infinito trasformarsi da campanile in facciate, trasporsi, incarnarsi in questo monumento nuovo, festivo, basso, tutto in larghezza. E dentro la chiesa, quando in fondo in fondo scorgeremo Nostro Signore con l’aria effeminata, orientale e bizzarra, con il suo gesto trasformato in una posa da grasso siriota equivoco, sentiremo come possano cambiare i segni delle medesime disposizioni morali e come faremmo fatica a riconoscere in esseri di razza diversa gli equivalenti delle cose che chiamiamo distinzione, bontà, coraggio, semplicità, finezza, tatto, nobiltà e a cui corrispondono in quelli del nostro sangue dei segni talvolta simulati, talvolta ingannevoli ma esteticamente certi.
Nessun commento:
Posta un commento