lunedì 21 luglio 2025

Van di moda

 

Inchieste e lavoro nero. Così la moda continua a fondarsi sugli schiavi
DI LEONARDO BISON
Domani al ministero delle Imprese si terrà un tavolo nazionale della moda, con il ministro Adolfo Urso. Doveva tenersi dopo un mese dall’avvio del protocollo per il controllo della filiera, firmato a Milano il 26 maggio e applicato solo in Lombardia. Arriva invece otto giorni dopo il commissariamento di Loro Piana per gravissime violazioni – lavoro nero, mancanza di misure di sicurezza, dormitori nei magazzini – nella sua filiera, in Lombardia. Il protocollo ha un buco, ma il problema è più ampio. L’export è in calo (a causa di guerre, sanzioni, ora dazi), ma “il settore moda si trova a fronteggiare due ulteriori questioni cruciali – sottolinea Valentino Fenni, presidente della sezione calzature di Confindustria Fermo e vicepresidente di Assocalzaturifici – La prima è il tema del controllo della filiera di produzione, la seconda è legata al costo del lavoro. Spetta alle autorità verificare le condizioni di lavoro. Al contempo è necessario però che ogni azienda rifletta sul ricarico che prevede, se un capo viene pagato 150 euro e rivenduto a tremila, qualcosa non funziona, perché il Made in Italy è un valore, non una esagerazione”.
La sovrapposizione tra la contrazione delle vendite e le inchieste della procura di Milano, che hanno portato al commissariamento e alla messa in regola dei bracci operativi di Alviero Martini, Dior, Armani e Valentino, prima di Loro Piana, possono sembrare una tempesta perfetta. Al tavolo di domani, si discuterà (solo con le imprese) dell’avvenuta estensione della cassa integrazione per il comparto, di un nuovo “piano nazionale” ma anche della proposta di una “nuova norma a tutela della legalità”.
I 150 euro di cui parla Fenni (per una giacca imbottita; per una borsa si sta sulla cinquantina) non arrivano al produttore finale, ma al primo degli appalti. Già dal 2018 nel distretto tessile di Prato – il più importante – erano iniziati gli scioperi nelle aziende cinesi che lavoravano e producevano per i grandi brand del Made in Italy. Laboratori tessili sconosciuti al fisco, o con lavoratori in nero, vengono individuati ogni settimana, dalla Lombardia al Veneto alla Campania. Il tema è strutturale, come ha avuto ben chiaro fin dai primi commissariamenti il Tribunale di Milano. Utilizzando le parole del sindacato Sudd Cobas, che per primo ha organizzato i lavoratori immigrati del Pratese che lavoravano 12-14 ore al giorno, 7 giorni su 7, “non potendo delocalizzare in Asia il Made in Italy, si sono portate le condizioni di lavoro di quei paesi asiatici in Italia”.
Il recente protocollo di Milano, nato dopo mesi di lavoro e confronto tra prefettura, organizzazioni sindacali e datoriali, mostra tutta la fatica delle istituzioni ad imporsi, puntando a “costruire forme di responsabilizzazione e strumenti premiali in favore delle imprese operanti nel settore della moda” che contribuiscono a contrastare l’illegalità e ad assicurare la “piena trasparenza lungo la filiera”. Crea una piattaforma regionale con tutte le informazioni sui fornitori e la manodopera impiegata, ma è ad adesione volontaria, e i brand non sono vincolati all’uso di fornitori accreditati e censiti. Ma il vulnus è un altro, nota Deborah Lucchetti della campagna internazionale Abiti Puliti: “Il protocollo non aumenta i costi per i committenti. E fino a quando i brand non si decideranno almeno a raddoppiare i prezzi per le forniture, sarà impossibile debellare il caporalato nelle filiere”. Anche nell’inchiesta su Loro Piana – nata dal pestaggio di un lavoratore cinese – l’azienda in appalto, che a sua volta subappaltava ai cinesi, ha detto agli inquirenti di averlo fatto per non perdere il cliente. Se ordina 6-7 mila capi l’anno, la possibilità di trattare sui prezzi è limitata o nulla.
L’altro problema, nel protocollo come nella filiera, è la centralità degli audit, controlli a cui le aziende si sottopongono volontariamente, condotti da compagnie private specializzate pagate dalle aziende, che utilizzano queste certificazioni anche per una questione di immagine. “È evidente – nota Lucchetti – che un sistema così non può tutelare i lavoratori. I controllori si spingono fino a dove gli è concesso”. Un tema che non è solo italiano, in Asia ci sono stati casi di stabilimenti da poco certificati da audit esterni, dove sono esplosi incendi uccidendo lavoratori. Anche l’Europa si è posta il problema, con una direttiva sulla sostenibilità ambientale e sociale delle filiere che dovrebbe obbligare i committenti a occuparsene: ma entrerà in vigore nel 2027.
C’è però un tema di immagine che riguarda questa specifica filiera, raccontata costantemente come eccellenza e capace, complice un mix di spesa pubblicitaria e relazioni, di riuscire ad avere un’agibilità che sarebbe pressoché impossibile ad aziende di altri settori travolte da simili inchieste. Max Mara ha potuto sfilare alla Reggia di Caserta (un museo dello Stato) all’inizio di luglio nonostante poche ore prima avesse annunciato lo stop allo sviluppo di un polo della moda a Reggio Emilia, dopo le denunce delle dipendenti sulle condizioni di lavoro. Gucci, nonostante l’accertata maxi-evasione da 3 miliardi di euro di Kering (il gruppo di Bernard Arnault di cui fa parte), può sfilare nelle piazze pubbliche di Firenze ogni anno. Il mecenatismo e la pubblicità costano immensamente meno della regolarizzazione di tutti i lavoratori della filiera, e anche del raddoppio dei prezzi di ogni commessa.

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