Analisi Approfondita del Capitalismo Attuale
Introduzione
Il capitalismo contemporaneo presenta dinamiche complesse, frutto di decenni di evoluzione economica e politica. Questo report esamina quattro temi chiave del modello capitalistico odierno: (1) l’ascesa del neoliberismo e della deregolamentazione e i loro effetti, (2) le disuguaglianze economiche e sociali in crescita, (3) le trasformazioni portate dal capitalismo digitale – con il potere delle Big Tech e le nuove forme di lavoro – e (4) il rapporto tra il sistema capitalistico e la crisi climatica, tra impatti ambientali e tentativi (spesso ambigui) di sostenibilità. Ciascuna sezione fornirà un’analisi dettagliata, con riferimenti a fonti aggiornate e affidabili per contestualizzare le tendenze osservate.
1. Neoliberismo e Deregolamentazione
Il neoliberismo ha preso piede a partire dagli anni Settanta come risposta alla stagnazione del modello precedente. Esso promuoveva la riduzione dell’intervento statale nell’economia, la liberalizzazione dei mercati e la fiducia nel libero scambio globaleosservatore.ch. Figure politiche come Margaret Thatcher e Ronald Reagan furono emblematiche di questa svolta ideologica, che ridefinì i confini tra pubblico e privato in molte economie avanzateosservatore.ch. In pratica, il neoliberalismo propugnava l’idea che i mercati, lasciati a se stessi, si autoregolassero in modo ottimale, relegando lo Stato a un ruolo minimale.
Politiche chiave del neoliberismo: Negli ultimi decenni, molte nazioni hanno adottato riforme neoliberiste. Tra queste possiamo elencare: la privatizzazione di imprese e servizi pubblici, la deregulation dei mercati finanziari e del lavoro, l’apertura commerciale con trattati di libero scambio e la rimozione di controlli sui capitali, la riduzione delle aliquote fiscali per imprese e redditi elevati, nonché l’austerità nella spesa pubblica e nel welfare. Tali misure hanno spesso comportato anche un indebolimento dei sindacati e delle tutele per i lavoratori, nel tentativo di aumentare la “flessibilità” del mercato del lavoro. Come nota l’analista Robert Kuttner, la “controrivoluzione neoliberista” degli anni ’80-’90 ha invertito o indebolito quasi tutti i pilastri del precedente capitalismo regolato – dalla tassazione progressiva e i trasferimenti sociali, alle politiche antitrust, fino alla regolamentazione bancaria e al potere contrattuale dei lavoratoriprospect.org. L’insieme di queste politiche compone il quadro della deregolamentazione e liberalizzazione economica tipico dell’era neoliberista.
Impatto economico e globale: Le riforme neoliberiste hanno contribuito a una forte globalizzazione dell’economia. Da un lato, si è avuta una crescita del commercio internazionale e degli investimenti globali, con catene del valore estese su più continenti. Dall’altro lato, però, sono emerse anche conseguenze negative significative. Numerosi studi indicano che a partire dagli anni ’80 la quota di ricchezza prodotta è stata sempre più appannaggio del capitale rispetto al lavoro, mentre la sicurezza economica della classe media è andata erodendosiiltascabile.com. In altre parole, i profitti e i redditi da capitale sono aumentati molto più dei salari, spostando la bilancia dei rendimenti “dal lavoro ai capitali”iltascabile.com. Questo squilibrio ha alimentato un aumento delle disuguaglianze, di cui parleremo nella sezione successiva. Persino la crescita economica complessiva non ha raggiunto gli esiti sperati: se confrontata con l’epoca precedente di capitalismo più regolato (il dopoguerra fino agli anni ’70), la fase neoliberista ha visto una crescita più lenta e instabile in molti paesi, un risultato paradossale rispetto alle promesse inizialiprospect.org. In compenso, si è assistito a una concentrazione di mercato sempre maggiore: la deregulation spesso non ha prodotto la concorrenza “salutare” attesa, bensì la formazione di oligopoli e monopoli in diversi settoriprospect.org. Inoltre, le maggiori libertà concesse alla finanza hanno talora innescato gravi crisi finanziarie: emblematico è il caso del crollo del 2008, attribuito in buona parte alla deregolamentazione del settore bancario e dei prodotti finanziari derivatiprospect.org. Quella crisi scoppiata negli Stati Uniti ha generato costi economici colossali a livello globale (migliaia di miliardi di dollari persi in PIL e posti di lavoro) e ha richiesto massicci interventi pubblici per salvare il sistema finanziarioprospect.org.
In sintesi, il paradigma neoliberista e la deregolamentazione hanno rimodellato l’economia mondiale negli ultimi 40 anni. Gli effetti socio-economici non sono stati uniformi: c’è stato un generale incremento dell’interdipendenza economica tra paesi e della ricchezza complessiva, ma i benefici sono risultati concentrati. Molti osservatori sottolineano come le politiche neoliberali non abbiano mantenuto le promesse di prosperità diffusa, poiché i vantaggi sono andati in modo sproporzionato a un segmento ristretto e già benestante della popolazione (il famoso “1%” o meno)transform-italia.it. Un’analisi di Oxfam riassume che decenni di liberalizzazioni e deregolamentazione (dai mercati finanziari a quelli del lavoro) hanno condizionato “le regole del gioco” a vantaggio di interessi particolari, permettendo a pochi di arricchirsi sfrenatamente mentre per molti si sono create insicurezza e sfruttamentooxfamitalia.org. In altre parole, il neoliberismo ha accentuato squilibri di potere economico: ai grandi attori privati è stata concessa “licenza di crescere” (spesso formando nuovi monopoli, delocalizzando produzioni dove il lavoro costa meno e approfittando di paradisi fiscali), mentre lo Stato ha ritirato parte della sua protezione verso lavoratori e classi medieoxfamitalia.org. Ciò ha spianato la strada a maggiori profitti per pochi e a salari stagnanti, diritti indeboliti e austerità per molti.
Negli ultimi anni, di fronte alle tensioni sociali emerse, si assiste a ripensamenti parziali di questo modello. Ad esempio negli Stati Uniti l’amministrazione Biden ha promosso politiche economiche con un ruolo più attivo dello Stato (investimenti in infrastrutture, sostegno alla domanda interna, regolamentazione antitrust delle Big Tech, ecc.), tanto che alcuni commentatori hanno parlato di Bidenomics come di un’abiura del vecchio “Washington Consensus” neoliberistailtascabile.com. Si è cominciato a ipotizzare un “nuovo Washington Consensus” di segno opposto, in cui si privilegiano economie nazionali più solide e regolamentate, minor interdipendenza e maggior prudenza nei flussi di capitali e tecnologieiltascabile.com. Resta da vedere quanto queste nuove tendenze incideranno strutturalmente, ma il semplice fatto che si discuta di fine dell’era neoliberista illustra l’impatto e, in parte, le contraddizioni accumulate da quel modello nelle ultime decadi.
2. Disuguaglianze Economiche e Sociali
Un tratto distintivo del capitalismo contemporaneo è l’aumento delle disuguaglianze a vari livelli: nella distribuzione della ricchezza e del reddito, nelle opportunità di mobilità sociale e nelle condizioni economiche tra diverse aree del mondo. Nonostante la crescita economica globale, la forbice tra ricchi e poveri si è ampliata in molti paesi, con una concentrazione della ricchezza in mano a una ristretta élite e una stagnazione delle condizioni per le classi medio-basse. Di seguito analizziamo alcuni aspetti chiave di queste disuguaglianze.
Concentrazione della ricchezza: Negli ultimi decenni, la ricchezza globale si è concentrata in misura sempre maggiore al vertice. Il numero dei miliardari e il valore dei loro patrimoni sono cresciuti in modo impressionante. Solo nel 2024, il patrimonio cumulativo dei miliardari nel mondo è aumentato di circa 2.000 miliardi di dollari, passando da 13mila a 15mila miliardi (+15%)osservatoriodiritti.it. Si tratta di uno dei maggiori incrementi annuali mai registrati. In media, i 10 uomini più ricchi del pianeta nel 2024 hanno accresciuto le proprie fortune di quasi 100 milioni di dollari al giornoosservatoriodiritti.it. Questa concentrazione è senza precedenti storici: oggi la ricchezza detenuta dai miliardari equivale a circa il 14% del PIL mondiale, oltre tre volte la quota che rappresentava nel 2000oxfamitalia.org. Un dato emblematico è che i 20 individui più facoltosi possiedono patrimoni complessivi superiori all’intero PIL dell’Africa subsaharianaoxfamitalia.org. Parallelamente, la classe media in molti paesi avanzati si è ristretta. Il “top 1%” più ricco beneficia di una fetta crescente delle risorse, mentre larga parte della popolazione vede aumentare di poco (o per nulla) il proprio benessere. Questo squilibrio ha anche una dimensione geografica: ad esempio, 3,6 miliardi di persone nel mondo vivono ancora con meno di 6,85 dollari al giorno (soglia di povertà relativa secondo la Banca Mondiale), un numero rimasto sostanzialmente invariato dal 1990fideliter.it. In altre parole, negli ultimi trent’anni i progressi nella riduzione della povertà globale estrema sono stati molto modesti, nonostante la crescita economica – segno che i benefici dello sviluppo sono stati distribuiti in modo altamente diseguale.
Stagnazione dei salari e redditi medi: Un fattore che alimenta le disuguaglianze interne ai paesi è la mancata crescita dei salari reali per i lavoratori comuni. In molte economie avanzate, i redditi da lavoro per la classe operaia e impiegatizia sono rimasti al palo se aggiustati per l’inflazione, anche mentre la produttività e i profitti aziendali aumentavano. Ad esempio, in Italia i salari reali medi nel 2020 erano inferiori del 2,9% rispetto al 1990, unico caso tra i grandi paesi UE in cui i lavoratori guadagnano meno di trent’anni primacorriere.it. Questo “ritardo storico” si è ulteriormente aggravato con l’alta inflazione del 2022-2023, erodendo il potere d’acquisto dopo decenni di redditi fermicorriere.itcorriere.it. Anche negli Stati Uniti e nel Regno Unito, la crescita dei salari mediani dagli anni ’80 ad oggi è stata molto più lenta rispetto alla crescita del PIL pro capite, indicando che i frutti dell’espansione economica si sono accumulati in larga parte altrove (profitti, rendite finanziarie, compensi del top management). In termini concreti, ciò significa che milioni di lavoratori oggi faticano a mantenere lo stesso tenore di vita dei loro genitori: il costo di case, istruzione e sanità è aumentato, mentre i salari no. Durante la recente crisi pandemica questo trend si è accentuato: tra il 2020 e il 2022 i miliardari hanno visto aumentare enormemente i propri patrimoni, mentre i salari reali sono rimasti stagnanti o addirittura calanti per molti lavoratori comunitransform-italia.it. L’effetto combinato è un drastico aumento della disuguaglianza di reddito disponibile.
Mobilità sociale ridotta: L’idea che ogni individuo, con impegno e talento, possa migliorare la propria condizione economica (“rags to riches” o ascensore sociale) è messa in crisi dai dati odierni. Nelle società occidentali avanzate, la mobilità sociale si è fortemente bloccata. Spesso chi nasce povero resta povero, e chi nasce ricco mantiene i propri privilegi. Un indicatore significativo: in gran parte dei paesi OCSE, la correlazione tra il reddito dei genitori e quello dei figli è aumentata, segno che la posizione di partenza determina sempre più il destino economico di una persona. Negli Stati Uniti, ad esempio, soltanto circa il 50% dei nati negli anni ’80 riesce a guadagnare più dei propri genitori alla stessa età, mentre per i nati negli anni ’40 questa probabilità era del 90%opportunityinsights.org. In Italia e altri paesi europei la situazione è simile: chi nasce in un contesto svantaggiato oggi vede la propria mobilità sociale fortemente pregiudicata da vari fattori come la bassa crescita economica, le disuguaglianze crescenti e l’accesso precario a istruzione e lavori di qualitàeticaeconomia.iteticaeconomia.it. Inoltre, gran parte della ricchezza nelle società odierne non è frutto di “self-made men” come spesso narrato, bensì è ereditata o derivante da rendite: si stima che circa il 60% della ricchezza dei miliardari mondiali provenga da eredità, nepotismo, posizioni monopolistiche o altre circostanze che poco hanno a che fare con l’innovazione o il meritofideliter.it. Ciò significa che il capitalismo attuale rischia di cristallizzare una sorta di “aristocrazia economica”, dove i ricchi trasmettono i loro vantaggi ai discendenti e la scala sociale diventa sempre meno mobile. In società segnate da queste forti asimmetrie di potere e ricchezza, la retorica del “merito” spesso non basta a garantire pari opportunità: la realtà mostra che la libertà di migliorare la propria condizione non è uguale per tutti, e anzi le persone partite in svantaggio restano bloccate a causa delle barriere economiche e socialieticaeconomia.it.
Divario Nord-Sud e disparità globali: Le disuguaglianze non si manifestano solo all’interno dei singoli paesi, ma anche tra diverse aree del mondo. Il cosiddetto divario Nord-Sud indica la differenza di sviluppo economico e benessere tra i paesi ricchi (Europa, Nord America, Giappone, ecc.) e quelli in via di sviluppo (gran parte di Africa, Asia meridionale, America Latina). Negli ultimi decenni alcune economie emergenti (Cina, India, Brasile ecc.) sono cresciute rapidamente, riducendo in parte la distanza dai paesi avanzati. Tuttavia, molte regioni – specialmente nei paesi meno sviluppati – sono rimaste indietro. Ancora oggi, oltre 700 milioni di persone vivono in condizioni di povertà estrema (con meno di 2,15 $ al giorno), e circa 3,5-3,6 miliardi di persone vivono con meno di 6-7 $ al giorno, una situazione pressoché invariata da decenniosservatoriodiritti.itfideliter.it. Ciò implica che metà della popolazione mondiale fatica ad accedere ai livelli di consumo e servizi che nei paesi ricchi sono dati per scontati (acqua potabile, elettricità, istruzione secondaria, assistenza sanitaria di base). La globalizzazione neoliberista ha sollevato il PIL di molti paesi, ma i benefici non si sono tradotti in un livellamento globale: anzi, alcuni studi evidenziano che la quota di crescita assorbita dai paesi più ricchi e dalle élite interne ad essi è stata sproporzionatatransform-italia.it. Inoltre, problemi come il cambiamento climatico (di cui soffrono maggiormente le regioni povere) e la recente inflazione globale colpiscono più duramente le popolazioni vulnerabili, ampliando ulteriormente il divario. Il risultato è un mondo dove coesistono opulenza e indigenza: a fronte di miliardari sempre più facoltosi, miliardi di individui rimangono in condizioni di deprivazione o vulnerabilità economica, spesso concentrati nel Sud del mondo. Questo squilibrio rappresenta non solo un problema etico, ma frena anche lo sviluppo globale e genera instabilità (flussi migratori, conflitti per le risorse, tensioni geopolitiche tra aree ricche e aree povere, ecc.).
Le crescenti disuguaglianze economiche e sociali hanno conseguenze profonde. Sul piano politico e sociale, una forte concentrazione di ricchezza può tradursi in concentrazione di potere, indebolendo la democrazia: quando una piccola élite controlla gran parte delle risorse, può influenzare le istituzioni a proprio vantaggio (attraverso lobby, controllo dei media, finanziamento delle campagne elettorali). Allo stesso tempo, larghe fasce di popolazione che si percepiscono escluse dal benessere possono perdere fiducia nelle istituzioni e nel modello economico, alimentando rabbia sociale, populismo e polarizzazione. Studi hanno dimostrato che società più egualitarie vantano migliori indicatori di benessere collettivo, minore criminalità e istituzioni più stabili, mentre disuguaglianze estreme erodono la coesione sociale e possono portare a instabilitàfideliter.itfideliter.it. Di fronte a ciò, organizzazioni internazionali come l’ONU e gruppi di ricerca come Oxfam invocano riforme per redistribuire la ricchezza (es. tramite sistemi fiscali più progressivi, salari minimi dignitosi, investimenti in istruzione e sanità pubblica) e per rilanciare la mobilità sociale, così da evitare che il capitalismo contemporaneo degeneri in un sistema statico di privilegi ereditari. La sfida per i prossimi anni sarà dunque riconciliare crescita economica e equità, affrontando quei meccanismi che negli ultimi decenni hanno prodotto divari sempre più marcati.
3. Capitalismo Digitale: Big Tech, Dati e Nuove Forme di Lavoro
Il progresso tecnologico e la rivoluzione di Internet hanno dato origine a una nuova fase, spesso chiamata capitalismo digitale o “capitalismo delle piattaforme”. In questo modello, le tecnologie digitali e i dati svolgono un ruolo centrale nell’economia. Negli ultimi vent’anni sono emersi colossi globali dell’hi-tech che dominano interi mercati, mentre sono cambiate profondamente le modalità di lavorare e creare valore. Di seguito approfondiamo tre aspetti cruciali: il potere delle Big Tech, la monetizzazione dei dati personali e le nuove forme di lavoro (piattaforme gig economy, automazione e AI).
Oligopoli delle Big Tech: Aziende come Google, Amazon, Apple, Microsoft, Meta (Facebook) – spesso chiamate Big Tech – hanno raggiunto dimensioni e potere senza precedenti. Grazie a effetti di rete, capitali enormi e un’innovazione rapida, queste imprese controllano oggi segmenti chiave dell’economia digitale a livello globale. Alcuni dati illustrano bene il loro potere di mercato: Google detiene circa l’89% del mercato globale dei motori di ricerca online; Apple controlla oltre il 50% del mercato statunitense degli smartphone e tablet; Microsoft fornisce il sistema operativo a circa il 62% dei computer desktop nel mondo; Facebook (ora Meta) e la sua controllata Instagram insieme catturano circa il 57% del mercato dei social media occidentalim.fastbull.com. Questa posizione dominante – conquistata in poco più di due decenni – fa sì che le Big Tech fungano da gatekeeper (guardiani) dell’economia digitale: controllano piattaforme attraverso cui passano informazioni, comunicazioni, acquisti e servizi usati da miliardi di persone. La loro capitalizzazione di mercato complessiva ha superato i 7-8 trillion (migliaia di miliardi) di dollari negli ultimi anni, rendendole tra le entità economiche più ricche al mondo (spesso con fatturati paragonabili al PIL di intere nazioni). Questo strapotere ha sollevato preoccupazioni riguardo a comportamenti anti-concorrenziali: le autorità antitrust, specialmente in UE e USA, hanno avviato indagini e cause legali accusando alcune Big Tech di pratiche monopolistiche (ad esempio Google per l’abuso di posizione dominante nella ricerca e nella pubblicità online, Apple per le restrizioni imposte sull’App Store, Meta per acquisizioni “killer” di concorrenti emergenti, Amazon per l’uso dei dati dei venditori terzi, ecc.)agendadigitale.eu. Il timore è che poche aziende stiano accumulando un potere sistemico sull’economia digitale, potendo dettare le regole del gioco, estrarre profitti elevati (rendite da monopolio) e ostacolare l’innovazione di potenziali rivali. Le Big Tech influenzano anche il dibattito pubblico e politico: piattaforme come Facebook, YouTube o Twitter (oggi X) sono diventate infrastrutture dell’informazione, con implicazioni sul fronte della disinformazione, della privacy e della sicurezza nazionale. In sintesi, il capitalismo digitale è oggi caratterizzato da mega-imprese oligopolistiche che concentrano ricchezza e controllo, in una misura che molti analisti paragonano all’era dei “robber barons” di inizio ’900 (quando i magnati dell’acciaio, del petrolio o delle ferrovie dominavano l’economia americana). La differenza è che ora il potere è nelle mani di chi controlla gli algoritmi e i dati.
Monetizzazione dei dati e capitalismo della sorveglianza: Un elemento fondante del capitalismo digitale è che i dati personali degli utenti sono diventati una risorsa di enorme valore economico. Si è affermato il modello in base al quale molti servizi digitali sono apparentemente gratuiti (motori di ricerca, social network, email, app, ecc.), ma in realtà gli utenti “pagano” cedendo informazioni su di sé. Come è stato detto, «se un servizio online è gratuito, allora il prodotto sei tu». Le interazioni digitali di ciascuno di noi – ricerche, clic, acquisti, post sui social, posizione GPS, dati di salute dagli smartwatch, e così via – vengono costantemente tracciate, raccolte e analizzatedalle piattaforme. Questo modello economico si basa proprio sull’estrazione, elaborazione e monetizzazione dei dati personali degli individui: ogni azione online (dai social media agli acquisti e persino ai semplici movimenti sul web) viene trasformata in valore economicoilpartitocomunistaitaliano.it. Le Big Tech hanno perfezionato algoritmi di profilazione che utilizzano enormi moli di dati (Big Data) per predire e influenzare il comportamento degli utenti a scopi commerciali. Ad esempio, Google e Meta/Facebook generano la quasi totalità dei loro ricavi tramite la pubblicità mirata: nel 2024 Meta ha incassato circa 154 miliardi di dollari in introiti pubblicitarishopify.com, e questa cifra costituisce oltre il 98% dei suoi ricavi totali – segno che l’intero impero Facebook/Instagram/WhatsApp è sostenuto dalla vendita di annunci profilati sfruttando i dati degli utenti. Allo stesso modo, la pubblicità legata alle ricerche utenti e alle attività su YouTube rappresenta il core business di Google (Alphabet). Questo paradigma è stato definito dalla studiosa Shoshana Zuboff “capitalismo della sorveglianza”: un nuovo ordine economico fondato sul controllo e la manipolazione del comportamento tramite la sorveglianza digitale di massailtascabile.com. Le aziende tech non si limitano a osservare le nostre preferenze: le orientano, proponendoci contenuti e suggerimenti costruiti ad hoc per massimizzare il nostro coinvolgimento (e quindi il tempo speso online, che genera ulteriori dati e opportunità di vendita). Tale sistema di potere – che Zuboff definisce “un nuovo sistema di potere fondato sul controllo del comportamento individuale”iltascabile.com – solleva serie questioni di privacy, libertà e democrazia. I dati raccolti possono infatti essere usati non solo per fini commerciali, ma anche (nel peggiore dei casi) per sorveglianza governativa, discriminazioni algoritmiche, propaganda politica mirata e altre forme di condizionamento sociale. Ad esempio, lo scandalo Cambridge Analyticaha mostrato come i dati di Facebook fossero stati sfruttati per profilare elettori e inviare messaggi politici personalizzati nelle campagne elettorali. Nel capitalismo digitale attuale, il dato è il nuovo petrolio: una risorsa estratta in grandi quantità e venduta per trarne profitto. Questo avviene spesso senza piena consapevolezza o controllo da parte degli utenti, che difficilmente possono sottrarsi alla raccolta (basti pensare che anche navigando su siti apparentemente innocui, decine di tracker di terze parti possono registrare le nostre attività). Le istituzioni stanno cercando di reagire: in UE è entrato in vigore il regolamento GDPR sulla protezione dei dati e più di recente il Digital Markets Act e Digital Services Act per limitare gli abusi delle grandi piattaforme. Malgrado ciò, resta il fatto che la monetizzazione dei dati è al centro del modello di business digitale e rappresenta una novità rispetto al capitalismo industriale del passato. Se un tempo il controllo delle materie prime e della forza lavoro era la chiave del potere economico, oggi lo è (anche) il controllo dei flussi di informazioni personali.
Gig economy e nuove forme di lavoro precario: La digitalizzazione ha trasformato anche il mondo del lavoro. Da un lato, sono nate professioni e servizi interamente nuovi (si pensi agli sviluppatori di app, ai gestori di e-commerce, ai creatori di contenuti digitali). Dall’altro, molte attività tradizionali sono state “piattaformizzate”, dando vita alla cosiddetta gig economy o “economia dei lavoretti”. Piattaforme come Uber, Lyft, Deliveroo, Glovo, Upwork, Fiverr, Amazon Mechanical Turk e molte altre fungono da intermediari tra domanda e offerta di lavoro frammentato: autisti, rider per consegne a domicilio, piccoli lavori freelance, micro-compiti online. Queste piattaforme organizzano il lavoro tramite algoritmi, suddividendo le prestazioni in compiti spesso brevi e pagati a cottimo. In teoria offrono flessibilità – permettono a chiunque di guadagnare qualcosa mettendo a disposizione il proprio tempo – ma in pratica hanno creato una nuova classe di lavoratori precari: autonomi solo di nome, privi delle protezioni riservate ai dipendenti (niente salario minimo garantito, ferie, malattia, contributi pensionistici, ecc.), e sottoposti a un controllo stringente da parte delle piattaforme. Studi sul campo hanno rivelato che gli algoritmi fungono da veri “datori di lavoro”: i lavoratori della gig economy sono interamente gestiti dal software, che decide chi prende un incarico, traccia la performance via GPS, valuta con rating e talvolta può disattivare (licenziare) il lavoratore in caso di punteggi bassisiamomine.com. Questa realtà è stata ben descritta dal sociologo Antonio Casilli con l’espressione “schiavi del clic”siamomine.com, riferita a quel vasto esercito di micro-lavoratori online (come i clickworkers che filtrano i contenuti sui social o addestrano le IA risolvendo captcha, etichettando immagini, ecc.). In molti casi la gig economy frammenta il lavoro umano in mansioni elementari e ripetitive, remunerate pochissimo, e nascoste dietro l’apparenza dell’automazione: ad esempio, dietro a certe “intelligenze artificiali” che rispondono alle domande, ci sono lavoratori umani che hanno manualmente preparato dati, corretto errori e svolto compiti che le macchine non sanno fare. L’autrice Mary L. Gray ha evidenziato questa ironia: “Dimenticate l’ascesa dei robot e la minaccia distante dell’automazione. Il problema immediato è l’ubertizzazione del lavoro umano”, cioè la frammentazione di impieghi in compiti esternalizzati e precarisiamomine.com. La piattaformizzazione ha quindi reso la precarietà strutturale per molti lavoratori: paghe instabili, nessuna carriera, competizione globale (un lavoratore su piattaforma di un paese povero può accettare compensi inferiori, spingendo al ribasso i compensi in tutto il mondo). I governi stanno cominciando a regolamentare il settore (ad esempio con sentenze che riconoscono alcuni rider come lavoratori subordinati), ma il fenomeno è in piena espansione.
Automazione e impatto dell’AI sul lavoro: Parallelamente alla gig economy, un altro grande tema del capitalismo digitale è la crescente automazione dei processi produttivi tramite robotica e Intelligenza Artificiale (AI). L’innovazione tecnologica – dall’intelligenza artificiale generativa ai sistemi robotici avanzati – sta gradualmente spostando la frontiera tra attività svolte dall’uomo e attività svolte dalle macchine. Questo trend non è nuovo (l’automazione industriale esiste da decenni), ma le tecnologie digitali odierne stanno rendendo automatizzabili anche compiti cognitivi e servizi. Ad esempio, algoritmi di AI sono in grado di redigere report finanziari di base, rispondere all’assistenza clienti via chatbot, diagnosticare immagini mediche, guidare veicoli, tradurre lingue in tempo reale e così via. Ciò sta creando sia opportunità sia timori. Sul lato opportunità, la produttività potrebbe aumentare notevolmente e nasceranno nuovi mestieri specializzati nella gestione delle AI, nella manutenzione dei robot, nello sviluppo di software avanzati. Si parla già di milioni di nuovi posti di lavoro “tecnologici” che l’AI potrebbe generare entro il 2030 (ad esempio, +170 milioni di nuovi ruoli globalmente secondo un rapporto del World Economic Forum)tgwebai.it. Tuttavia, sul lato dei timori, l’automazione minaccia di sostituire molti lavori esistenti soprattutto di media e bassa qualifica. Secondo stime di McKinsey e altre istituzioni, entro il 2030 tra 75 e 375 milioni di lavoratori nel mondo potrebbero essere rimpiazzati o dover cambiare occupazione a causa dell’introduzione di macchine intelligenti e processi automatizzati (la forbice è ampia perché dipende dalla velocità di adozione delle tecnologie)onroadmag.com. Anche previsioni più conservative concordano su un impatto significativo: settori come la manifattura, i trasporti, la logistica, il commercio al dettaglio, i call center, la contabilità di base, potrebbero vedere una riduzione netta di posti di lavoro man mano che le macchine diventano economicamente più convenienti dell’uomo. L’IA generativa (es. chatGPT) ha recentemente mostrato capacità di svolgere compiti prima impensabili per un software, come scrivere testi articolati, generare codice, creare immagini o video: ciò potrebbe intaccare perfino professioni creative o cognitive (giornalisti, copywriter, designer, programmatori junior). La storia ci insegna che ogni rivoluzione tecnologica ha sì eliminato dei lavori ma ne ha creati di nuovi; tuttavia, la transizione può essere dolorosa e i nuovi ruoli richiedono competenze diverse, spesso più elevate. Oggi il rischio è che il mercato del lavoro si polarizzi ulteriormente: da una parte pochi specialisti altamente qualificati (ben pagati) che progettano, controllano e migliorano le macchine; dall’altra una massa di lavoratori poco qualificati impiegati in servizi a bassa produttività (spesso precari), mentre la fascia intermedia di occupazioni qualificate ma ripetitive viene erosa dall’automazione. È il fenomeno già osservato negli USA e in Europa di scomparsa dei “blue-collar” industriali e riduzione dei “white-collar” amministrativi, a fronte di più lavori nel settore tecnologico e insieme più lavori umili nel terziario. I governi sono chiamati a gestire questa trasformazione con politiche attive: riqualificazione professionale di massa, adeguamento dei sistemi educativi, e forse formule come la riduzione dell’orario di lavoro o un reddito minimo garantito, se la disoccupazione tecnologica dovesse salire. Il capitalismo digitale, insomma, da un lato aumenta l’efficienza e apre spazi economici nuovi, dall’altro mette sotto pressione la forza lavoro tradizionale. Il rischio è una società duale in cui pochi traggono enormi benefici dalla tecnologia (azionisti delle Big Tech, talenti dell’AI) mentre molti vedono peggiorare la propria sicurezza economica. Questa tensione è già percepibile e rappresenta una delle sfide cruciali dei prossimi anni: come far sì che l’innovazione digitale sia inclusiva e non lasci indietro fasce crescenti di popolazione.
4. Capitalismo e Crisi Climatica
L’attuale sistema capitalistico si trova a confrontarsi con quella che è probabilmente la più grande sfida del XXI secolo: la crisi climatica e ambientale. Il modello di crescita economica basato su produzione di massa, consumo sempre crescente e uso intensivo di fonti fossili ha portato a un forte degrado degli ecosistemi: riscaldamento globale, perdita di biodiversità, inquinamento diffuso di aria, acqua e suolo. In questa sezione analizziamo gli impatti ambientali del capitalismo odierno, il fenomeno del greenwashing (quando aziende o governi proclamano azioni “verdi” poco sostanziali) e il dibattito sulla compatibilità tra crescita economica e sostenibilità ecologica.
Impronta ecologica del modello capitalistico: Dall’inizio dell’era industriale, lo sviluppo economico è andato di pari passo con l’aumento delle emissioni di gas serra e lo sfruttamento delle risorse naturali. Il capitalismo, con la sua enfasi sulla crescita continua e sull’accumulazione di capitale, ha storicamente ignorato o esternalizzato i costi ambientali. Le imprese hanno avuto scarse incentivazioni a ridurre l’inquinamento se ciò intaccava i profitti, a meno di regolamentazioni esterne. Un esempio lampante è il cambiamento climatico causato dall’accumulo di CO₂ e altri gas serra: per decenni l’economia globale ha bruciato carbone, petrolio e gas naturale per alimentare la crescita, senza che il prezzo dei prodotti riflettesse i danni climatici futuri. L’ex capo economista della Banca Mondiale, Sir Nicholas Stern, ha definito il cambiamento climatico “il più grande fallimento di mercato della storia”, proprio perché il sistema dei prezzi del mercato capitalistico non ha saputo incorporare il costo delle emissioni climalteranti, portando il pianeta sulla strada di un riscaldamento pericolosoprospect.org. Oggi siamo già a circa +1,2 °C rispetto all’era preindustriale, con impatti evidenti: ondate di calore estreme, siccità e incendi, eventi meteo distruttivi, innalzamento del livello del mare. Questi effetti mostrano i limiti ambientali del modello di crescita tradizionale. L’era neoliberista, in particolare, con la sua enfasi sulla deregolamentazione, ha visto aumentare a ritmi senza precedenti sia le emissioni globali di CO₂ sia la deforestazione (trainata dalla domanda di materie prime agricole e minerarie), aggravando la crisi ecologica. Inoltre, la globalizzazione ha spesso significato delocalizzarele attività ad alto impatto ambientale verso paesi con norme meno stringenti, “nascondendo” l’inquinamento nelle catene di fornitura internazionali. Ad esempio, molti paesi europei mostrano una stabilizzazione delle emissioni sul proprio territorio, ma se si conteggiano le emissioni incorporate nei beni importati (spesso prodotti in Cina, India, ecc. usando energia fossile), la loro impronta è ancora in crescita. Secondo un rapporto dell’European Environment Agency (EEA), non si sta verificando un reale disaccoppiamento tra crescita economica e pressioni ambientali: a livello globale, l’aumento del PIL continua ad andare di pari passo con l’aumento del consumo di risorse e dell’impatto ecologico, e “è improbabile che la crescita possa essere assolutamente e duraturamente disaccoppiata dagli impatti ambientali”economiacircolare.com. In pratica, la crescita infinita su un pianeta finito è un paradigma che sta mostrando il fiato corto. Il capitalismo estrattivo – definito anche capitalocene da alcuni studiosi – ha portato a consumare il capitale naturale (foreste, stock ittici, fertilità dei suoli, stabilità del clima) più rapidamente di quanto esso possa rigenerarsi.
Greenwashing e impegni mancati: Negli ultimi anni, di fronte all’allarme climatico sempre più pressante, molte imprese e governi hanno iniziato a parlare di sostenibilità, energia verde, neutralità carbonica, ecc. Purtroppo, spesso queste dichiarazioni non sono seguite da cambiamenti profondi dei modelli di business, configurandosi come greenwashing – un’operazione di immagine più che di sostanza. Un esempio concreto riguarda le grandi compagnie petrolifere e del gas. Quasi tutte le multinazionali dell’oil & gas (da Shell a BP, da ExxonMobil a Eni) negli ultimi anni hanno pubblicizzato iniziative “verdi” e investimenti in rinnovabili, presentandosi come parte della soluzione climatica. Tuttavia, analisi indipendenti mostrano che queste affermazioni sono spesso esagerate o fuorvianti. Un rapporto di Greenpeace del 2023 (intitolato “The Dirty Dozen”) ha rivelato che per 12 tra le maggiori aziende fossili europee, meno dell’1% dell’energia prodotta proviene effettivamente da fonti rinnovabiliqualenergia.it. In altre parole, oltre il 99% dell’attività rimane legata a petrolio e gas, nonostante il marketing enfatizzi progetti solari ed eolici marginali. Un altro studio su cinque big del petrolio ha calcolato che appena il 12% degli investimenti di capitale nel 2022 era dedicato a iniziative a basse emissioni, tutto il resto continuava ad essere speso in esplorazione e sviluppo di nuovi giacimenti fossiliilmanifesto.itilmanifesto.it. Questo smaschera come molte promesse di “transizione energetica” siano per ora parole al vento: le compagnie continuano a scommettere sul core business tradizionale, tentando al contempo di rassicurare l’opinione pubblica con campagne pubblicitarie verdi. Il greenwashing non riguarda solo l’energia. Anche industrie come la moda (con linee “eco-friendly” che però spesso hanno un impatto quasi identico al resto della produzioneumanitanova.org), l’automotive (case automobilistiche che esaltano singoli modelli elettrici mentre fanno lobbying contro limiti alle emissioni) o la finanza (fondi “ESG” venduti come sostenibili ma pieni di aziende inquinanti) sono sotto accusa. Il rischio del greenwashing è duplice: da un lato ritarda le azioni concrete, dando un falso senso di progresso, dall’altro mina la fiducia dei cittadini, che diventano cinici verso qualsiasi iniziativa ecologica credendola solo propaganda. Recentemente, il termine greenwashing è entrato anche nel linguaggio politico: durante il vertice COP27 del 2022, l’ONU ha messo in guardia contro gli annunci di zero-emissioni al 2050 da parte di aziende o città che poi non intraprendono passi coerenti, definendoli appunto “una trappola e un inganno”. In risposta a queste pratiche, alcune giurisdizioni (come l’UE) stanno valutando di regolamentare l’uso di termini come “carbon neutral” nelle pubblicità, richiedendo prove verificabili degli impegni. Tuttavia, rimane un fatto di fondo: nell’attuale capitalismo globale, i combustibili fossili e le attività inquinanti godono ancora di enormi sussidi impliciti e vantaggi competitivi, per cui molte aziende preferiscono spendere in PR ecologica piuttosto che trasformare davvero i propri modelli produttivi.
Crescita economica vs. sostenibilità: Una domanda cruciale è se sia possibile continuare a far crescere l’economia mondiale senza distruggere il pianeta – in altri termini, se esista un “green capitalism” o se serva un cambiamento più radicale. Gli ottimisti puntano sulla tecnologia: miglioramenti nell’efficienza energetica, passaggio alle energie rinnovabili, economia circolare, agricoltura sostenibile, ecc. potrebbero permettere di decouplare (disaccoppiare) la crescita dal consumo di risorse e dalle emissioni. I pessimisti invece ritengono che senza mettere in discussione il dogma della crescita infinita non si possa evitare il collasso ecologico, ed esplorano strade come la decrescita o nuovi indicatori di progresso alternativi al PIL. L’Agenzia Europea dell’Ambiente in un suo rapporto ha espresso scetticismo verso il concetto di decoupling assoluto: “A livello globale, la crescita economica non è stata disaccoppiata dal consumo di risorse e dalle pressioni ambientali ed è improbabile che lo sarà”economiacircolare.com. Ciò significa che, se continuiamo con gli attuali modelli, aumentare il PIL comporterà comunque aumentare l’uso di materiali, energia e generazione di rifiuti/inquinanti. Anche quei miglioramenti registrati in alcune economie avanzate (dove le emissioni pro capite sono calate) sono in parte illusioni statistiche dovute alla delocalizzazione delle industrie pesanti altroveeconomiacircolare.com. Per questo l’EEA e vari economisti ambientali sostengono che le società devono ripensare cosa intendono per “progresso” e “benessere”, sganciandolo dalla mera crescita quantitativaeconomiacircolare.com. Ad esempio, puntare su indicatori di sviluppo umano, salute degli ecosistemi, felicità interna lorda, ecc. invece che sul PIL monetario. Anche il concetto di economia circolare, spesso proposto come panacea, ha dei limiti se inserito in un contesto di crescita illimitata: riciclare e riutilizzare meglio i materiali è certamente utile, ma se l’economia complessiva continua a espandersi, il consumo totale di risorse può comunque aumentare. L’EEA avverte che la sola economia circolare «potrebbe non fornire la trasformazione verso la sostenibilità se le misure di circolarità alimentano una strategia di crescita che porta a un aumento del consumo di materiali»economiacircolare.com. In altre parole, l’efficienza nei processi produttivi rischia di essere vanificata dall’effetto rimbalzo: prodotti più efficienti e meno costosi possono stimolare più consumo, annullando i benefici (ad esempio, auto con motori efficienti hanno ridotto le emissioni per km, ma poiché è aumentato il numero di veicoli e i km percorsi, le emissioni totali dei trasporti sono ancora elevate). Da qui la “chimera del disaccoppiamento” di cui parlano alcuni espertieconomiacircolare.com. D’altro canto, c’è chi vede spazio per un capitalismo riformato in chiave verde: investimenti massicci in energie pulite, in infrastrutture resilienti, in ricerca e sviluppo di tecnologie a emissioni zero potrebbero alimentare una nuova fase di crescita economica sostenibile. Autori come Kate Raworth propongono il modello dell’economia della ciambella, in cui l’attività economica è limitata da una parte dai bisogni sociali minimi da garantire a tutti (il nucleo interno della ciambella) e dall’altra dai confini planetari da non eccedere (la circonferenza esterna). Questa visione cerca un equilibrio tra sviluppo umano e rispetto dell’ecologia. Nel dibattito odierno, termini come “green growth” (crescita verde) si contrappongono a “degrowth” (decrescita): i primi sostengono che innovazione e mercati opportunamente regolati possono risolvere la crisi climatica senza sacrificare la prosperità; i secondi ritengono che solo riducendo il consumo superfluo, ridimensionando settori nocivi (fossili, allevamenti intensivi, fast fashion, ecc.) e riducendo le disuguaglianze si potrà vivere entro i limiti planetari. Quel che è certo è che il capitalismo così com’è oggi non è pienamente sostenibile sul lungo termine: o troverà al proprio interno gli strumenti per cambiare (energia pulita, economia circolare, finanza sostenibile non speculativa, tutela dei beni comuni ambientali), oppure dovrà affrontare crisi ambientali sempre più gravi che imporranno comunque un cambio di rotta forzato. Già vediamo segnali di instabilità: eventi climatici estremi causano danni economici enormi, nuove generazioni di consumatori chiedono prodotti etici ed ecologici (spingendo aziende a riadattarsi), e movimenti di opinione invocano la fine del fossile e misure drastiche. Il futuro del capitalismo potrebbe dipendere dalla sua capacità di riconciliarsi con la natura: integrare nei meccanismi di mercato il valore dei servizi ecosistemici, penalizzare chi inquina e premiare chi innova in chiave verde, accettare che alcune risorse vadano preservate anziché sfruttate. In definitiva, la sfida climatica sta costringendo il capitalismo a un esame di coscienza e a un’evoluzione potenzialmente radicale, perché in un pianeta in crisi ecologica non può esistere un’economia fiorente. Come recita uno slogan ambientalista, “non si può avere profitto su un pianeta morto”.
Conclusioni
Dall’analisi dei quattro temi affrontati emerge un quadro di un capitalismo “in tensione” tra le sue promesse e le sue contraddizioni. Il neoliberismo e la deregolamentazione hanno ridefinito l’economia mondiale negli ultimi decenni, ottenendo mercati più aperti e dinamici ma anche portando a instabilità e accentuando divari di ricchezza. Le disuguaglianze risultanti minacciano la coesione sociale e mettono in dubbio l’ascensore sociale che era al centro del sogno meritocratico. Il capitalismo digitale ha aperto nuovi orizzonti tecnologici e produttivi, cambiando la natura del potere economico (basato sui dati e sulle piattaforme) e quella del lavoro (più flessibile ma anche più precario), ponendo nuove sfide di regolamentazione e diritti. Infine, la crisi climatica rappresenta forse il limite più impellente: essa chiama in causa la sostenibilità del modello capitalistico stesso, richiedendo una profonda trasformazione verso pratiche ecocompatibili e una ridefinizione dell’idea di progresso.
Il capitalismo attuale si trova quindi a un bivio. Da un lato, continua a dimostrare capacità di innovazione, adattamento e creazione di ricchezza; dall’altro, genera problemi sistemici – disuguaglianza, precarietà, degrado ambientale – che rischiano di minarne la legittimità e la stabilità sul lungo periodo. Politiche pubbliche intelligenti e movimenti sociali potranno indirizzare il capitalismo verso un modello più inclusivo e sostenibile, in cui la crescita economica sia accompagnata da giustizia sociale e rispetto dei limiti ecologici. In mancanza di ciò, le tensioni irrisolte potrebbero sfociare in crisi ancora più profonde (finanziarie, sociali, ambientali) che metterebbero fine anticipatamente all’attuale fase storica. Come spesso accade, “il futuro non è scritto”: l’evoluzione del capitalismo dipenderà dalle scelte collettive che verranno fatte. Ciò che è certo è che una comprensione approfondita dei fenomeni in atto – come quella abbozzata in questo report – è il primo passo per affrontare consapevolmente le sfide e cogliere le opportunità di un capitalismo nuovo, più umano e più verde, all’alba dei prossimi decenni.
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