giovedì 20 giugno 2024

Ciao Fratello!

 



Perdonaci Satnam, con te se n’è andata la nostra umanità
di Silvia Truzzi
Dove eravate lunedì alle cinque del pomeriggio? Probabilmente stavate lavorando. Come Satnam Singh, 31 anni, indiano, bracciante in nero in un’azienda agricola di Borgo Santa Maria, in provincia di Latina. Fa caldo in questi giorni, vero? Ecco, pensate a quanto può essere faticoso lavorare nei campi, sotto questo sole che spacca la testa e fiacca le gambe, con il termometro sopra i 35 gradi. Intorno alle cinque di lunedì Satnam è rimasto incastrato in un macchinario che avvolge i teli posti a protezione di alcune colture, come le fragole. Lo raccontano i giornali, proprio così: “a protezione”. Satnam invece non è stato protetto da niente e da nessuno, non dalla fortuna, non dai suoi datori di lavoro, se vogliamo chiamarli così. Il macchinario gli ha tranciato di netto il braccio destro e schiacciato le gambe. “Era a terra, c’era tanto sangue, io urlavo, ci hanno caricati su un furgone, pensavo ci portassero in ospedale”. La moglie di Satnam incomincia così a raccontare. Da tre anni i due lavorano – entrambi in nero – nella stessa azienda agricola dove raccolgono zucchine e cocomeri, una fatica inimmaginabile. Quello che è successo dopo, oltre che inimmaginabile, è indicibile. Satnam non è stato portato in ospedale, è stato scaricato vicino a casa. L’arto, quando sono arrivati i carabinieri di Borgo Podgora, era appoggiato su una cassetta per ortaggi. I vicini di casa hanno chiamato i soccorsi, Satnam è stato portato in eliambulanza al San Camillo di Roma, dove è stato sottoposto a diverse operazioni. La Procura di Latina ha aperto un fascicolo per omissione di soccorso e lesioni personali colpose, che ora si trasformerà in omicidio colposo perché Satnam è morto ieri mattina. Troppo sangue perso, probabilmente troppo tardivi i soccorsi.
Ora viene la parte difficile di questo articolo: che cosa possiamo dire che non sia stato già detto, ogni volta che un uomo o una donna muore sul lavoro? Qualcosa che non suoni terribilmente inutile, retorico, stupido? Tre anni fa, il 3 maggio 2021, un orditoio manomesso ha risucchiato il corpo di Luana D’Orazio. Sua madre, che da allora lotta per far passare una legge che istituisca il reato di omicidio sul lavoro, qualche settimana fa ha detto: “La proprietaria della ditta dove è morta mia figlia ha avuto 2 anni, il marito un anno e 6 mesi, con la condizionale. E una multa di 10 mila e 300 euro. L’azienda ha subito ripreso a funzionare, Luana è morta il 3, le macchine sono state riaccese il 5”. Le leggi, anche quando ci sono, devono essere fatte applicare. È il caso del caporalato, per esempio, un reato tanto odioso quanto frequente nei campi dove si coltivano frutta, verdura e sfruttamento. Nella storia di Satnam c’è qualcosa di più, non solo la barbarie dello schiavismo agricolo e della mancanza di tutele. Ci sono le persone, se possiamo ancora chiamarle così, che hanno pensato di poter scaricare un essere umano ferito e il suo braccio straziato come oggetti ormai inservibili, da buttare a lato di una strada. E poi ci siamo noi che guardiamo l’umanità e la civiltà precipitare nel baratro in nome del profitto, più o meno distrattamente, pensandoci assolti perché ci indigniamo per cinque minuti. Possiamo solo chiedere scusa a Satnam e a tutti gli altri schiavi che muoiono per le nostre zucchine a poco prezzo perché nessuna punizione, nessun risarcimento, potranno fare giustizia dello scempio consumato in questo Paese che ha ancora il coraggio di dirsi civile.

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