martedì 25 giugno 2024

Impercettibili differenze

 Passeggiassi per la campagna e vedessi un campanile ricordante la giovinezza, che direi? Rimembrerei sensazioni anche olfattive, persone a me care, campagna, luoghi infilati in soffitta. Descriverei al massimo in una striminzita paginetta ciò che il core mi comandasse nell’attimo sfuggente. 

Lui no. 

Assolutamente no. Ecco ciò che scrisse a proposito del campanile di Combray. 

Lui naturalmente è Marcel, Marcel Proust! 

Il campanile di Saint-Hilaire56 lo si riconosceva da molto lontano, inscrivendo la sua linea indimenticabile nell'orizzonte su cui Combray non appariva ancora. Quando dal treno che, la settimana di Pasqua, ci portava da Parigi, mio padre lo scorgeva profilarsi, di volta in volta, su tutti i lembi del cielo, facendo correre in ogni senso il suo piccolo gallo di ferro, allora ci diceva: «Suvvia, raccogliete le coperte, siamo arrivati». E, in una delle più lunghe passeggiate che facevamo da Combray, c'era un punto in cui la strada infossata sbucava d'improvviso in una immensa pianura, chiusa all'orizzonte da foreste frastagliate, su cui sola svettava la punta sottile del campanile di Saint-Hilaire, ma così esile, così rosea, da sembrare appena graffiata nel cielo da un'unghia che avesse voluto dare a quel paesaggio, a quel quadro tutto naturale, questa piccola impronta d'arte, quest'unica indicazione umana. Quando ci si avvicinava, e si poteva scorgere il resto della torre quadrata e semidistrutta che, meno alta, resisteva accanto al campanile, si rimaneva colpiti soprattutto dal tono rossastro e cupo delle pietre; e, in un mattino brumoso d'autunno, si sarebbe detto che, al di sopra del viola temporalesco dei vigneti, si elevasse una rovina di porpora, del colore quasi della vite vergine. Spesso, sulla piazza, quando si rientrava, la nonna mi faceva sostare per guardarlo. Dalle finestre della sua torre, poste a due a due le une sopra le altre, con quella giusta e originale proporzione nelle distanze che dà bellezza e dignità non soltanto ai volti umani, liberava, lasciava cadere a intervalli regolari degli stormi di corvi che, per un momento, volteggiavano stridendo, come se le vecchie pietre che li lasciavano svolazzare, fingendo di non vederli, divenute all'improvviso inabitabili e sprigionanti un principio di agitazione infinita, li avessero percossi e scacciati. Poi, dopo aver striato in ogni senso il velluto viola dell'aria serale, calmatisi bruscamente, tornavano a immergersi nella torre, da nefasta ridivenuta propizia, alcuni posandosi qua e là, immobili all'apparenza, ma ghermendo forse qualche insetto, sulla punta di una guglia, come un gabbiano fermo, con l'immobilità di un pescatore, sulla cresta di un'onda. 

Senza saper bene perché, la nonna trovava nel campanile di Saint-Hilaire quell'assenza di volgarità, di presunzione, di grettezza, che le faceva amare, e credere ricche di un influsso benefico, sia la natura, quando la mano dell'uomo non l'avesse svilita, come faceva il giardiniere della prozia, sia le opere di genio. E, indubbiamente, qualsiasi parte si osservasse la chiesa, essa era differente da ogni altro edificio, per una sorta di pensiero che vi era infuso; ma era nel campanile che sembrava prendere coscienza di sé, affermare un'esistenza individuale e responsabile. Era il campanile a parlare in suo nome. Credo soprattutto che, confusamente, la nonna trovasse nel campanile di Combray ciò che per lei aveva maggior valore al mondo, la naturalezza e la distinzione. Ignara d'architettura, diceva: «Figli miei, burlatevi di me se volete, non sarà bello secondo le norme, ma la sua vecchia figura bizzarra mi piace. Sono sicura che, se suonasse il pianoforte, non suonerebbe duro». E, nel rimirarlo, nel seguire con gli occhi la dolce tensione, l'inclinazione fervente delle sue linee di pietra che s'avvicinavano, innalzandosi, come mani giunte nella preghiera, si immedesimava a tal punto nell'effusione della guglia, che il suo sguardo sembrava slanciarsi con essa; e, nello stesso tempo, sorrideva amichevolmente alle vecchie pietre consunte, di cui il tramonto non rischiarava più che la cima e che, appena entravano in quella zona soleggiata, addolcite dalla luce, apparivano d'improvviso proiettate molto più in alto, lontane, come un canto ripreso in falsetto un'ottava sopra. Era il campanile di Saint-Hilaire che dava a tutte le occupazioni, a tutte le ore, a tutte le vedute della città, il loro volto, il loro coronamento, la loro consacrazione. 

Dalla mia stanza, potevo vederne soltanto la base, che era stata rivestita di lastre d'ardesia; ma quando, la domenica, in una calda mattina d'estate, le vedevo fiammeggiare come un sole nero, mi dicevo: «Dio mio! le nove! devo prepararmi per andare alla messa solenne, se voglio avere il tempo, prima, di andare a salutare la zia Léonie», e conoscevo con esattezza il colore del sole sulla piazza, il caldo e la polvere del mercato, l'ombra proiettata dalla tenda della bottega dove la mamma, forse, sarebbe entrata prima della messa, in un odore di tela greggia, a comperare qualche fazzoletto che le avrebbe mostrato il padrone, impettito, appena sbucato dal retrobottega dove, apprestandosi ormai a chiudere, era andato a infilarsi la giacca della domenica e a insaponarsi le mani che, ogni cinque minuti, pur nelle circostanze più malinconiche, aveva l'abitudine di fregarsi l'una contro l'altra, con un'aria di intraprendenza, di galanteria maliziosa e di successo. Quando, dopo la messa, passavamo da Théodore per dirgli di portare una brioche più grossa del solito, perché i nostri cugini avevano approfittato del bel tempo per venire da Thiberzy a pranzo da noi, avevamo di fronte il campanile che, dorato e cotto anch'esso come una più grande brioche benedetta, con scaglie e sgocciolature gommose di sole, infiggeva la sua punta aguzza nel cielo azzurro. 

E la sera, quando rientravo dalla passeggiata, e pensavo al momento in cui, ben presto, avrei dovuto dare la buonanotte alla mamma, e non vederla più, era invece così dolce, nel morire del giorno, da sembrare posato e sprofondato, come un cuscino di velluto scuro, sul cielo impallidito che aveva ceduto sotto la sua pressione, si era incavato leggermente per fargli posto e rifluiva sui suoi lembi; e gli stridi degli uccelli che gli volteggiavano intorno parevano accrescere il suo silenzio, slanciare ancor più la sua guglia e dargli qualcosa di ineffabile. Anche durante le commissioni che si dovevano fare dietro la chiesa, là dove non era possibile scorgerla, tutto sembrava ordinato in rapporto al campanile che spuntava qui o là tra le case, ancor più commovente, forse, quando appariva così, senza la chiesa. E certo, ve ne sono molti altri che risultano più belli visti in questo modo, e custodisco nella mia memoria immagini di campanili che s'alzano sui tetti, che hanno ben altro carattere d'arte rispetto a quello formato dalle malinconiche strade di Combray. Non dimenticherò mai, in una curiosa città della Normandia, vicino a Balbec, due magnifici palazzi del XVIII secolo, che, per molti aspetti, mi sono cari e venerabili, e in mezzo ai quali, guardando dal bel giardino a terrazze che scende verso il fiume, la guglia gotica di una chiesa ch'essi nascondono si slancia, dando l'impressione di completare, di sormontare le loro facciate, ma con una materia così diversa, così preziosa, così inanellata, così rosea, così patinata, da mostrare chiaramente che non ne fa parte, non più almeno di quanto la guglia porporina e merlata di una conchiglia, rastremata a torretta e lustra di smalto, faccia parte di due bei sassi uniti, tra i quali, sulla spiaggia, sia rimasta prigioniera. Anche a Parigi, in uno dei quartieri più brutti della città, conosco una finestra da cui si vede, dietro un primo, un secondo e anche un terzo ordine costituito dai tetti ammassati di parecchie strade, una cupola viola, a volte rossastra, a volte anche, nelle più nobili «prove d'artista» che ne tira l'atmosfera, di un nero decantato di ceneri, che altro non è se non la cupola di Saint-Augustin e che dà a quella veduta di Parigi il carattere di certe incisioni romane di Piranesi. 

Ma poiché in nessuna di queste piccole incisioni, per quanto gusto abbia messo nell'eseguirle, la mia memoria ha potuto inserire ciò che da lungo tempo avevo perduto, il sentimento che ci induce a considerare una cosa, non come uno spettacolo, ma a credervi come in un essere senza eguali, nessuna di esse tiene sotto il suo dominio tutta una parte profonda della mia vita, come il ricordo di quelle apparizioni del campanile di Combray nelle strade che sono dietro la chiesa. Sia che lo si vedesse alle cinque, quando si andava a ritirare le lettere alla posta, a poche case di distanza, a sinistra, innalzare bruscamente con una punta isolata la linea di displuvio dei tetti; o, invece, volendo passare a chiedere notizie della signora Sazerat, si seguisse con gli occhi quella linea di nuovo riabbassarsi dopo la discesa dell'altro suo versante, sapendo di dover svoltare nella seconda strada dopo il campanile; o, ancora, spingendoci più lontano, verso la stazione, lo si vedesse obliquamente mostrare di profilo angoli e superfici nuove, come un solido sorpreso in un momento sconosciuto della sua rivoluzione; o, dalle rive della Vivonne, l'abside, muscolosamente raccolta e rialzata dalla prospettiva, sembrasse scaturire dallo sforzo che faceva il campanile per lanciare la sua guglia nel cuore del cielo; era sempre a lui che bisognava tornare, sempre lui che dominava ogni cosa, sovrastando le case con un pinnacolo inatteso, levato dinanzi a me come il dito di Dio, il cui corpo fosse rimasto nascosto tra la folla degli umani, senza che per questo io potessi confonderlo con loro. E ancor oggi, se in una grande città di provincia o in un quartiere di Parigi che conosco poco un passante che mi ha «indicato la via» mi mostra in lontananza, come punto di riferimento, la torre di un ospedale, il campanile di un convento che leva la punta del suo berretto ecclesiastico all'angolo di una via che debbo percorrere, basta che la mia memoria possa oscuramente trovarvi qualche tratto di rassomiglianza con la figura cara e scomparsa perché il passante, volgendosi per assicurarsi che io non mi perda, possa vedermi, con sua grande sorpresa, restare lì, davanti al campanile, per delle ore, immobile, dimentico della passeggiata intrapresa o della commissione da fare, nel tentativo di ricordare, sentendo in fondo a me stesso le terre riconquistate all'oblio prosciugarsi e riedificarsi; e senza dubbio allora, e più ansiosamente di poco prima quando gli chiedevo di darmi l'informazione, cerco ancora la strada, svolto in una via... ma... soltanto nel mio cuore.

(Alla Ricerca del Tempo Perduto - Marcel Proust) 


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