Le ombre del Ventennio
DI EZIO MAURO
Davvero qualcuno pensava che Giorgia Meloni potesse arrivare al voto come candidata della destra alla premiership italiana senza affrontare pubblicamente il tema del fascismo? Solo lo smarrimento democratico di un Paese infastidito dal dovere di fare i conti con la sua storia, immemore del costo e del valore dell’opposizione armata alla dittatura e incosciente del legame tra quella resistenza e la riconquista della libertà, può spiegare il ritardo e la sottovalutazione per un atto che fa parte dei doveri di ogni personaggio politico, soprattutto quando deve spiegare il suo passato: è il rendiconto.
Meloni ha taciuto fino all’ultimo, forse ritenendo che la nettezza della sua scelta atlantica, senza reticenze anche nel sostegno all’Ucraina contro la Russia, potesse far scolorire il tema del fascismo, depotenziando l’obbligo di fare chiarezza sulle ascendenze culturali, sulle eredità politiche e sulle valutazioni storiche di una giovane leader, possibile premier di una grande democrazia occidentale. La geografia contro la storia, insomma, la geopolitica al posto dell’ideologia. Ma non è così, perché l’atlantismo non è soltanto un’alleanza militare che identifica un campo, ma è l’adesione a una cultura costituzionale e a un sistema istituzionale che si chiama Occidente. E la scelta dell’Occidente comporta la valorizzazione di una serie di principi e di valori fondanti di quell’identità storica, che si riassumono nella coscienza di una civiltà comune a Europa e America, uniti nella condivisione del destino della democrazia.
L’atlantismo non è gratis, dunque, come la tessera omaggio di un club, ma comporta degli obblighi, come la consapevolezza del legame tra gli Stati nazionali e la Ue, tra l’Unione e gli Usa, tra l’Occidente e la democrazia.
Giudicare il fascismo significa appunto assumere la democrazia come criterio occidentale. È a questo passaggio che era attesa la presidente di Fratelli d’Italia. E francamente non si capisce perché tanta difficoltà e tanto tempo siano stati necessari per affrontare la questione, rispetto alla sicurezza e alla risolutezza con cui si è decisa l’opzione internazionale del primo partito della destra. In fondo, si trattava di parlare di democrazia: una leader che si affaccia dalla cima dei sondaggi per chiedere il consenso degli italiani alla sua premiership (perché di questo si tratta) dovrebbe avvertire l’urgenza e la premura di fare chiarezza su questo punto fondamentale, per non lasciare zone d’ombra non tanto sul suo passato, ma sul suo futuro. Chiarire significa affrontare in modo trasparente tutte le contraddizioni di una vicenda politica, per scioglierle. La giovane età non spiega tutto da sola, come ha preteso per anni Meloni, perché la distanza anagrafica dal fascismo non è una scelta, e non giustifica la vicinanza culturale negli anni del Msi e di Alleanza nazionale, né ci dice cos’è rimasto di quell’esperienza e di quella eredità. E ancora oggi c’è da spiegare la persistenza di quella fiamma mussoliniana nel simbolo di Fratelli d’Italia: e la tolleranza per i gruppi di estrema destra che frequentano gli appuntamenti pubblici di partito, per i loro rituali e per il loro saluto romano.
È evidente che Meloni doveva spiegare, e dare finalmente il suo giudizio sulla dittatura del Ventennio. Lo ha fatto con un metodo mutuato dal Berlusconi delle origini, il video registrato in proprio (in questo caso in tre lingue, francese, inglese e spagnolo) e inviato direttamente ai giornalisti stranieri, evitando ogni contraddittorio e qualsiasi domanda, come se la vera ansia fosse quella di chiudere l’argomento, non di spiegarsi. Nel messaggio c’è una condanna esplicita, chiara e senza ambiguità di due aspetti del regime, «la soppressione della democrazia» e «le infami leggi anti-ebraiche». Ma tutto è declinato al passato, un recente passato innominabile, perché porta il nome di Gianfranco Fini: «La destra italiana ha consegnato il fascismo alla storia ormai da decenni», ha detto Meloni, ricordando quelle due condanne, riassunte e potenziate in realtà dal giudizio di Fini allo Yad Vashem sul «fascismo male assoluto», che oggi viene taciuto.
Tutto è già avvenuto, dunque: ad opera di altri.
Ma allora non c’era più nulla da aggiungere: e infatti Meloni, nel momento in cui si propone per guidare il Paese, non sente il bisogno di una parola in più, di una parola sua, di un giudizio autonomo, e chiude il capitolo pronunciando in tre lingue un giudizio altrui. Come se l’Italia non avesse diritto a spiegazioni e non meritasse risposte, visto che non fa più domande, dopo vent’anni di banalizzazione del fascismo.
Questa reticenza politica, questa difficoltà democratica, questa ineffabilità storica indicano un nodo non risolto e segnalano un limite. C’è poco tempo ormai, ma forse è sufficiente per un ultimo discorso nella lingua assente, l’italiano, trovando le parole che mancano per un giudizio spontaneo, autonomo, autentico di Giorgia Meloni sul fascismo di ieri e sulla democrazia di oggi: per capire cosa ci aspetta domani.
Nessun commento:
Posta un commento