Ieri sono andato a Roma con i nipoti e naturalmente mi sono recato a vederla, per l'ennesima volta, dal vivo. Quei pochi istanti hanno corroborato in me la felicità per aver avuto in sorte la possibilità di contemplare il Capolavoro per antonomasia, il raccordo col Cielo, la Speranza nell'uomo.
Ed oggi La Nazione pubblica un interessantissimo articolo sul materiale che al tempo, consentì al Genio di donarci siffatta soavità.
Michelangelo tra le Apuane «Per liberare gli angeli dal marmo»
Dal suo scalpello vennero fuori meraviglie. Dal volto immacolato della Pietà alla perfezione del David
di Olga Mugnaini
Già i romani avevano scoperto la lucentezza di quel marmo, candido, puro, capace di dare forma all’anima e ai sentimenti umani. Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia racconta che dalle cave apuane si estraevano i blocchi per i monumenti e per le dimore dei patrizi. Anche la Colonna Traiana è scolpita in quel pregiato “oro bianco“. Ed è lassù, sul Monte Altissimo, passando Seravezza e inerpicandosi verso Carrara, che anche Michelangelo, poco più che ventenne, arriva la prima volta alla cava del Polvaccio nel novembre del 1497, a dorso un cavallo baio, per scegliere il blocco della sua prima importante commissione. Un viaggio da Roma lungo, faticosissimo, ma che al già ambizioso Buonarroti serve per pensare, per rimuginare su quella sua idea di affrontare il marmo non per modellarlo, per “via di porre”, ma “per forza di levare”, per liberare la materia dalle forme nascoste, imprigionate al loro interno. Quasi come prosciugare l’acqua da una “conca”, dirà il Vasari. Era stato il cardinale Jean Bilhères de Lagraulas a dargli l’incarico di scolpire una Vergine Maria con Cristo morto in braccio. In vista del Giubileo del 1500, la scultura avrebbe dovuto arricchire la cappella di Santa Petronilla in Vaticano e strabiliare i tanti pellegrini francesi attesi per l’evento. Michelangelo voleva dare prova della sua bravura. Partendo dalla scelta della materia. Sapeva bene che il marmo poteva nascondere mille insidie. Una venatura sbagliata bastava a sbrecciare il lavoro, a sbriciolarlo come una zolletta di zucchero. Lo doveva guardare, toccare, accertarsi della purezza, della compattezza, dare istruzioni ai cavatori. Ci mise nove mesi a individuare il blocco giusto da farsi mandare a Roma. E poi un paio d’anni per creare la sua prima Pietà, per la quale aveva pattuito un compenso di 500 ducati. Purtroppo il cardinale Jean Bilhères de Lagraulas morì prima di poter ammirare l’opera finita, che destò subito un’immensa ammirazione. Ma non mancarono le critiche. A turbare era il volto di quella Vergine così giovane da sembrare la figlia del suo stesso figlio, ma che Michelangelo non faticò a spiegare teologicamente. Disse che aveva voluto rappresentare la Vergine incorrotta, l’Immacolata Concezione, simbolo di una giovinezza e di una purezza che neppure il tempo poteva intaccare. E poi c’era la storia del dente. A Gesù morente aveva scolpito un incisivo in più. Il cosiddetto “dente del peccato”, che spesso gli artisti inserivano con accezione negativa e che il Buonarroti invece interpreta come simbolo del sacrificio e della volontà del Cristo di farsi carico di tutti i peccati degli uomini. Era tanto fiero della sua Pietà, che quella fu l’unica opera su cui incise il suo nome, proprio sul manto della Madonna. Si dice che fu per evitare che altri si prendessero il merito di tanta bellezza, dopo aver sentito alcuni visitatori che lodavano la scultura attribuendola all’artista lombardo Cristoforo Solari. L’elogio più bello venne dal Vasari che scrisse: «Non pensi mai, scultore né artefice raro, potere aggiungere di disegno né di grazia, né con fatica poter mai di finezza, pulitezza e di straforare il marmo tanto con arte, quanto Michelangelo vi fece, perché si scorge in quella tutto il valore et il potere dell’arte». Non lo scelse lui, ma veniva da Carrara anche il blocco sciupato dal quale tirò fuori forse il suo capolavoro più celebre: il David. Da tempo l’abbozzo informe giaceva nei cantieri dell’Opera di Santa Maria del Fiore a Firenze. Era stato Agostino di Duccio nel 1464 e poi ad Antonio Rossellino nel 1476 a tentare di tirar fuori un grande profeta da collocare su un contrafforte del Duomo. Ma non ne era venuto fuori niente di buono. Così nel 1501 Michelangelo volle misurarsi dove gli altri avevano fallito. E nonostante quel marmo “male abozatum”, dopo tre anni sotto i colpi dei suoi scalpelli e delle sue gravine, il capolavoro fu presentato ai fiorentini. Il primo ad ammirarlo fu il Gonfaloniere della Repubblica di Firenze Piero Soderini, che pur riconoscendone la meraviglia, disse che per lui il naso di quel David era un po’ troppo grosso. Michelangelo non batté ciglio: salì con una scala al cospetto del suo gigante e fece finta di scalpellare il volto, buttando in testa al Soderini un po’ di polvere di marmo che aveva nascosto in una mano: «Che ve ne pare ora?», chiese con falsa accondiscendenza. «Sì, va meglio», rispose il Soderini soddisfatto, concedendo al David il posto d’onore davanti al Palazzo della Signoria al posto della Giuditta di Donatello, come simbolo della libertà e della Repubblica. E fu nello stesso luogo che, durante la rivolta del 1527, la fazione filomedicea anti repubblicana, prese a sassate il capolavoro, rompendogli il braccio sinistro, riattaccato poi nel 1534. Ancora sulle Apuane, ancora spinto dall’impulso che guida «la man che ubbidisce all’intelletto», lo troviamo nel 1517 alla Cava Falcovaia. Papa Leone X voleva decorare la facciata della Chiesa di San Lorenzo, e con lui Michelangelo ottenne una via privilegiata per estrarre i blocchi da trasportare a Firenze. Ma il progetto era costosissimo e si arenò presto. Non a caso la facciata della chiesa medicea è ancora incompiuta. Ma Michelangelo, fino alla fine dei suoi giorni, conclusi il 18 febbraio 1564 a Roma, non ha mai posato lo scalpello. Perché come disse una volta: «Ho visto un angelo nel marmo e ho scolpito fino a liberarlo».
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