domenica 14 agosto 2022

Anniversario di vergogna


Perché leggo il Fatto è spiegato in questo articolo, scritto da Marco Grasso, a quattro anni dal disastro del ponte Morandi, un pezzo giornalistico redatto in piena libertà, senza che la Famigliola non abbia potuto intervenire con cospicue mancette per occultare fatti vergognosi ed irrispettosi nei confronti delle 43 vittime, cosa che invece lautamente pratica in altri Giornaloni. 
C’è da vergognarsi: tra il consueto monito del Capo dello Stato, inascoltato come fosse aria fritta, e la ciurma di zecche intente ad insabbiare, ne usciamo sconfitti tutti. E questo non è che l’inizio. Quello che avverrà tra non molto con l’avvento del “nero perdi sempre” ci farà ripiombare ad livello di bassezza mai raggiunto, corroborato da quell’ebetismo alla “non ricordo” tipico degli allora ministri Del Rio e Lupi-lupetto. Alla faccia di tutti noi. Alla faccia di chi ha perso la vita assassinato dalla dabbenaggine della Famigliola e dello stato.

Morandi: storia di incuria, affari e politica

di Marco Grasso

Genova. Intrecci di potere, conflitti di interesse, porte girevoli. È il contesto limaccioso che per anni ha caratterizzato i rapporti tra lo Stato e Autostrade. Fatti rimasti fuori dalle inchieste, ma che le accompagnano come un’ombra. A quattro anni dal crollo del viadotto di Genova si è aperto il processo per dare un po’ di giustizia alle famiglie dei 43 morti. È un’inchiesta che coinvolge 59 imputati e ruota tutta attorno al tema dei mancati controlli. Soprattutto, quella del Ponte Morandi è una storia italiana. Una vicenda in cui ci si accorge che nessuno sorvegliava l’opera più a rischio del Paese solo dopo una strage, in cui la verità viene nascosta, i documenti falsificati, le indagini depistate. In cui le vittime piangono i morti di un sistema che ha consentito ai proprietari delle autostrade, le società della famiglia Benetton, di fare soldi a palate, e dopo il disastro, di rivendere a un ottimo prezzo (8,3 miliardi) una società piena di debiti, gravata da cause e impegni miliardari. Tutto questo è avvenuto mentre lo Stato guardava dall’altra parte, i governi smantellavano le strutture di controllo e i partiti intessevano stretti rapporti di lobbying con la concessionaria, il cui gruppo nel tempo ha arruolato politici e grand commis. Non manca anche un finale in cui il pool di finanzieri che ha condotto le indagini viene smantellato e le figure che dovevano rivoluzionare il Ministero delle Infrastrutture vengono messe da parte.
Nei giorni scorsi il Fatto ha provato a rimettere insieme alcuni pezzi di verità che hanno cominciato a emergere dalla nebbia in cui erano rimasti per molti anni. Nel procedimento giudiziario c’è molto. Fuori, anche se non è ancora tutto nitido, c’è anche di più. Si scopre, ad esempio, che nel pieno delle indagini, alcuni tra i più potenti ex manager di Autostrade per l’Italia cominciano a pensare che sia una buona idea disfarsi dei patrimoni: all’orizzonte si profila un processo che potrebbe diventare un bagno di sangue e prima o poi qualcuno dovrà pagare. Bankitalia rileva movimenti per 7 milioni di euro fra Italia e Lussemburgo sui conti dell’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, tra i principali indagati. Se n’era andato da Atlantia con una buonuscita da 13 milioni di euro, e in quel periodo la Guardia di Finanza è convinta che parte di quei fondi possano essere trasferiti ai familiari. È quello che fanno altri fedelissimi: sull’ex capo delle manutenzioni Michele Donferri Mitelli incombe il sospetto di un finto divorzio, il suo supervisore Paolo Berti dice di voler intestare tutto ai figli.
Un primo risultato i pm lo hanno già ottenuto: Aspi (paga naturalmente la public company) ha patteggiato un risarcimento da 30 milioni di euro per responsabilità amministrativa (la cosiddetta legge 231) insieme a Spea Engineering. Esce così dal processo, evitando i pericoli di commissariamento o revoca della concessione. Ma al tempo stesso è un’ammissione importante: di quel modello organizzativo non funzionava niente. Ed è interessante notare come per anni, quello stesso modello organizzativo, fosse stato approvato da collegi di vigilanza di Aspi e Atlantia composti da membri lautamente pagati che non hanno mai battuto ciglio. Ne hanno fatto parte, ad esempio, l’ex capo dell’Agenzia delle Entrate Attilio Befera o l’ex procuratore di Roma ed ex sottosegretario all’Interno del governo Monti Giovanni Ferrara. Spea Engineering, era la società che, in un tripudio di conflitto di interessi, dipendeva da Aspi ma doveva al tempo stesso controllarla, aveva l’ingrato compito di monitorare le opere a rischio (come il Morandi) ma al tempo stesso il budget per i lavori lo decideva Autostrade. Il procuratore Francesco Cozzi, intervistato ieri dal Fatto, ha definito questa situazione: “Una delle tante anomalie”. Mai rilevata evidentemente dai vertici di Spea, la cui presidenza, dal 2010 e per oltre dieci anni, è stata affidata a Paolo Costa, il ministro dei Lavori pubblici del primo governo Prodi che trattò (dopo le dimissioni di Antonio Di Pietro) la privatizzazione delle autostrade.
Le porti girevoli fra Stato e società dei Benetton sono così numerose da essere difficili da contare. I buoni rapporti con la politica, la predilezione per boiardi di Stato ed ex politici, portatori di ottime entrature romane e ricompensati con ruoli nel gruppo, è stata una policy consolidata. Non è un caso se Di Pietro, che ai pm del Ponte Morandi ha consegnato un copioso memoriale, ha suggerito un po’ maliziosamente ai magistrati di andare a frugare nei finanziamenti elettorali erogati dal gruppo Autostrade ai partiti nel 2008, anno del famigerato “decreto salva-autostrade”, definito dall’ex toga di Mani Pulite la legge del “pedaggio-selvaggio”. Una manina “ben informata” (il virgolettato è sempre dipietrese) fece scivolare in un decreto che trattava tutt’altro la convenzione con Aspi, e con essa, la clausola capestro che blindava qualsiasi possibilità futura di revoca della concessione: anche in caso di colpa grave di Autostrade, lo Stato avrebbe dovuto ripagarle tutti i profitti mancati. Una norma che Cozzi, nella stessa intervista, liquida come “una mostruosità, contraria alle norme generali”.
Potrebbe non stupire, allora, rilevare che quella convenzione, come altre condizioni che regolavano i rapporti contrattuali tra Stato e concessionaria, sia stata secretata. E che i parlamentari l’abbiano votata senza poterla leggere. C’è da dire anche che, sebbene nessuno rivendichi più la paternità di quelle decisioni, le competenze allo Stato non mancavano. Due ministri che hanno trattato quella convenzione, per dire, hanno condiviso uno stesso capo di gabinetto: l’espertissimo ex magistrato Vincenzo Fortunato, che ha seguito l’iter della convenzione prima con Di Pietro al Mit, e poi con Tremonti all’Economia, dicastero da cui è partito l’emendamento salva-autostrade. Nel 2021 Fortunato ha avuto qualche guaio giudiziario nella sua nuova veste di avvocato e consulente delle concessionarie: secondo la Finanza aveva messo in piedi una società di consulenza intestata a prestanome, che fatturava prestazioni inesistenti per clienti in rapporti con i ministeri dell’Economia (Lottomatica) e delle Infrastrutture (Strada dei parchi). Ma questa è un’altra storia.
Ritornando al Morandi, stupisce, insieme a tante altre cose, l’assenza totale dello Stato. I pm di Genova, sbigottiti di fronte al fatto che gli enti di sorveglianza del Mit non avevano mai visto (né richiesto) un solo rapporto sulla sicurezza del ponte più a rischio d’Italia, hanno provato a chiedere conto di questo fallimento totale a Graziano Delrio e a Maurizio Lupi. I loro verbali di testimonianza, pieni di “non sapevo” e “non ricordo”, li fanno sembrare quasi dei passanti, più che ex ministri delle Infrastrutture. Ancora una volta, anche in questo siamo pienamente del genere delle storie italiane, c’è stato bisogno della magistratura per scoprire l’acqua calda: “Lo Stato in teoria doveva sorvegliare, ma nei fatti le sue funzioni sono state svuotate – dice ancora Cozzi – organici scarsi, funzionari mal pagati e senza strumenti. Il gestore ha fatto il bello e il cattivo tempo”. Quanto alla gestione delle società dei Benetton, sentenzia il magistrato, “più che fallimentare è stata disastrosa, se non tragica”. Eppure, sono ancora riusciti a guadagnarci.

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