lunedì 22 agosto 2022

Chiarimenti costituzionali

 

Il “Sindaco d’Italia”, l’ultimo miglio della “fu” democrazia
COME SMONTARE LA COSTITUZIONE - Percorsi. Se il presidenzialismo nero di FdI può avverarsi, è solo grazie a decenni di devastazione della lingua politica praticata da coloro che oggi dicono di avversarlo
DI TOMASO MONTANARI
Nella neolingua che affligge questa oscena campagna elettorale, strappando i nessi tra le parole e le cose e ribaltando sistematicamente la realtà nel suo contrario, abita da tempo anche il sintagma del “sindaco d’Italia”. Nel codice di un marketing diretto a cittadini che ragionano come “bambini di sei anni” (come capì per tempo il Caimano), esso è sinonimo di “presidenzialismo”. L’intento è riportare il discorso sul potere alla dimensione rassicurante della città, del comune: per nascondere il manganello dei “pieni poteri” dietro la bonomia della fascia tricolore.
Il progetto del “sindaco d’Italia” – oggi rilanciato ufficialmente dal Polo Egotico di Renzi e Calenda, il laboratorio Frankestein per l’alleanza di tutti con tutti, ovviamente Movimento 5 Stelle escluso – ha le sue radici nel disprezzo per le lentezze dei Parlamenti, nel culto di leaders a cui delegare le decisioni e perfino il pensiero. Il culto che ha condotto alla mutazione della democrazia in una dittatura di minoranze artificialmente trasformate in maggioranze parlamentari grazie a leggi elettorali maggioritarie (il Rosatellum, non per caso, è un loro capolavoro). I partiti politici si sono trasformati in palcoscenici per capi più o meno carismatici, designati (quando non attraverso meccanismi padronali: come nel caso di Forza Italia) per mezzo di primarie aperte ai non iscritti, un meccanismo che rende poi impossibile ogni dinamica democratica interna.
La conquista del Partito Democratico da parte di Matteo Renzi e della sua cerchia di amici è stata di fatto una scalata dall’esterno (culturalmente e politicamente parlando), resa possibile dalla dissoluzione personalistica e leaderistica. Del resto, anche a sinistra si era iniziato a scrivere il nome del leader nel simbolo (lo fece Sinistra Ecologia e Libertà “con Vendola”, alle regionali del 2010) sancendo anche su questo piano l’introiettamento di una egemonia culturale di destra: non la collettività ma il capo, non la forza del dissenso interno ma l’acclamazione di un demiurgo-condottiero-messia che “porterà alla vittoria”.
La città è il modello: nella Germania medioevale viene coniato il ben noto motto Stadtluft macht frei, l’aria della città rende liberi. Varcare le mura urbane voleva dire liberarsi dalle catene della servitù della gleba, e indossare i panni (letterali e metaforici) di una libertà borghese, una libertà sociale e politica. Oggi, al contrario, proprio le città hanno incubato a lungo il naufragio leaderistico della democrazia: l’elezione diretta dei sindaci (1993) è stata il laboratorio del personalismo, e del “presidenzialismo culturale” che oggi scontiamo.
Non per caso quella riforma ebbe luogo mentre iniziava lo smontaggio delle finanze dei comuni: al posto di un reale autogoverno democratico si offriva la piccola autocrazia simbolica di un sindaco senza mezzi. La conseguenza fu la deprivazione di ogni ruolo dei Consigli comunali, che portò all’inedita situazione di città senza più un parlamento, senza un’assemblea democratica, senza un’opposizione (un dissenso) visibile. Era un colpo decisivo ad ogni idea di comunità politica. Dalle città alla nazione: le riforme costituzionali elaborate negli ultimi anni prendevano a modello il sistema dei sindaci, puntando – più o meno direttamente – al presidenzialismo del “sindaco d’Italia”. Riforme e retorica politica si intrecciano in un unico discorso che, ancora una volta, tiene insieme destra e “sinistra”: nel luglio 2019 è stato Matteo Salvini a chiedere agli italiani “pieni poteri” (una citazione, non troppo velata, da Mussolini), nel 2016 era stato Renzi a chiedere di sciogliere le mani dell’esecutivo da quelli che egli considerava intollerabili lacci.
“Capo”: era questa la parola chiave per capire quale fosse il senso profondo della riforma costituzionale Renzi-Boschi. Non la si trovava nel testo della nuova Costituzione, ma in quello della legge elettorale: l’Italicum, l’altro gemello di quella gravidanza politica. Vi si diceva che “i partiti o gruppi politici che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e il cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica”. Un capo eletto direttamente dal popolo: il sindaco d’Italia. Era questo il progetto reale del “combinato disposto” di riforma costituzionale e legge elettorale: un progetto che ricalcava – nello spirito presidenzialista e plebiscitarista –, quello che Silvio Berlusconi tentò di attuare nel 2006, e che fu fermato dalla vittoria del No, in un referendum identico a quello del 2016.
Renzi ha da tempo gettato la maschera, ma anche il Pd (da Veltroni a Letta) condivide questa responsabilità enorme: se il presidenzialismo di matrice nera di Fratelli d’Italia può avverarsi, è solo grazie alla sistematica devastazione dell’immaginario e della lingua politica praticate per decenni da coloro che ora dicono di avversarlo.

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