giovedì 29 ottobre 2020

Barbacetto

 

Capire la rivolta? Sono fascisti confusi: il Novecento è finito
di Gianni Barbacetto
Capire ogni rivolta: è l’impegno scritto nel Dna della cultura di sinistra, che guarda con interesse a ogni ribellione, anche la più anomala, e che istintivamente simpatizza e parteggia per ogni moto che contesti il potere. Magari dandosi poi il compito di “raddrizzarlo”, di correggerne gli errori, ridurne gli estremismi, esercitare la propria “egemonia”, assumerne la guida. È la dialettica movimenti/potere che fa parte della grande storia del Novecento. Ebbene: le rivolte di questi giorni per protestare contro le chiusure anti-pandemia ci segnalano, se ce ne fosse ancora bisogno, che il Novecento è proprio finito. A Milano, Torino, Roma, Napoli sono andate in scena rivolte innescate da movimenti compositi e contraddittori, che naturalmente sarà bene analizzare, studiare, conoscere. 

Ma quello che già siamo riusciti a capire – sempre pronti a correggerci se i fatti ci smentiranno – è che quei riots metropolitani non sono la spontanea discesa in piazza di una comprensibile e giusta ribellione contro il potere da parte dei senza-potere, dei fuori-dalla-storia che confusamente ma legittimamente cercano per una sera d’imporsi come protagonisti, se non della storia, almeno della cronaca e dello spettacolo d’arte varia dell’informazione italiana. No. Ci sarebbero buoni motivi di rivolta. Soprattutto al Nord, dove amministrazioni regionali incapaci e criminogene hanno oggettivamente aiutato la pandemia con un lungo elenco di errori. Hanno per anni indebolito la sanità pubblica e abbandonato i medici di base e i presidi territoriali; hanno lasciato aperto a febbraio il focolaio di Alzano e Nembro, hanno mandato a marzo gli infetti a contagiare gli ospiti delle residenze per anziani, hanno buttato soldi in un inutile ospedale in Fiera in cui ora spostano medici e infermieri sguarnendo ospedali più preparati; negli ultimi mesi non hanno fatto nulla per prepararsi alla prevedibilissima seconda ondata, non potenziando le Usca (i medici che curano a casa), lasciando allo sbando il sistema di tracciamento dei contagi, non rafforzando i trasporti pubblici in vista della riapertura delle scuole.

Ma i casseurs di Milano e delle altre città non pongono alcuno di questi problemi. Protestano contro le chiusure di bar e locali – necessarie e anzi tardive per non morire di Covid. Invocano la “libertà” di tenere tutto aperto e di girare senza mascherine. “Piove, governo ladro”: dove la pioggia è una pandemia mondiale in cui il governo italiano non è stato dei peggiori. Quale rivolta, quale disagio, quale ribellione portano in strada i ragazzi di Milano e delle altre città? Una melassa confusa in cui si mescolano negazionismo e no-mask, da una parte, e richiesta d’aiuti statali per gli ex liberistissimi gestori di bar e locali, che scoprono quello Stato che alcuni di loro (speriamo pochi, pochissimi!) dimenticavano quando si trattava di rilasciare lo scontrino fiscale. Tra i ragazzi degli scontri ci sono giovani delle periferie, ultrà delle curve, piccoli spacciatori, segnalati per rissa e piccoli reati, soldati semplici delle mafie. Sono i gruppi fascisti – diciamolo – gli apprendisti stregoni di queste sgangherate rivolte. Forza Nuova, Ultima Legione, Casapound, che cercano di rappresentare fasce di piccola borghesia impoverite e incattivite dalla crisi e poi dalla pandemia. I centri sociali di sinistra e gli antagonisti di area anarchica partecipano stando a guardare, nella speranza di capire ed egemonizzare la protesta – fermi allo scenario dei grandi conflitti del Novecento. 

Ma sono i fascisti – ripetiamolo – a convocare gli appuntamenti e a cercare di “Cavalcare la tigre” (è il titolo di un libro del fascista Julius Evola) di una protesta che è insieme terrapiattistica e sanfedista. Capire ogni rivolta, sì. Ma proprio per averla capita, conviene respingerla, abbandonando ogni ambiguità e ogni nostalgia per il Novecento.

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