sabato 6 gennaio 2024

Massimo commento

 

Lo show complottista 

di Massimo Giannini

Lo spettacolo offerto da Meloni nella conferenza stampa mostra tutti i limiti della classe dirigente della destra e le ossessioni della presidente del Consiglio

Sconfitti gli otoliti che le invalidavano l’equilibrio fisico, la Sorella d’Italia resta vittima dei fantasmi che le agitano l’immaginario politico. Nel Meloni-Show di Capodanno — tre ore di gaia auto-consacrazione, tra bugie colossali e vittimismi universali — la presidente del Consiglio è riuscita finalmente a controllare l’ira funesta e inconsulta che sempre la tradisce quando interviene in Parlamento o incrocia i pochi giornalisti ancora capaci di farle qualche vera domanda. Almeno per una volta, il training psicologico cui si è sottoposta prima della conferenza stampa ha funzionato: la postura guerresca e romanesca dell’agit-prop di Colle Oppio ha lasciato il campo a una posa più misurata e a una prosa più calibrata, quasi degne di una donna di Stato piuttosto che di una tribuna della plebe post-missina. Ma le buone notizie dal Pianeta Meloni finiscono qui. Per il resto, nella prima uscita pubblica del 2024 la premier ha clamorosamente riconfermato i due deficit “strutturali” sul piano della cultura politica zavorrano il suo partito e il suo governo: una classe dirigente impresentabile, una psicosi cospirazionista insopportabile.

Il primo deficit è imbarazzante: la classe dirigente di Fratelli d’Italia è impresentabile, più di quanto lo fu quella di Alleanza Nazionale. Anche Gianfranco Fini, nel ’94, ebbe un problema analogo a quello che oggi assilla Giorgia Meloni. Ma con una variante e un’attenuante. La variante è che lui allora aveva Pinuccio Tatarella, mentre lei oggi ha Giovambattista Fazzolari (e “ho detto tutto”, come diceva Totò). L’attenuante è che allora per l’ex Msi sdoganato a sorpresa da Berlusconi la svolta di Fiuggi si era appena consumata, mentre oggi FdI arriva a Palazzo Chigi avendo avuto tutto il tempo per rinnovarsi e rifondarsi. Non l’ha fatto, se non attraverso i riti e i miti un po’ infantili di Atreju, Frodo e Bilbo Baggins. Il risultato è l’onorevole Emanuele Pozzolo, il cowboy per una notte che ha trasformato Biella in Forcella. Il suo mini-revolver North American LR22, che al Cenone spara e ferisce Luca Campana, è la smoking gun dell’inadeguatezza di un intero ceto politico. La prova regina della “matrice” nera di una dirigenza improvvisata e incrostata di vecchi rancori ideologici e di nuovi furori demagogici. Un impasto rancido di Pro-God e Pro-Gun, Pro-Patria e Pro-Life, No-Vax e No-Pass, e via delirando. Sono gli “irresponsabili” di cui parla Meloni, i Delmastro e i Mollicone, i La Russa e Lollobrigida, le Santanchè e le Montaruli, che combinano un casino a settimana mentre lei, in splendida solitudine, tira la carretta e avverte: “Non voglio più fare questa vita”. E invece le tocca. Perché fa il pane con la farina che ha. E Fratelli d’Italia è questa farina. Non ce n’è un’altra. Non a caso il massimo dell’intransigenza che la leader può annunciare e applicare nei confronti di Pozzolo è una “sospensione” (naturalmente previo passaggio dai probiviri, prassi burocratica un po’ kafkiana e assai poco consona al partito “maschio” e decisionista che Giorgia ama raccontare). Il fatto è che se dovesse espellere tutti quelli come lui, in Parlamento e nei consigli regionali o comunali non resterebbe quasi più nessuno. È un problema enorme, per il governo e per il Paese: per reggere altri quattro anni, la destra al potere può permettersi questo Circo Barnum di pagliacci e pistoleri, nani e ballerine?

Il secondo deficit è allarmante: Meloni non guarisce dalla psicosi cospirazionista, che la ammorba da anni. Ma qui l’aggravante non è una, diventano due. Intanto - finché era all’opposizione in totale e ostinata solitudine, a celebrare il culto del “polo escluso”, della marginalità e dell’alterità – il ricorso alla lisergica paccottiglia complottarda rientrava nel cliché collaudato di tutti i populismi dell’ultradestra: l’odio contro i Poteri Forti e il capitalismo attinto direttamente dal Ventennio, la campagna contro le lobby Lgbtq e il gender mutuato dai camerati ungheresi e polacchi, il Piano Kalergi sulla sostituzione etnica e il Grande Reset pandemico, la lotta contro le tecnocrazie bruxellesi e i “banchieri usurai” alla Soros, l’attacco alla cancel culture condivisa con i trumpisti americani. Ora che Meloni guida una grande nazione, l’uso e l’abuso di questo ciarpame ideologico non le è più consentito.

Ma stavolta c’è anche di più. Nel ritirare fuori dall’armadio i soliti spettri della congiura giudo-pluto-massonica, la premier allude a chi voleva “dare le carte in Italia”, accenna a chi le “ha chiesto ruoli”, rispolvera la frase clou delle consultazioni che hanno anticipato la nascita del suo governo, “non sono ricattabile”. Ma si ferma qui. Di più non dice, non spiega, non chiarisce, come scrive giustamente Stefano Cappellini. Ha visto cose che noi umani, evidentemente, ma si guarda bene dal dare un nome alle cose. Chi trama contro l’Italia? La Spectre Globale, la Grande Finanza? Chi ordisce piani segreti contro il governo legittimo del Paese? Una loggia, la P4 e la P5, la Chiesa di Bergoglio, il Quarto Partito degli Industriali di cui parlava De Gasperi? Nessuno lo sa. Siamo alle chiacchiere da Bar Sport, messe in giro da una premier trasfigurata in “Influencer di Stato”. Hanno ragione i segretari di Pd e M5S, Schlein e Conte, a chiederle di fare nomi e cognomi o di tacere per sempre, concentrandosi semmai sui guai seri che assillano l’Italia, dal lavoro povero alla sanità devastata. Ma anche qui: peccato solo che le opposizioni, rissose e divise, non siano in grado di offrire all’Italia uno straccio di alternativa credibile. E anche questo è un gigantesco problema, di qui alla fine della legislatura.

Rimane il refrain vittimistico della Underdog: la “donna del risentimento” (parafrasando la formula di Luc Boltanski in Enigmi e complotti). Ed è grave. Soprattutto se lo si collega alle frottole istituzionali e costituzionali che abbiamo ascoltato nella stessa conferenza stampa. Sul premierato Meloni mente, sostenendo che con la riforma appena varata i poteri del Presidente della Repubblica non cambiano, mentre sappiamo che il Capo dello Stato non potrà più nominare il presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo né scegliere un premier tecnico in caso di cortocircuito delle maggioranze parlamentari. Sulla Consulta Meloni manipola, attaccando la sinistra in vista della prossima elezione di quattro membri laici (appuntamento che preoccupa non poco Sergio Mattarella) e poi trattando Giuliano Amato come “nemico del popolo” (solo perché ha segnalato il pericolo di una deriva polacca per le accuse rivolte da ministri e sottosegretari all’operato della Corte). Nell’uno e nell’altro, la Sorella d’Italia manifesta un altro limite, che è suo e della sua destra: un’incapacità innata nel maneggiare le istituzioni, un’alterità ostile nel dialogare con gli organi di garanzia. Come osserva Giovanni Orsina sulla Stampa, chi governa, tanto più se pretende di lasciare il segno, deve trovare una propria misura nell’affrontare i contropoteri, le tradizioni amministrative, le competenze che incarnano le strutture dello Stato. Le deve controllare e se necessario riformare, ma parlando il loro linguaggio e rispettando le loro prerogative. 

Meloni non lo fa. Preferisce evocare il golpe bianco e i poteri opachi, tuffarsi nel mare torbido delle illazioni inverificabili e delle cospirazioni innominabili. Così, in una paradossale eterogenesi dei fini, lei stessa finisce per assestare un colpo mortale alla trasparenza del potere, che è il core business di ogni democrazia.

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