Non solo “merito”: c’è pure la virtù
LA CECITÀ DELLA RICCHEZZA - La seconda parola oggi è in disuso perché la si fa coincidere con l’osservanza di precetti, mentre della prima si discute molto, come nel caso dei vantaggi ereditati dalle classi sociali agiate
DI SALVATORE NATOLI
Delle virtù, purtroppo, si parla sempre meno, non così – specie come di recente in Italia – del merito. Prima facie, tra virtù e merito pare esservi una sorta di convergenza dal momento che nulla più delle virtù si merita. Comune è, infatti, lo sforzo, l’applicazione secondo il noto detto di Qoèlet “chi accresce il sapere, aumenta il dolore” (Qo, 1,18).
Solo che quello proprio delle virtù è il saper vivere. Le virtù sono, infatti, esito di un lavoro su di sé, sono frutto di quelle buone pratiche tramite cui il soggetto perviene al governo delle proprie potenze a beneficio proprio e degli altri. Messa in questi termini, i meriti non sono in toto virtù, ma, caso mai, corrispondono alla fatica che s’impiega per acquisire competenze relative a oggetti definiti e in domini parziali. E questo indipendentemente dal bene. In breve, le virtù riguardano l’uomo intero, i meriti corrispondono al grado d’impegno per acquisire un risultato e come tali vanno riconosciuti.
Ne segue che i meriti non sono coestensivi alle virtù anzi si dà il caso che possano divergere. Per capirci, se qualcuno raggiunge per suo merito un’alta posizione sociale può, onde mantenere il vantaggio acquisito, costituirsi di fatto come ostacolo per altri. Ora, dato per noto che una dotazione naturale non è di per sé un merito, ma è merito averla messa a frutto, è etico che il vantaggio acquisito venga contenuto qualora venga a costituirsi proprio come ostacolo. Capita, infatti, che i vantaggi – anche quelli guadagnati – per merito si mutino in rendita tant’è che un utilitarista come Stuart Mill, secondo cui ogni essere umano acquista maggior valore ai propri occhi e a quelli degli altri nella misura in cui sviluppa la sua individualità, riteneva anche giusto subisse “quel tanto di restrizioni necessarie a evitare che gli esemplari più vigorosi della specie umana invadano il campo dei diritti altrui” (La Libertà, Bur, 1999).
E conclude dicendo che da questo l’individuo stesso “ne trarrà personalmente una piena compensazione perché la parte sociale della sua natura conoscerà uno sviluppo maggiore proprio grazie ai freni imposti alla sua parte egoistica”.
D’intuito si coglie come lo spettro della virtù sia più ampio di quello dei meriti poiché le virtù riguardano la realizzazione dell’uomo preso nella sua interezza, i meriti sono relativi ad ambiti parziali della vita e per di più valutabili come tali in riferimento a prestazioni particolari richieste. Sicché se è vero che non si può divenire virtuosi senza merito, vi possono essere meriti senza virtù o, quantomeno a prescindere. In ambedue i casi il merito attiene all’azione: non è dunque una dotazione naturale, una qualità, ma risiede nell’impegno che l’individuo mette in vista di un risultato.
Di solito è uso associare il merito al premio che in primo luogo è un riconoscimento morale, a suo segno, accompagnato spesso a un bene materiale in taluni casi, anche devoluto a istituti di ricerca scientifica, a enti sociali d’assistenza o altro ancora. Questo fatto, magari in assoluta spontaneità, di fatto è acquisizione di nuovo merito e ragione d’ulteriore apprezzamento. Il premio è, dunque, un riconoscimento o privato – una promozione per uno studente, un avanzamento di carriera per un professionista – o pubblico – un Nobel – per la qualità del lavoro fatto e per il benefico che da esso ridonda sulla società. Ora, non è questa la sede per entrare nella valutazione di questa logica premiale – che peraltro fa da pendant a quella punitiva – ma mi limito a evidenziare una sola cosa: quanto la virtù rimanga del tutto estranea alla logica del premio. Già a partire dal mondo classico fino al moderno – e anche presso altre civiltà – la virtù non necessita di premi perché è premio a se stessa. La virtù appartiene alla media quotidianità, il virtuoso, indipendentemente dall’essere o non essere riconosciuto, fa lo stesso quel che va fatto, tende a realizzare e non a farsi vedere. Capita, poi, che azioni e opere lo svelano e magari, senza neppur volerlo, viene elevato ad esempio. Ma la remunerazione più piena della virtù risiede nell’aver guadagnato qualcosa che nessuno può sottrarre e che accompagna l’individuo nell’intero svolgersi della sua vita. E per di più apporta beneficio agli altri quand’anche è ignorato: è la figura del giusto nascosto.
Sulla dottrina dei premi e delle punizioni sono state costruite intere teologie, capitoli del diritto a cui non faccio neppure cenno, ma mi limito a ribadire, come ormai evidente, che la virtù si merita, che suo premio è essa stessa e la generazione di beni che a essa conseguono. A fronte esistono i meriti in senso corrente, ossia relativi a prestazioni particolari e in domini ristretti che di per sé non esigono virtù; sicché se non si può essere virtuosi senza essere meritevoli, si può ben essere meritevoli senza essere virtuosi; per capirci si può essere abilissimi nell’amministrare i bilanci di una società, ma del pari abili nel truccarli: a parità di merito ci può essere un’opzione per il bene e per il male. L’aver acquisito competenze può perciò entrare in rotta di collisione con le virtù. La figura di Oppenheimer, tornata di recente alla ribalta grazie a un film, mostra con chiarezza come ci si può trovare in questi punti di crisi.
Quando si parla di merito non bisogna trascurare le sorti sociali: infatti, un fatto è nascere in ambienti a basso reddito, ove la priorità è cercare di pesare meno sul reddito familiare guadagnando, magari, un certo grado di autonomia con l’accettazione di lavori occasionali, nascere ove minore è l’incentivazione al sapere, più difficile l’accesso alle fonti della conoscenza; altro è nascere in condizioni economiche agiate, ove i destini sono già tracciati: si pensi alle dinastie industriali, alle professioni pressoché ereditarie – avvocati, medici, perfino attori e così via – e dove essendo minori i vincoli gli individui si possono permettere scelte più libere per vocazione o semplicemente per gusto. Non dico che questi non meritino né che non meritino le posizioni che occupano; ma quanto di questo è attribuibile al merito, quanto alla loro sorte sociale? Ciò è così vero che fa caso a sé – esemplare – il successo e la scalata sociale di coloro che sono partiti dal basso. È il mito americano del self made, non è certo la media; anzi in situazioni statiche i benefici della successione prevalgono sul merito o quantomeno non è il fattore determinante.
Per dirla con Michael Sandel, è ad esempio poco verosimile asserire che “le sconcertanti diseguaglianze di reddito e di ricchezze di cui siamo testimoni abbiano a che fare con le differenze innate nell’intelligenza… che gli enormi guadagni di persone che lavorano nella finanza, negli affari e nelle professioni d’élite siano dovuti alla loro superiorità genetica”. Al contrario, è stato notato che i doni innati inferiori più che con la natura “abbiano a che fare con le diseguaglianze di reddito che si osservano nelle economie capitalistiche e che sono dovute al fatto che la società ha investito molto di più nello sviluppo dei talenti di alcune persone rispetto ad altre”. Capita perfino che manager con esiti tutt’altro che eccellenti ricevano liquidazioni milionarie buone per sfamare quasi una popolazione. Automatismi di mercato, si dice; ma dove il merito?
Delle virtù, purtroppo, si parla sempre meno, non così – specie come di recente in Italia – del merito. Prima facie, tra virtù e merito pare esservi una sorta di convergenza dal momento che nulla più delle virtù si merita. Comune è, infatti, lo sforzo, l’applicazione secondo il noto detto di Qoèlet “chi accresce il sapere, aumenta il dolore” (Qo, 1,18).
Solo che quello proprio delle virtù è il saper vivere. Le virtù sono, infatti, esito di un lavoro su di sé, sono frutto di quelle buone pratiche tramite cui il soggetto perviene al governo delle proprie potenze a beneficio proprio e degli altri. Messa in questi termini, i meriti non sono in toto virtù, ma, caso mai, corrispondono alla fatica che s’impiega per acquisire competenze relative a oggetti definiti e in domini parziali. E questo indipendentemente dal bene. In breve, le virtù riguardano l’uomo intero, i meriti corrispondono al grado d’impegno per acquisire un risultato e come tali vanno riconosciuti.
Ne segue che i meriti non sono coestensivi alle virtù anzi si dà il caso che possano divergere. Per capirci, se qualcuno raggiunge per suo merito un’alta posizione sociale può, onde mantenere il vantaggio acquisito, costituirsi di fatto come ostacolo per altri. Ora, dato per noto che una dotazione naturale non è di per sé un merito, ma è merito averla messa a frutto, è etico che il vantaggio acquisito venga contenuto qualora venga a costituirsi proprio come ostacolo. Capita, infatti, che i vantaggi – anche quelli guadagnati – per merito si mutino in rendita tant’è che un utilitarista come Stuart Mill, secondo cui ogni essere umano acquista maggior valore ai propri occhi e a quelli degli altri nella misura in cui sviluppa la sua individualità, riteneva anche giusto subisse “quel tanto di restrizioni necessarie a evitare che gli esemplari più vigorosi della specie umana invadano il campo dei diritti altrui” (La Libertà, Bur, 1999).
E conclude dicendo che da questo l’individuo stesso “ne trarrà personalmente una piena compensazione perché la parte sociale della sua natura conoscerà uno sviluppo maggiore proprio grazie ai freni imposti alla sua parte egoistica”.
D’intuito si coglie come lo spettro della virtù sia più ampio di quello dei meriti poiché le virtù riguardano la realizzazione dell’uomo preso nella sua interezza, i meriti sono relativi ad ambiti parziali della vita e per di più valutabili come tali in riferimento a prestazioni particolari richieste. Sicché se è vero che non si può divenire virtuosi senza merito, vi possono essere meriti senza virtù o, quantomeno a prescindere. In ambedue i casi il merito attiene all’azione: non è dunque una dotazione naturale, una qualità, ma risiede nell’impegno che l’individuo mette in vista di un risultato.
Di solito è uso associare il merito al premio che in primo luogo è un riconoscimento morale, a suo segno, accompagnato spesso a un bene materiale in taluni casi, anche devoluto a istituti di ricerca scientifica, a enti sociali d’assistenza o altro ancora. Questo fatto, magari in assoluta spontaneità, di fatto è acquisizione di nuovo merito e ragione d’ulteriore apprezzamento. Il premio è, dunque, un riconoscimento o privato – una promozione per uno studente, un avanzamento di carriera per un professionista – o pubblico – un Nobel – per la qualità del lavoro fatto e per il benefico che da esso ridonda sulla società. Ora, non è questa la sede per entrare nella valutazione di questa logica premiale – che peraltro fa da pendant a quella punitiva – ma mi limito a evidenziare una sola cosa: quanto la virtù rimanga del tutto estranea alla logica del premio. Già a partire dal mondo classico fino al moderno – e anche presso altre civiltà – la virtù non necessita di premi perché è premio a se stessa. La virtù appartiene alla media quotidianità, il virtuoso, indipendentemente dall’essere o non essere riconosciuto, fa lo stesso quel che va fatto, tende a realizzare e non a farsi vedere. Capita, poi, che azioni e opere lo svelano e magari, senza neppur volerlo, viene elevato ad esempio. Ma la remunerazione più piena della virtù risiede nell’aver guadagnato qualcosa che nessuno può sottrarre e che accompagna l’individuo nell’intero svolgersi della sua vita. E per di più apporta beneficio agli altri quand’anche è ignorato: è la figura del giusto nascosto.
Sulla dottrina dei premi e delle punizioni sono state costruite intere teologie, capitoli del diritto a cui non faccio neppure cenno, ma mi limito a ribadire, come ormai evidente, che la virtù si merita, che suo premio è essa stessa e la generazione di beni che a essa conseguono. A fronte esistono i meriti in senso corrente, ossia relativi a prestazioni particolari e in domini ristretti che di per sé non esigono virtù; sicché se non si può essere virtuosi senza essere meritevoli, si può ben essere meritevoli senza essere virtuosi; per capirci si può essere abilissimi nell’amministrare i bilanci di una società, ma del pari abili nel truccarli: a parità di merito ci può essere un’opzione per il bene e per il male. L’aver acquisito competenze può perciò entrare in rotta di collisione con le virtù. La figura di Oppenheimer, tornata di recente alla ribalta grazie a un film, mostra con chiarezza come ci si può trovare in questi punti di crisi.
Quando si parla di merito non bisogna trascurare le sorti sociali: infatti, un fatto è nascere in ambienti a basso reddito, ove la priorità è cercare di pesare meno sul reddito familiare guadagnando, magari, un certo grado di autonomia con l’accettazione di lavori occasionali, nascere ove minore è l’incentivazione al sapere, più difficile l’accesso alle fonti della conoscenza; altro è nascere in condizioni economiche agiate, ove i destini sono già tracciati: si pensi alle dinastie industriali, alle professioni pressoché ereditarie – avvocati, medici, perfino attori e così via – e dove essendo minori i vincoli gli individui si possono permettere scelte più libere per vocazione o semplicemente per gusto. Non dico che questi non meritino né che non meritino le posizioni che occupano; ma quanto di questo è attribuibile al merito, quanto alla loro sorte sociale? Ciò è così vero che fa caso a sé – esemplare – il successo e la scalata sociale di coloro che sono partiti dal basso. È il mito americano del self made, non è certo la media; anzi in situazioni statiche i benefici della successione prevalgono sul merito o quantomeno non è il fattore determinante.
Per dirla con Michael Sandel, è ad esempio poco verosimile asserire che “le sconcertanti diseguaglianze di reddito e di ricchezze di cui siamo testimoni abbiano a che fare con le differenze innate nell’intelligenza… che gli enormi guadagni di persone che lavorano nella finanza, negli affari e nelle professioni d’élite siano dovuti alla loro superiorità genetica”. Al contrario, è stato notato che i doni innati inferiori più che con la natura “abbiano a che fare con le diseguaglianze di reddito che si osservano nelle economie capitalistiche e che sono dovute al fatto che la società ha investito molto di più nello sviluppo dei talenti di alcune persone rispetto ad altre”. Capita perfino che manager con esiti tutt’altro che eccellenti ricevano liquidazioni milionarie buone per sfamare quasi una popolazione. Automatismi di mercato, si dice; ma dove il merito?
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