Cinque buone ragioni per essere stanchi di Londra
di Caterina Soffici
Fino a poco tempo fa ero una groupie dello scrittore inglese Samuel Johnson e del suo celeberrimo detto secondo cui «quando un uomo è stanco di Londra è stanco della vita». Ho vissuto a Londra gli ultimi dieci anni. Passavo molti mesi in Italia, facevo su e giù, come diciamo noi espatriati, dove il giù è quello geografico e fisico della penisola. Adesso, soprattutto per via della Brexit, il su – leggi l'isola nordica detta Gran Bretagna - mi ha stufato. Non sono la sola italiana a essere stufa, complice anche la pandemia, la difficoltà degli spostamenti e la sensazione di clausura dell'isola (e che isola…, quella dove quando c'è nebbia sulla Manica pensano che ad essere isolato sia il continente).
Che fare? È una domanda che serpeggia da un po' nella comunità degli italiani. Alcuni amici sono già tornati a vivere in Italia, altri ci stanno pensando, altri bofonchiano. Adesso l'aforisma di Samuel Johnson non è più una dichiarazione, ma una domanda: sarà vero che chi è stanco di Londra è stanco della vita? Chi lo sa. Intanto ho stilato una mia personalissima lista delle «Cinque buone ragioni per essere stanchi di Londra» (sarà anche su The Good List, ideato e condotto dallo scrittore Paolo Roversi su Roger-podcast.com, la nuova serie in rete dal 5 luglio). Si parte dalla posizione numero cinque e si risale fino al motivo numero uno, il più importante.
5). Il tempo. Certa di essere smentita dai meteorologi, posso affermare che dopo Brexit anche il cielo è più plumbeo e la pioggia più fastidiosa. Sì, ci siamo ridotti a parlare del tempo, la cosa più British che ci sia. Con la differenza che gli inglesi il cattivo tempo d'estate non lo notano neppure, mentre per noi italiani è motivo di sconforto e disperazione. Dopo lunga permanenza sull'isola, ho la certezza che in Inghilterra esistano solo tre stagioni: l'autunno, l'interminabile inverno e una prova di primavera. L'estate inglese arriva solo per scherzo: appare il sole, fa un po' caldo e tutto ciò dura un paio di settimane, quando va bene.
4). Il gelato (ovvero, la mancanza di). Ne esistono nominalmente vari tipi. Il più diffuso è un composto definito Ice Cream, ma che sta al gelato italiano come la pizza con l'ananas sta alla vera margherita. È una spuma gonfia e dolcissima (zucchero e aria per gonfiarla costano poco) che non ha mai visto né latte né uova né tantomeno frutta fresca, solo polveri. Anche i colori sono sospetti e virano dal verdolino pisello (sarebbe il pistacchio), al verde deciso (menta) all'azzurro (gusto sospetto che non ha un vero nome) al rosa della fragola senza passare mai dal giallo della crema. Ciaccolato non pervenuto, in genere è gusto Oreo, ovvero un biscotto al sapore di cioccolata. E pensare che i primi immigrati italiani, quelli che sbarcavano nel secolo scorso a Clerkenwell e a Little Italy, erano famosi non solo a Londra ma anche in Galles e Scozia per i loro carretti da gelatai. Adesso qualche buon gelataio italiano si trova ancora, ma sono mosche rare e un cono da due gusti costa quanto un tampone molecolare.
3). I pacchi. Il famoso «pacco da giù» con il provolone, la marmellata della zia, le melanzane sott'olio del nonno e il pezzo di parmigiano non arriva più. O meglio, arriva dopo aver stazionato minimo dieci giorni in dogana e con il pagamento di tasse la cui entità ancora ai più non è chiara. Si paga anche sugli effetti personali, sopra un certo valore dichiarato al momento della spedizione. Difficile quantificare se le melanzane del nonno valgano più o meno della marmellata della zia, ma comunque Brexit sta mettendo a dura prova anche la gloriosa Royal Mail, quel servizio famoso per la puntualità e l'efficienza, dove dalle cassette rosse con lo stemma della regina la posta viene prelevata due volte al giorno.
2). Il rischio Singapore (ovvero il fenomeno Harrods). La Londra multiculturale, metà di aspiranti musicisti, di creativi di ogni razza e qualità, di giovani in cerca dell'esperienza all'estero, quel melting pot che ha reso la capitale inglese un luogo di attrazione inimitabile, è fortemente minacciata dal sistema di ingresso a punti, necessario anche per trovare il classico lavoretto con cui mantenersi mentre si inseguono i propri sogni. Arrivano invece sempre più numerosi nababbi da ogni angolo del pianeta, principalmente asiatici e cinesi, carichi di soldi e di velleità immobiliari. I prezzi delle case, già esorbitanti prima di Brexit, sono cresciuti ancora. I grandi magazzini Harrods, dove il turista italiano si avventurava per curiosità e spaventato dai costi comprava al massimo una sciarpa per il nonno (quello delle melanzane sott'olio) o la scatoletta di thé da portare alla zia (quella della marmellata) è la nuova meta dei nuovi ricchi. E il numero di Ferrari e Lamborghini dorate e tempestate di brillantini che i giovani rampolli arabi amano tenere in mostra davanti all'Hotel Dorchester in Park Lane è aumentato. Pessimo segnale.
1). La caccia alla volpe. In quanto tale era già un'aberrazione e infatti è in disuso, ma con l'intera coreografia di cavalieri in giacca rossa e tuba, i corni e le mute di cani rappresenta la cifra dell'eccentricità britannica che prima di Brexit ci piaceva osservare
divertiti
, come gli stravaganti cappellini delle signore alle corse di cavalli ad Ascot, gli stivali da campagna, i pudding, il thé con gli scones, le divise e le medaglie della Royal Family, i club per soli uomini, le uniformi delle scuole e tutte le tradizioni a cui i britannici sono attaccati in maniera morbosa. Come sono particolari questi inglesi, ci dicevamo. Ecco, adesso no. Non mi divertono più. Non li considero più come innocue eccentricità ma come il sottile substrato del nazionalismo che ha portato gli inglesi a scegliere la Brexit e di isolarsi dal continente dietro la cortina di nebbia della Manica.
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