sabato 8 maggio 2021

Dai Incazziamoci!

 

Se volete impregnarvi di un po' di quella benefica incazzatura da sempre essenziale per allontanare l'allocchismo, ecco l'intervista all'ex Celeste, oggi pregiudicato, pubblicata su La Nazione.
«Ero il Celeste: adesso esco due ore al giorno Sono caduto dal Pirellone, così risalgo la vita»
di Sandro Neri
MILANO La casa è un piccolo e silenzioso appartamento ricco di libri, foto e oggetti di design. «È di un amico, che me l’ha messo a disposizione: io non sono in grado di pagare l’affitto», dice subito. «Ci viviamo in due, io e un docente universitario, entrambi Memores Domini», l’associazione laicale di consacrati nata da Comunione e Liberazione di cui Roberto Formigoni fa parte dal 1969. «La scelta della verginità come risposta a una vocazione, cioè a una chiamata», racconta l’ex senatore nel libro Una storia popolare, appena pubblicato. Il bilancio di una vita in politica, senza rimpianti e con poche ammissioni. Non quella di colpevolezza.
«Sono stato condannato per corruzione, ma l’avvocato Franco Coppi, uno dei più grandi penalisti italiani, ha dichiarato pubblicamente “condannato senza una colpa e senza una prova“»: 5 anni e 10 mesi di carcere che, dopo 150 giorni di detenzione a Bollate, Formigoni sta scontando agli arresti domiciliari, in attesa di essere affidato ai servizi sociali. «Posso uscire due ore al giorno, al mattino, ma posso vedere gli amici».
Come trascorre la sua giornata?
«In attesa che il Senato decida riguardo alla mia pensione. Non il vitalizio, ma la pensione accantonata negli anni e detratta dai miei emolumenti. Sono 2.200 euro che il Senato vorrebbe togliermi. Come occupo il mio tempo? Sono uno spirito attivo. Mi sono inventato piccoli lavori per mantenermi, studio e leggo molto. E ricevo un mucchio di gente. Anche giovani che vengono a chiedere consiglio».
Su cosa? 
«Consigli per fare politica. Dedico a loro lezioni di gruppo, gratuite. Ma una scuola di formazione scientifica mi ha invitato a tenere un corso dal prossimo autunno, questa volta remunerato. Una scuola di politica».
Il libro sulla sua carriera è un modo per consolarsi o una sfida ai suoi detrattori? 
«Lo devo all’insistenza degli amici che volevano che non andasse dispersa l’esperienza del Movimento Popolare e dei 18 anni in cui ho guidato la Regione Lombardia».
Nella prefazione il cardinale Camillo Ruini scrive: «Formigoni è stato costretto a una conclusione traumatica e immeritata della sua esperienza politica». Per un cattolico suona come un’assoluzione... 
«Sono grato per ciò che Ruini dice di me, tanto più che poi aggiunge “che la fine di quell’esperienza è stata un danno non solo per lui ma per quanti condividono con lui una certa visione dell’Italia“». 

Lei ha rappresentato per anni l’immagine del potere.  Era consapevole di come la sua figura era percepita? 
«Assolutamente sì. Ho esercitato il potere, più che da parlamentare, da Presidente di Regione. Il potere di fare. Quando arrivo al Pirellone, nel 1995, non faccio spoils system: chiedo a tutti di collaborare al mio programma. E trovo gente che accetta la mia proposta. Poi sono andato a cercare i migliori dirigenti in tutt’Italia, perché volevo una grande squadra». 

La chiamavano «Il Celeste»: la fa sorridere o la irrita? 
«Mi fa sorridere. Quel nomignolo, inventato da un compagno di giunta, era a metà fra l’ammirazione e una simpatica presa in giro. In effetti, il mio ufficio era in cima ai grattacieli più alti d’Italia. E quando il Celeste scendeva nell’aula del Consiglio regionale si faceva subito silenzio... Poi partivano gli attacchi». 

Nel 1975 è stato il primo presidente del Movimento popolare: cosa resta ora di quell’esperienza sul piano politico? 
«Resta un’eredità di metodo e di cose costruite. Abbiamo dato vita a cooperative di lavoro e a centri di solidarietà. Abbiamo creato il Meeting di Rimini e scuole paritarie che sono tuttora realtà importanti». 

Passiamo a Cl. Cosa la folgorò di don Luigi Giussani? 
«Mi ha mostrato un cristianesimo come capacità di apprezzare ogni esperienza umana, come curiosità per l’uomo e la sua storia. Fede e ragione vanno a braccetto: è un cristianesimo che dà significato a tutti gli aspetti della vita». 

Perché, allora, non ha fatto il sacerdote? 
«Perché in me il richiamo all’esperienza religiosa conviveva con la necessità di vivere tutto questo dentro un lavoro. Io ho insegnato e poi ho fatto politica». 

Cl viene spesso percepita come un gruppo di potere. 
«La verità è diversa. Nella mia sanità, tacciata di essere un feudo di Cl, su 80 direttori generali i ciellini erano solo 4; tra i primari ospedalieri erano tra il 5 e il 6 per cento». 

Non c’è solo la sanità. 
«Se parliamo degli imprenditori e della Compagnia delle Opere, parliamo di privati che si sono consorziati e hanno fatto rete per lavorare. Una piccola Confindustria? Questo non vuol dire essere un gruppo di potere». 

Cosa pensa di papa Francesco? 
«È il mio papa. Come ha detto lui stesso, viene dalla fine del mondo. Cioè da un mondo diverso dal nostro. Quello che a volte disturba delle sue posizioni dipende solo da questo. Ma la sua elezione è la prova della grande capacità che la Chiesa ha di rinnovarsi. Ce n’era bisogno». 

Nel 1984, alle Europee, la votano 454.000 persone; alle Politiche del 1987, 150.000: più preferenze del capolista Virginio Rognoni che era ministro della Giustizia. Cosa c’era dietro?
«La Dc cominciava a perdere colpi. C’era forte l’esigenza di un cambiamento della politica. La nostra azione ha rappresentato una speranza. Il Meeting di Rimini ne è il simbolo. Io ero il portavoce del movimento che l’aveva creato. Chi mi ha votato, nell’84, voleva dare forza a questa spinta di rinnovamento». 

La accusano di aver appaltato la sanità lombarda ai privati. 
«Non l’ho appaltata né svenduta. La sanità lombarda, nel 1995, era in crisi, con liste d’attesa lunghissime. I pazienti si rivolgevano già al privato, per accorciare i tempi. Dovevano però pagare cifre altissime. Di qui l’iniziativa di coinvolgere strutture private specializzate in alcune patologie. Sette-otto ospedali privati, pagati però come quelli pubblici. Perché i lombardi mi votavano? Perché apprezzavano la riforma, con la quale anche i nullatenenti potevano farsi operare negli ospedali migliori senza pagare una lira». 

Da un anno la sanità lombarda è sotto attacco. 
«Dopo di me la sanità territoriale è stata indebolita e questo col Covid ha creato problemi. Gli attacchi però sono sproporzionati». 

Nel suo passato anche una sua relazione sentimentale. Non aveva preso i voti di castità? 
«Infatti quella relazione è stata un errore. Non era compatibile con la mia appartenenza ai Memores Domini». 

Cosa c’entra il potere con la vita in povertà? 
«Ci sono re che sono diventati santi. Il potere non è contrario al cristianesimo. La politica come servizio è un’alta forma di carità». 

Nel libro fa autocritica su alcuni passaggi, ma non sulle vacanze che l’hanno portata sotto processo.
«È stato un atto inopportuno, non un reato». 

La Corte dei conti le ha sequestrato milioni di beni e persino centinaia di bottiglie di vino custodite nella cantina di Sadler. 
«I milioni non li ho mai avuti e le bottiglie, come la barca delle vacanze, erano del mio amico Piero Daccò». 

Un lobbista della Regione. Mai pensato che tutto questo prima o poi le sarebbe stato contestato? 
«Talvolta ho pensato che me l’avrebbero fatta pagare, ma non per i reati che non ho mai commesso, ma perché ero un personaggio scomodo, controcorrente, che urtava i poteri forti e che riceveva consensi altissimi che davano fastidio, come era successo ad Andreotti e ai capi della Dc, a Craxi, a Berlusconi. Mai però a uno della sinistra». 

Lo dicono tutti i condannati per corruzione. Il solito nodo politica-giustizia? 
«Su questo non mi pronuncio. Gli atti del processo parlano da soli». 

Come vede la politica italiana di oggi? 
«Sempre più debole e gli italiani sempre più confusi. Auspico la rinascita di un centro che non sarà la Dc, ma una forza moderata che sappia mediare fra destra e sinistra. Chissà che non spunti un cavaliere bianco...». 

Chi potrebbe essere? 
«Mario Draghi. Se dovesse scendere nell’agone politico potrebbe incarnare perfettamente questo coraggio di cambiare le cose».

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