Uno dei filosofi che seguo da qualche tempo, Michel Onfray.
Intervista oggi su Repubblica
Onfray: così la filosofia può aiutarci in questi momenti
31 MARZO 2020
Nel lungo periodo di isolamento per il coronavirus, il filosofo e pensatore francese ci invita a leggere gli stoici. E parla della sua passione per i moralisti del XVII secolo. La distanza sociale imposta "può essere una situazione di rivelazione terrificante del vuoto esistenziale che abita alcune persone che hanno costruito la loro vita più sull’apparire che sull’essere"
DI ALEXANDRE DEVECCHIO
In questi giorni difficili che ci mettono tutti a dura prova, quali letture illuminate ci consiglia? Quali opere di quali pensatori fini di spirito sta leggendo?
“Per riflettere sul coronavirus - risponde l'illustre filosofo e pensatore francese Michel Onfray - il meglio che possiamo fare è ricorrere a Nietzsche, in particolare al suo metodo genealogico. Il filosofo tedesco, infatti, ci aiuta ad analizzare la questione della causalità in un’epoca che ama molto attivare le categorie del pensiero magico. Le interpretazioni complottiste dilagano, e così pure le versioni religiose di quanto sta accadendo: l’epidemia sarebbe un’invenzione del capitale per trarne benefici, una creazione degli americani per spazzare via la supremazia cinese. Anzi, sarebbe un progetto cinese ma, allo stesso tempo, secondo i fratelli [musulmani] di Tariq Ramadan, sarebbe una punizione divina per la sregolatezza dei costumi della nostra epoca. Le assurdità non mancano. La filosofia contribuisce ad attivare i rapporti razionali di causa ed effetto scoperti dai filosofi atomisti, materialisti ed epicurei dell’antichità. Quanto agli autori da leggere, è indubbio che occorra riprendere in considerazione la filosofia dell’antica Roma, una scuola di saggezza pratica esistenziale. Mi riferisco a Plutarco e Lucrezio, Musonio Rufo e Seneca, Marco Aurelio e Cicerone. In sintesi, gli epicurei e gli stoici”.
Quello che stiamo vivendo porta in primo piano la natura umana: inciviltà, egoismo, sciacallaggio in qualche caso, ma anche solidarietà e abnegazione. La filosofia può aiutarci a comprendere queste reazioni?
“Sotto l’influenza dei pensatori del decostruzionismo, provenienti dal determinismo marxista prima e da quello freudiano poi, contro ogni logica e anche ogni forma di buonsenso, la tendenza importante al momento è quella di negare la natura umana. Ebbene, la natura umana esiste. È sufficiente leggere o rileggere semplicemente La Fontaine, oppure i moralisti francesi del Grand Siècle francese, il XVII, ovvero La Rochefoucauld o La Bruyère. Nelle loro pagine c’è già tutto. L’epidemia non ha niente da insegnarci che il favolista francese non ci abbia già insegnato. Non per altro, e non è certo un caso, aveva studiato il greco Esopo e il romano Fedro. Ecco, riprendiamolo in mano. Nell’ambito della mia “Breve enciclopedia del mondo”, sto lavorando a un grosso libro che riabiliti la natura umana, “Anima”. È un libro che non mancherà di invitare a leggere Darwin che ci ricorda o ci insegna, a seconda dei casi, che in fondo siamo scimmie! Non lo si deve dimenticare mai, se si desidera evitare di divagare filosoficamente!”
Lei ha sempre difeso la filosofia pratica, in particolare quella romana. Che cosa ci dice di utile a proposito del dolore?
“O che è violentissimo, e quindi ci porta alla morte, oppure che non lo è, e quindi si può intervenire su di esso in quanto rappresentazione sulla quale la volontà ha potere. In altri termini: io non scelgo di essere malato, ma posso scegliere, qualora fossi malato, di non concedere alla malattia nulla più di quanto lei già non si prenda. La volontà non può tutto, ma nemmeno niente. In verità, la volontà può molto. In un’epoca in cui la volontà non si insegna più, in cui si ricorre a espedienti di vario tipo – farmaci, antidepressivi, ansiolitici, sonniferi, tisane, olii essenziali, omeopatia, coach, psicologi, consulenti per lo sviluppo personale e così via – dobbiamo tenere bene a mente che volere è potere e che la volontà è una forma di potenza che si costruisce, proprio come uno strumento efficiente dalle prestazioni elevate”.
E che cosa dice la filosofia romana della morte?
“Che se c’è la morte non ci siamo più noi e che, se siamo vivi, la morte ancora non c’è. Anche la morte è una rappresentazione. La sua realtà è un momento paragonabile a una sorta di slittamento non sgradevole – guardate come ne parla Montaigne, quando nei suoi “Saggi” racconta il suo incidente a cavallo –, ma la sofferenza che procura nasce dall’idea che uno si fa di essa. Si muore in pochi secondi, ma si può trascorrere una vita lunga svariati decenni a marcire nel presente nel terrore della morte. Occorre dunque pensare alla morte come a qualcosa che verrà, perfino come avvenire, e lasciarla dove è. Nei minuti in cui sopraggiungerà, sarà venuto infine il tempo di fare i conti con essa: resta dunque valido il concetto secondo cui, finché la morte non arriva sul serio, siamo sempre qui, vivi, e dobbiamo gioirne come si gioisce dell’alba sul mondo”.
La morale romana è anche una morale di coraggio. Questa crisi fa emergere una morale del coraggio? E viceversa, forse, anche una della pusillanimità?
“È evidente che il coraggio e la vigliaccheria in questi tempi tremendi trovano occasione di manifestarsi. Il coraggio è raro ma è incredibilmente diffuso tra il personale sanitario, formato da un esercito di persone che partono tutti i giorni per il fronte senza armi e senza elmo, senza mezzi di difesa, mentre là dove vanno fischiano i proiettili. Per quanto riguarda la pusillanimità, è comprensibile: nessuno è obbligato a essere un eroe, ma di sicuro possiamo aggiungere che tutti potrebbero quanto meno provare a esserlo”.
Si tratta di argomenti che lei si è posto in tutti i momenti drammatici della sua esistenza, in particolare dopo l’infarto e l’ictus. Che cosa ha letto in quei periodi problematici?
“Ogni volta, sempre Marco Aurelio. Nelle tasche dei pantaloni della mimetica, quando ero in fanteria di marina, portavo con me i suoi “Pensieri”, e così pure feci nella mia camera d’ospedale, quando a 28 anni ho avuto l’infarto. Spesso portavo i “Pensieri” con me nei corridoi dell’ospedale dove per diciassette anni ho accompagnato la mia compagna, poi morta di cancro. E due anni fa, quando ho subito un ictus, ho chiesto che me lo portassero. Tuttavia, ero talmente fuori forma da non essere in grado di leggerlo, così l’ho ascoltato sul mio iPhone. Non so più quale attore lo leggesse, ma ricordo che tenevo il telefono appoggiato sul torace nudo, chiudevo gli occhi, e ascoltavo Marco Aurelio che mi parlava…”.
Anche la scrittura, senza dubbio, è stata un rifugio per lei. Pensa che possa essere un esercizio praticabile da tutti?
“Credo di sì. In questo lungo periodo di isolamento che ci è imposto, in verità possiamo leggere uno degli autori romani di cui vi ho parlato: le ‘Lettere a Lucilio’ di Seneca, per esempio. Possiamo leggere e annotare appunti sintetici su un quaderno con un colore e commentarli poi con un altro. Così facendo, possiamo entrare nell’intimità del testo, imparare a sintetizzare il pensiero altrui, e di conseguenza facilitare la memorizzazione di quel pensiero. In questa circostanza, si può dunque anche lavorare su di sé”.
Del resto, lei ripete sempre che non scrive per i suoi lettori, ma per sé stesso…
“Sì, per risolvere i miei problemi personali. Per far luce sui miei pensieri, per renderli più chiari, più leggibili, più visibili, e perciò più facilmente affrontabili e vivibili. Leggere filosofia è assolutamente inutile, se in primo luogo non aiuta a vivere”.
L’isolamento sociale in un certo senso obbliga gli individui a ritrovarsi soli con sé stessi. Possono esserci risvolti positivi in questo?
“Può essere una situazione di rivelazione terrificante del vuoto esistenziale che abita alcune persone che hanno costruito la loro vita più sull’apparire che sull’essere. Per molte persone saper vivere da sole è molto difficile. Il silenzio e la solitudine spaventano parecchi individui che amano vivere nel chiasso, nel fracasso, nel movimento incessante, nella confusione. Per quanto mi riguarda, vivo solo e, ogni tanto, riesco a trascorrere giornate intere senza vedere nessuno, nel silenzio e nella solitudine, a leggere, scrivere e lavorare con gioia profonda. Anche mia moglie vive sola, a casa sua, e insieme condividiamo soltanto alcuni momenti scelti, desiderati e voluti. Per coloro che sono abitati dal vuoto abissale, l’esperienza di questo isolamento si rivelerà un vero trauma…”.
Si può essere liberi e rinchiusi a uno stesso tempo?
“Sì, certo. La libertà non è una questione di libertà di movimento, altrimenti i pesci nell’acqua, gli uccelli nel cielo e i serpenti sul terreno sarebbero prigionieri. Libertà significa autonomia, l’arte di crearsi e darsi regole personali. I normanni di un tempo usavano un’espressione magnifica: invitavano a essere ‘le maestà di sé stessi’. Chi non è ‘maestà di sé stesso’, vale a dire signore di sé, non è libero”.
Come si possono sconfiggere la solitudine o la noia?
“Con l’azione, il che può voler dire anche con la contemplazione. Si può essere soli anche con il proprio marito, la propria moglie, i propri figli. E temo proprio che siano in molti a vivere e provare la solitudine. Bisogna essere attivi. Leggere è un’attività, scrivere è un’altra. Non si deve lasciare che la propria volontà non abbia un fine”.
La nostra società potrà uscire rafforzata, paradossalmente, da questa dura prova?
“Non credo. Questa esperienza è stata imposta in massa, non è stata scelta in totale libertà. Frantumerà molte cose e molte persone: le coppie fragili, le persone fragili, i temperamenti e i caratteri fragili, le strutture mentali fragili. Non si può passare impunemente, e così duramente, da una società pervasa dal rumore onnipresente, dall’iperattività incessante, dall’eccitazione permanente, dell’andare e venire continui, dall’esibizionismo perpetuo al silenzio, alla calma, alla solitudine, all’isolamento, all’invisibilità senza che tutto ciò non implichi danni incalcolabili…”.
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