Articolo molto, molto interessante.
giovedì 18/04/2019
L’ANALISI
Frustrazione, bulli e fake: 2019, prima fuga dai social
CONDANNATI - QUESTE PIATTAFORME SONO “UN GRANDE MIRAGGIO” AL QUALE REGALIAMO PORZIONI SEMPRE PIÙ ESTESE DI CERVELLO E DI LIBERO ARBITRIO
di Daniela Ranieri
I social network rendono possibile ciò che prima era impossibile. Questa asserzione, che fino a qualche tempo fa avremmo accolto con l’ottimismo compiaciuto che si riserva alle grandi invenzioni, sta svelando tutte le sue implicazioni terribili. Il “prima” è il tempo della vita analogica, quando per ritrovare un vecchio amico di scuola (uno degli intenti di Facebook ai suoi esordi) era necessario consultare elenchi telefonici e percorrere chilometri, investire tempo, denaro e aspettative nel conseguimento di un obiettivo sociale. Oggi, alfabetizzati da tante ore di pratica sottratte proprio a quella vita e a quella socialità, cominciamo a vedere le crepe di questo prodigio.
Grazie anche ai pentimenti di persone che quel dispositivo hanno contribuito a inventarlo, è ormai chiaro che su Facebook è possibile la compresenza di diverse opzioni relazionali: si può fare amicizia, oppure inventarsi un’identità fittizia per nuocere a qualcuno, diffamarlo o spiarlo, inscenare omicidi e suicidi, bullizzare e adescare adolescenti, fare attentati in tempo reale, esporre alla gogna persone riprese nella loro vita privata. Grazie al nostro consenso ai termini d’uso, Facebook può fare ciò che a qualunque azienda o multinazionale era prima impedito dalla tutela della dignità umana e dai diritti dei consumatori e dei lavoratori: detenere il controllo fisico e neurobiologico dei suoi clienti trasformati in schiavi felici, garruli, geo-localizzati e gonfi di dopamina.
I “mi piace” e il numero di follower agiscono da fattori di rinforzo, cioè svolgono la stessa funzione dei biscottini-premio per i cani addestrati. Il progettista di Google Tristan Harris ha detto di aver disegnato la piattaforma sulla base del meccanismo psicologico delle “ricompense variabili intermittenti”: tirare la levetta della slot machine è una intermittenza tra la frustrazione della sconfitta e la ricompensa della vittoria.
A maggio del 2017 il New York Times ha intervistato uno dei fondatori di Twitter, Evan Williams, “l’uomo che ha aperto il vaso di Pandora”. Williams dice: “Credo che Internet si sia rotto”. Su Facebook si trasmettono omicidi in diretta, Twitter è invasa dai troll (profili veri e finti dediti alla provocazione), le fake news e le molestie sessuali pullulano nel loro brodo d’elezione.
Dunque l’umanità è vittima di un’ambizione faustiana irreversibile, di un’eterogenesi di fini stabiliti dal Capitale, e ora non sa più gestire il potere che pensa di aver acquisito in cambio della sua anima? Forse è persino peggio di così. L’esperto di reti Jaron Lanier, già autore de La dignità ai tempi di Internet, nel recente Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social (Il Saggiatore) definisce i social “un grande miraggio” al quale regaliamo porzioni sempre più estese di cervello e di libero arbitrio. La “macchina della fregatura” mina la verità, toglie significato ai concetti alti (le “legioni di imbecilli” di Umberto Eco oggi godono davvero della stessa risonanza di un premio Nobel), distrugge la capacità di provare empatia inducendo torpore mentale e abituando a nefandezze, corrompe la democrazia mentre proclama di incoraggiarla.
Nella postdemocrazia, l’attenzione maggiore la ottengono non i contenuti ragionati, ma quelli a più alto tasso di emotività: accuse, denigrazioni, messaggi crudeli e paranoici. La politica in crisi di visione gode di riflesso di questa luce sinistra. Il whistleblower che ha rivelato all’Observer il ruolo della società Cambridge Analytica nel raccogliere i dati di 50 milioni di profili Facebook in occasione delle presidenziali Usa del 2016, ha ammesso di aver “mirato ai demoni interiori” delle persone. Il dissenso svanisce dentro un auto-obliterante pulviscolo carico di risentimento.
Spesso sono gli stessi i politici a aizzare i loro sostenitori contro i giornalisti, pubblicando passaggi decontestualizzati di articoli critici, che nessuno legge fino in fondo perché richiedono attenzione e perché sono a pagamento, e lasciando poi che le opposte fazioni si scannino tra loro. La popolarità di un politico si gonfia con gli strumenti del marketing applicati a una logica tribale: fidelizzazione, finta familiarità, coesione in caso di attacchi esterni.
Al contrario di quel che pensavano gli intellettuali integrati, a risentirne è anche la capacità linguistica. Trasformati in macchine di mera analisi del contenuto, ci abituiamo a usare solo il primo livello delle parole, quello denotativo e letterale, per evitare di essere fraintesi o sottoposti a fact-checking. Legioni di censori sotto botta dopaminica fanno partire shitstorm (letteralmente: tempeste di merda) contro autori di frasi che richiedono abilità di secondo livello, fraintese nel loro livello connotativo, spesso ironico, antifrastico o iperbolico. La precauzione si trasforma in autocensura per evitare grane (“Il mondo cade nelle mani della gente più rozza, egoista e meno informata. E chi non è stronzo fa la fine peggiore”, scrive Lanier). È un prodromo della società del controllo, dove ogni dominato aspira a diventare dominatore, delatore, carnefice.
Lo stress continuo a cui ci si sottopone toglie lucidità e stimola reazioni bellicose o ripugnanti (delle dieci ragioni di Lanier, la terza è: “I social media ti stanno facendo diventare uno stronzo”). Senza accorgercene, abbiamo lasciato che un disturbo ossessivo-compulsivo diventasse placidamente parte della nostra normalità e che i bisogni indotti da questi strumenti entrassero nella nostra economia psicofisica.
La presenza sui social è un classico caso di dilemma del prigioniero. Essere visibili, localizzabili, targetizzabili è, contro ogni ragionevolezza, la condizione per esistere. Cancellarsi dai social (l’invito è stato diffuso con la campagna #DeleteFacebook anche da Brian Acton, co-fondatore di WhatsApp, che ha poi venduto a Mark Zuckerberg per 19 milioni di dollari) è un atto politico (si rifiuta di partecipare all’ingrasso di una macchina regressiva e negatrice dell’umano) e una misura di igiene mentale che sempre più persone stanno compiendo. Daniele Luttazzi, osservatore acuto delle distorsioni della comunicazione digitale, ha scritto un articolo sul suo blog dal titolo I social network sono tossici, a cui ha fatto coerentemente seguire la cancellazione dei suoi account.
Nei Manoscritti economico-filosofici Marx consigliava di diffidare di qualunque dispositivo rendesse possibile l’impossibile (uno di questi è il denaro). I social non sono che la reincarnazione virtuale del denaro trasfigurato nella fregatura economica, linguistica e neurologica più riuscita della Storia.
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