Ci siamo!
Sotto il giubbotto niente
di Marco Travaglio
Non sappiamo ancora se quello dei 177 migranti sulla nave Diciotti fu un sequestro e se Salvini ne risponderà in Tribunale. Ma sappiamo già che un sicuro sequestro è in atto in queste ore: quello del cervello di milioni di italiani poco o male informati che, concentrati sugli eventuali reati commessi dal ministro dell’Interno nell’agosto scorso, non si accorgono dei suoi fallimenti. Anzi, pensano che si voglia processarlo per aver salvato l’Italia dai clandestini, dal disordine e dall’insicurezza, tre fenomeni che invece le sue politiche non fanno che aggravare. Mercoledì il Fregoli del Viminale s’è presentato in Parlamento travestito da poliziotto, con giubbotto d’ordinanza, manco fosse il colonnello Tejero. Il Pd e la sinistra hanno subito abboccato all’amo, strillando all’“attacco alle istituzioni”, cioè spacciando quella visione tragicomica per una prova di forza. In realtà è l’ennesimo attestato di debolezza, tipico della sua concezione carnevalesca della funzione ministeriale. Siccome Salvini non riesce a fare quasi nulla di ciò che aveva promesso agli elettori, cioè non sa governare e neppure ci prova, getta fumo, annunci, proclami, dirette Facebook, felpe, ruspe e uniformi negli occhi di chi ci casca. La sicurezza richiede faticosi compromessi, noiose scelte politiche e un quotidiano lavoro diplomatico lontano dai riflettori: per risolvere i problemi a uno a uno, con pazienza ed efficienza. Ma questa, volgarmente detta “amministrazione”, non fa per lui. Così come la sicurezza, a cui preferisce la “rassicurazione”. Anche perché, se risolvesse almeno qualcuno dei problemi legati all’immigrazione e alla sicurezza (che solo in parte coincidono), poi di cosa parlerebbe?
Ieri Salvini ha annunciato che un giovane migrante gambiano di 21 anni, prima ospitato nel Cara di Castelnuovo di Porto e poi, dopo la chiusura di questo, in una struttura di Melfi, era stato arrestato mentre rubava una radio in un negozio e, durante il fermo, aveva aggredito i carabinieri con calci e pugni. E ha ironizzato: “L’episodio mi stupisce, visto che per la sinistra e parecchi commentatori gli ospiti del Cara erano un esempio straordinario di integrazione. Grazie alle forze dell’ordine. Garantisco che la nostra linea non cambia: tolleranza zero per clandestini e delinquenti. E vogliamo chiudere tutti i grandi centri che producono problemi, sprechi e illegalità. Altro che ‘modello di integrazione!’”. Ora, che il Cara di Castelnuovo (e anche altri, come quello scandalo a cielo aperto del Cara di Mineo) andasse chiuso, lo sapevano tutti, anche chi ha menato scandalo per partito preso.
Ma un ministro dell’Interno attento alla sicurezza dei cittadini, oltre a chiudere i centri troppo ampi, dunque incontrollabili e spesso infiltrati da clan tangentizi e malavitosi, dovrebbe sostituirli con strutture più piccole, snelle, diffuse e vigilate. Come gli Sprar comunali, che invece il suo sciagurato decreto Sicurezza depotenzia e svuota. Col risultato di mettere per la strada migliaia di migranti, perlopiù clandestini che, non avendo più nessuno che li sorveglia e li tiene impegnati in progetti di integrazione, si danno nella migliore delle ipotesi all’accattonaggio e nella peggiore al crimine. Aumentando l’insicurezza, percepita e reale. Ma regalando a Salvini altra propaganda gratuita, in un Paese ipnotizzato e anestetizzato che non gli chiede di risolvere i problemi, ma di denunciarli con parole roboanti e di promettere soluzioni nella settimana dei tre giovedì. Possibilmente in divisa da poliziotto. Mentre Conte e Moavero si dannano l’anima per stabilizzare la Libia, sulla scia delle politiche avviate da Minniti, per garantire standard di efficienza della Guardia costiera locale e rispetto dei diritti umani nei campi profughi un po’ meno inaccettabili degli attuali, Salvini che fa? Dichiara guerra all’ex direttore dell’Aise (il servizio segreto estero) Alberto Manenti, massimo esperto italiano di Libia (di cui è originario), in ottimi rapporti con tutte le fazioni, lasciandolo a lungo senza un successore; blocca per mesi la nomina del nuovo ambasciatore a Tripoli, difendendo quello di prima, il noto gaffeur Giuseppe Perrone, tornato in Italia perché sgradito sia al governo Al Sarraj sia al generale Haftar; e si reca ripetutamente in Libia, in concorrenza e sovrapposizione con Conte, Moavero e la Trenta, creando solo casino.
In campagna elettorale prometteva di espellere i 600 mila clandestini dal suolo patrio; poi ha scoperto che “ci vorrebbero 80 anni”, oltre a risorse finanziarie e accordi con i Paesi d’origine attualmente inesistenti. Ma, se non si comincia mai, gli anni diventeranno 100. L’impossibilità di rimpatriare tutti non è una buona ragione per non rimpatriare nessuno. Possiamo sapere a quanti governi africani ha proposto accordi e che risposta ne ha avuto? E, già che ci siamo: ha mai chiesto ai suoi amici dell’Ungheria e del fronte Visegrad di supportare gli sforzi diplomatici di Conte e Moavero per ottenere una cabina di regia stabile in Commissione Ue per l’accoglienza condivisa di chi sbarca nei porti italiani? E, se sì, che cosa gli hanno risposto? E, se gli han risposto “prima gli ungheresi”, “prima i polacchi”, “prima gli slovacchi” ecc., come può restare loro alleato e ripetere “prima gli italiani”? Questo, oltre a bloccare una nave italiana in un porto italiano, dovrebbe fare un ministro dell’Interno che voglia tutelare “un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o un preminente interesse pubblico”. E questo dovrebbero pretendere da lui i suoi partner di governo a 5Stelle e i suoi oppositori in buona fede. Cioè intentargli un processo politico che, per lui, potrebbe rivelarsi molto più imbarazzante e insidioso di quello giudiziario.
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