sabato 30 giugno 2018

Che ne dite?


Aveva macchiato per l’ennesima volta la fu intonsa camicia, stirata con devozione dalla cara mamma anziana. Pur essendo particolarmente solitario, nella sera di quel giorno maledetto, o benedetto a seconda del punto di vista, sarebbe dovuto andare a cena con un’amica, l’unica che ancora lo reggeva psicologicamente.
Anni avanzati come piatti lasciati a mosche su un lavello indegno; da quando si era separato, non era più stato brioso e, per il solo fatto che avvertisse questo cambiamento, lui che mai in vita sua aveva ceduto di un millimetro, confermava a sé stesso la perdita delle prerogative che gli permettevano, un tempo, di essere ammirato e ricercato nella sfera di amicizie: una cena, una serata in qualche bel locale, una corsa in moto sulla spiaggia attendendo l’alba, tutte occasioni speciali nelle quali gli altri vi partecipavano dietro condizione, la certezza della sua presenza.
Ogni qualvolta l’ansia, i dubbi, l’apatia gli si sedevano innanzi, lasciava quella realtà divenuta amara per entrare nel mondo fatato, edulcorato, innaffiato di cui aveva da sempre le chiavi aprenti e depressurizzanti la crescente inappetenza ai colori del presente. Ecco che riapparivano quasi intonsi la soggiacente filmografia dei tempi eroici, dei topici abbracci con la salinità effervescente che ogni individuo ansima a gustare, mercificandola. Apparivano allora visi di fate, lucentezze di corpi trasudanti sensualità, scorribande senza meta, fluorescenze capziose, urticanti spasmi in pectore, riprendenti pian piano vigore, mentre particolari insignificanti si trasformavano via via in pietre miliari.
S’interrogava spesso sulla bontà di questo suo estraniarsi, senza riuscire ad ottenere risposta. Spostava allora l’attenzione su problemi creati per l’occasione, non volendo ascoltare null’altro dalla sua instabile e perniciosa coscienza. A volte contava il tempo, liofilizzandolo per non avvertirne il peso smodato, l’assenza di una scintilla in grado di farlo galoppare, roteando le lancette in un ballo frenetico come la sua vita di allora. Se al posto del cellulare avesse avuto un ferro da stiro nulla sarebbe cambiato in tasca, a parte la differenza di peso. Era uscito dal giro, era emigrato in lande oscure, al declivio tra la pazzia controllata di chi vede scolorirsi tutto attorno a sé, e una malsana, ma appunto salubre, voglia di riscatto, di rivincita, di nuova scalata dei ceti sociali, caste velate ed immarcescibili, luoghi di iraconde battaglie, dettate e agognate mediante il denaro, la disponibilità di risorse che obnubila qualsiasi altro sentimento; tanto era imbruttito che non riusciva più a possedere potere monetario, scialacquato alla grande nei tempi d’oro. Era da molto che non frequentava i templi moderni quali aeroporti, autogrill, centri commerciali, dove la fretta insana e bugiarda attanagliante individui socialmente abiurati alla, se esiste, normalità, e dediti ad una recita recalcitrante intelletto, rettitudine di spirito, concertazione di sentimenti ineludibili per una conduzione sociale, se esiste, normale, sostituita dall’ipnotica simulazione tendente a mascherare l’assenza di sé attraverso un ritmo estremo di gozzoviglie, voracemente bruciate all’altare della dea Ostenta, mascherante il deserto dell’animo con una vorticosità composta da suonerie impazzite, vacui dialoghi attorno al totem Visibilia, matrigna voluttuosa, gelosa, esigente un’esteriorità estrema fondata su sabbie mobili, su palafitte nebbiose, su gelsi rinsecchiti nel gelo, accelerante calendari, sminuzzante stabilità, concetti, posizionamenti reali nello spazio infinito ma pur sempre ristretto, allontanante alti e temibili concetti quali morte, sofferenza, sensoriali percezioni del, ammesso che esista, reale, confinamento dell’io nel degno recinto costellato da lupi famelici pronti a sbranare l’ineluttabilità della fine del proprio mondo, della scomposizione degli atomi sfuggenti e desiderosi un giorno di tornare a formare stelle e pianeti, immoti ma saldi, silenziosi ed inutili ma reali, quasi che possa essere condanna il coabitare dentro un vivente capace di alterare la, ammesso che esista, realtà del gioco preparato da sempre, nel sempre, per sempre.
Si sentiva emarginato, l’ardore per tornare laggiù, perché è del laggiù che si parla, lo affascinava oltremodo, tendendo a riorganizzare una mente recalcitrante, il suo cuore affannato, le sue membra abusate. E quella malinconia nel contempo lo affascinava, vi era qualcosa di strano, d’impalpabile, mistero emergente, ospite inaspettato, balbettio umorale squassante quel poco di ancora vivo, di flebile bagliore che a tratti intravedeva, quasi squassato.
Che quest’onta, questo precipizio vissuto, questa grotta mal illuminata divenisse attraente? Può il nero affascinare, il buio silente invaghire?
Come detto rallentava lo spazio tempo attorno a lui, la dilatazione del giorno giganteggiava: ore trasformate in secoli come una strada desertica in un altopiano inesplorato, attraversato tra il rombo di un cuore che mai ascoltò, di un brusio sconcertante generato dal silenzio, il fragore del Sé!

“Ma parlo!”, si disse nell’attimo scoperchiante il paonazzo, per mancanza di ossigeno, nocciolo d’oro, tralasciato inspiegabilmente da lustri. Avvertì una mancanza da stordimento, s’affannò a dubitare, perché il dio Dubito fulmineamente tentò di velare, obnubilare il vagito dell’Essenza. Una concatenazione di eventi, un frullato di disattenzioni aveva smascherato l’arcano, il fulcro, il fuoco. S’incontrò con sé stesso, ebbe la fortuna di conoscersi, di familiarizzare, confabulare, discettare, pianificare, facendo confluire sensazioni misteriose, allocate chissà dove e da quanto; vide il vagito della reazione a catena, srotolante il Vero. Attorno a lui ogni altro espediente svanì, la missione stordente s’affievolì, le grandi praterie, i percorsi scoscesi incredibilmente appetibili gli si pararono davanti. Per la prima volta, straordinariamente, si trovo solo, solo con sé stesso. E fu sera e fu mattina. Secondo giorno.        

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