.. a capire in che cazzo di paese viviamo!
Il raid dei Casamonica al bar solo una disabile si ribella
Frustata con la cinghia e presa a calci e pugni. “Se chiami la polizia ti ammazziamo” L’esplosione di violenza perché due esponenti del clan non erano stati serviti per primi.
di Floriana Bulfon per Repubblica
roma
Frustate in pubblico, in pieno giorno, perché il messaggio deve arrivare a tutti. Anche ai bambini che guardano spaventati grondare il sangue a terra, perché « qui comandiamo noi e se non fai quello che diciamo, ti ammazziamo » , parola dei Casamonica. È la domenica di Pasqua quando due esponenti del clan entrano in un bar della periferia sud- est della capitale e compiono un massacro. Picchiano una giovane donna disabile solo perché osa parlare, poi ritornano, colpiscono a bottigliate il barista e gli distruggono il locale. Non li ha serviti per primi, ha mancato di rispetto e la deve pagare.
I Casamonica, mille affiliati e un patrimonio da quasi cento milioni di euro. Il loro regno è un territorio militarizzato, con le vedette a ogni angolo e le ville barocche che occupano pezzi di strade e marciapiedi. Lo sfarzo ostentato per intimorire e celebrare la potenza criminale, come per le esequie di zio Vittorio, tre anni fa: con le carrozze, l’elicottero e l’acclamazione a re. Prepotenza e brutalità sono la regola, si vive sotto assedio.
Il primo aprile è una giornata di festa. Dentro al bar di via Salvatore Barzilai, periferia sud-est della città, una bimba sorride in braccio al suo papà, alcuni ragazzi prendono il caffè, una giovane è in coda alla cassa, Entrano i boss, vogliono le sigarette e pretendono di essere serviti subito. Funziona così, per loro non esiste la fila.
Il barista, un ragazzo romeno con gli occhi azzurri e tre dita perse lavorando, non se ne accorge e loro non lo possono tollerare. « Questi romeni di merda non li sopporto proprio» urla Antonio Casamonica al cugino Alfredo Di Silvio. La giovane dietro di lui li riprende: «Se il bar non vi piace andate altrove » . È la fine. Casamonica, 26 anni e all’attivo condanne per estorsione e falso più un processo per evasione, le strappa con una mano gli occhiali e li lancia dietro al bancone, poi si sfila la cinta dai pantaloni e la passa a Di Silvio.
I due sanno come fare: sono corpulenti e già da piccoli hanno imparato a picchiare. La prendono alle spalle, la frustano e poi calci, pugni fino a quando crolla a terra massacrata. La bambina sgrana gli occhi terrorizzata, ma nessuno si muove, nessuno interviene per difendere quella giovane. Una donna e disabile. Le strappano di mano il telefono e, mentre lei striscia a terra e chiede di riaverlo indietro, glielo lanciano contro ordinando: « Se chiami la polizia ti ammazziamo » . Il messaggio vale per tutti. Il locale si svuota, resta solo il barista a soccorrerla e a consigliarle di andarsene «perché torneranno » . E infatti mezz’ora dopo eccoli arrivare, Alfredo Di Silvio irrompe con il fratello Vincenzo. Spaccano la vetrina, rovesciano tavoli e sedie: « Qui comandiamo noi, non te lo scordare: questa è zona nostra. Ora questo bar lo devi chiudere, altrimenti sei morto » . Anche questa volta non interviene nessuno. Sono cinque i clienti che rimangono seduti a giocare ai videopoker. Il barista è a terra, il suo volto è coperto di sangue. Gli schizzi arrivano fino al muro, colano accanto al calendario della Guardia di finanza. Intorno a lui sembra sia scoppiata una bomba, è tutto in frantumi.
Trenta giorni di prognosi per lei, otto per lui. Li hanno massacrati. La giovane non conosce i suoi aguzzini, era lì per caso, ma ha capito che appartengono alla famiglia, quella che comanda e di cui bisogna aver paura. Il barista invece sa bene chi sono, i Di Silvio abitano nella stessa via e i Casamonica cento passi più in là. Le due vittime però, il giorno dopo, si fanno coraggio e denunciano. Un affronto senza precedenti, quando il clan lo scopre fa scendere in campo un pezzo da novanta. Enrico, il nonno dei fratelli Di Silvio, condannato per sequestro di persona e lesioni, si presenta al bancone. Ordina un caffè e il ritiro immediato delle accuse, pena la morte. La violenza mafiosa di chi sente padrone. Il barista è terrorizzato e per due giorni la serranda rimane abbassata. La moglie però non ci sta, quel locale aperto con tanti sacrifici è il loro lavoro, la loro vita e non possono rinunciarci.
All’angolo della strada due ragazzoni appoggiati alla macchina fissano l’ingresso del bar. Dentro sembra non sia successo nulla, il giovane romeno è tornato dietro al bancone. Dopo tre caffè racconta la sua paura e, solo quando non ci sono più clienti, tira fuori il telefonino. Mostra le immagini riprese dalla telecamera sopra i gratta e vinci e i tabacchi. Ha immortalato la sequenza dell’orrore criminale. Da quel giorno ha cambiato le sue abitudini, il percorso per tornare a casa e teme che in ogni momento possa entrare qualcuno della “famiglia”. All’uscita i due sono ancora lì, lo sguardo fisso sul locale. Quello di chi impone il suo violento potere mafioso.
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