mercoledì 30 aprile 2025

Rimuginamenti

 



Fantastico Grande Flagello!

 





Daiii!

 



Natangelo

 



Robecchi

 

Mondo al buio. Col black-out tutto si spegne, a parte il complottismo
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Se va via la luce, la seccatura è notevole, con diversi gradi di gravità. Per esempio è fastidioso se non avete la birra fredda, ma è ancora più fastidioso se vi stanno mettendo un bypass in sala operatoria, oppure se state in ascensore con gente antipatica e realizzare che ci dovrete stare alcune ore, o se arrivate al semaforo e quello smette di funzionare di botto (segue altro botto). Il grande black-out iberico, che ha coinvolto Spagna e Portogallo ci dice alcune cose sulle nostre società avanzatissime, che sembrano un po’ fragili, ma anche su di noi che le abitiamo, che sembriamo fragili ancora di più. Sulle cause – almeno mentre scrivo questa rubrichina – è buio fitto (per rimanere in tema) e non si capisce bene cosa abbia generato il disastro. Quel che è sicuro è che si è assistito, in poche ore, a una specie di declino immediato della società elettrica ed elettronica, interconnessa, moderna, avanzata, cablata, entrata improvvisamente in stand by. Una cosa che può capitare ovunque e in qualsiasi momento, e da cui non ci salverebbe nemmeno il divertente zainetto di resilienza consigliato dal partito della guerra europeo. Sì, certo, possono servire una radiolina e una torcia, ma si consiglia anche di saper accendere il fuoco con due legnetti, o comunicare con i tamburi e i segnali di fumo.
La cosa che ha colpito da qui, dove la luce non è andata via, è un’improvvisa impennata del complottismo, malattia diffusa e sempre più radicata tra le menti semplici o tra le menti complesse che si alimentano di sospetto e malafede. Il black-out è scattato a mezzogiorno e mezzo e non era nemmeno l’una che in tutto l’universo dei social era un esilarante rincorrersi di soluzioni già individuate, colpevoli già scoperti, condanne già emesse. Sono stati i russi, ovvio, come giuravano alcuni acutissimi osservatori geopolitici. Oppure è stata la politica green, perché vedi le rinnovabili? Col carbone non sarebbe successo. Sono stati gli hacker (con gli hacker si spiega tutto, sempre, se poi sono hacker russi si fa ambo), no, sono state le auto elettriche, no, l’errore umano, no, un sabotaggio, eccetera eccetera, che a un certo punto – viste le cazzate lette e sentite – ci si rammaricava che non fosse andata via la luce anche qui. Non ci si capacita, insomma, che le cose umane possano ogni tanto guastarsi e smettere di funzionare. Cresceva, insieme al fascino inestinguibile della dietrologia complottista, una strabiliante fascinazione medievalista, con gente che esultava per la crisi dei pagamenti elettronici, che si rammaricava per la nostra dipendenza dalle macchine, e – in soldoni – per la modernità in cui siamo immersi. Nostalgie analogiche un po’ sconcertanti, soprattutto perché espresse quasi sempre da gente che va in paranoia se il telefono scende sotto il venti per cento di carica o se le scale mobili smettono di funzionare, che parlano con Alexa per sapere se fuori c’è il sole, che consumano megawatt di energia per giocare con l’intelligenza artificiale e le cui vite, dal lavoro al tempo libero, sono governate dall’algoritmo.
Insomma, una bella lezione sull’assurdità del vivere, bella soprattutto perché l’hanno pagata gli spagnoli e non noi, e rivelatrice di una grande e infantile voglia di antico e di primordiale che si annida tra chi abita il mondo moderno. Visto? Nel Quattrocento non sarebbe successo! Bella consolazione, che però non funziona se dovete prendere un aereo o farvi una radiografia, perché anche le nostalgie, alla fine, hanno bisogno di energia elettrica.

Testa a Pera

 

Il ritorno di don Camillo
DI MARCO TRAVAGLIO
Leggendo l’incredibile intervista del cardinal Camillo Ruini al Corriere, qualcuno penserà ai suoi 94 anni. Errore: quello che parla è il Ruini di sempre, che dal 1991 al 2007 fu presidente dei vescovi italiani, là dove ora c’è la sua antitesi: Matteo Zuppi. Pare un revenant venuto dalla notte dei tempi, invece ha regnato sulla Cei fino a 18 anni fa. Dice che ora ci vuole “un Papa buono”, ma soprattutto “credente” (si vede che Roncalli, Montini, Luciani, Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio erano cattivissimi e miscredenti). E rimprovera a Francesco di essersi “rivolto soprattutto a quanti erano distanti” e di avere “irritato chi per anni si era speso a difendere le posizioni cattoliche”. Tipo lui, per dire. “È sembrato privilegiare i lontani a scapito dei vicini”. Per carità, “è un gesto evangelico”, il che dovrebbe chiudere la questione. Se gli apostoli e discepoli di Gesù avessero predicato il Vangelo solo ai cristiani, cioè a chi già credeva, la Chiesa sarebbe rimasta in quattro gatti. Altro che “cattolica”, cioè universale. Infatti Gesù disse: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura”. Ai lontani, non ai vicini che non ne hanno bisogno. Ma a Ruini non garba neppure quel brano evangelico. E men meno la parabola del figliol prodigo, che tornò a casa dopo bagordi e dissipazioni e fu riaccolto dal padre con tutti gli onori. Infatti si schiera col fratello rosicone: “L’altro figlio protestò, così oggi c’è chi protesta nella Chiesa”. Pessime anche “certe affermazioni di papa Francesco che potevano dare l’impressione di una grande apertura, come il famoso ‘chi sono io per giudicare’ riferito alle persone omosessuali, che sembrava preludere a profonde modifiche dottrinali”. In realtà l’unica cosa a cui preludeva erano altre frasi di Gesù: “Non giudicate per non essere giudicati… Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave nel tuo?” e “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Quindi non si capisce cosa intenda Ruini quando rammenta che “l’elemento centrale della Chiesa è Cristo, non il Papa” e poi invoca un papa “credente”: credente in cosa, visto che attuare gli insegnamenti di Cristo non gli sta bene?
Il vero peccato mortale di Francesco che affiora fra le righe è il rapporto con la politica squisitamente laico, cioè evangelico (“Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”), senza i collateralismi alla Ruini, il cappellano di B. che si impicciava negli affari dello Stato italiano: dalla campagna per l’astensione al referendum sull’eterologa alla vergogna del decreto per tenere Eluana Englaro attaccata alle macchine. Se è questa la Chiesa che vuole riesumare, lo ringraziamo per l’intervista: ci ha ricordato da cosa ci ha salvati Francesco e dove rischiamo di ripiombare.

L'Amaca

 

È tornata la tigre di carta
di MICHELE SERRA
Quando la Cina di Mao diceva “l’America è una tigre di carta” ero un ragazzino. A cavallo tra i Sessanta e i Settanta il comunismo cinese aveva una forte attrazione sui giovani occidentali in piena ribellione anticapitalista. Era più radicale o forse solo più esotico del comunismo sovietico, che già allora sembrava comatoso.
Niente o molto poco si sapeva delle violenze, delle crudeltà e delle deportazioni della Rivoluzione culturale, grande campagna maoista contro i “revisionisti controrivoluzionari” (leggi: i riformisti) che ebbe fine solo con la morte di Mao e l’arresto della Banda dei Quattro. Io dovevo essere poco ribelle già allora — forse il riformismo è un vizio innato — perché alle Guardie Rosse preferivo Berlinguer, che nei cortei studenteschi era schernito in quanto fifone, nemico della rivoluzione, reggicoda dei padroni.
Mezzo secolo dopo quelli della mia età non possono non avere un sussulto leggendo le parole del ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, a proposito dell’America di Trump: «Tutti i bulli sono solo tigri di carta. Gli Usa non rappresentano il mondo intero, il loro commercio è meno di un quinto del totale mondiale. Quando il resto del mondo è unito nella solidarietà, gli Stati Uniti sono solo una piccola barca alla deriva».
Per uno dei tanti paradossi della storia, ciò che venne detto nel nome della lotta al capitalismo (l’America è una tigre di carta) viene ripetuto oggi nel nome del libero scambio. La Cina non è più il paese contadino affamato dei tempi di Mao, è una potenza mondiale, anch’essa imperiale nella gittata dei suoi traffici. Ha i suoi interessi e le sue mire, e lo sappiamo. Ma non una sola delle parole del ministro Wang Yi suona stonata.

Inspiegabile

 



martedì 29 aprile 2025

Lite interna

 



Natangelo

 



A volte chiudo gli occhi e....

 



Ritratto

 

Franceschini, il Br che si sentì burattino della lotta armata
DI PINO CORRIAS
Infiltrati e manovrati “Quando toccammo la Fiat il mondo degli adulti prese le sue contromisure. Noi volevamo l’insurrezione armata, lo Stato usarci per destabilizzare”
Tutti i brigatisti che ho intervistato si portano dietro una bolla d’aria che viene dagli anni Settanta. È la loro condanna. Alberto Franceschini – appena scomparso a 77 anni – più di tutti. L’ultima volta che l’ho incontrato a Milano, una decina di anni fa, mi disse: “Ci credevamo all’alba della rivoluzione, all’inizio del mondo nuovo. Invece era il tramonto di quello vecchio”. E lo disse a consuntivo, senza alcuna emozione per la sconfitta, né per l’abbaglio. Solo stanchezza.
Ci incontrammo davanti al bianco e nero della Stazione Centrale. Arrivò puntuale al minuto, come aveva imparato negli anni della clandestinità e in quelli del carcere. Sbucò dalla folla, camminando lento. Veniva da una lontananza speciale, dopo il clamoroso arresto a Pinerolo con Renato Curcio, anno 1974, diciotto anni di carcere duro, molti processi, la dissociazione dalla lotta armata, i sospetti di essere stato strumento più che attore, la solitudine.
Mi disse: “Sono tornato da poco a Milano. Non ho moglie. Non ho figli. Sono solo proprio come quando sono partito da Reggio Emilia cinquant’anni fa. Resto un clandestino come allora”.
Indossava un giaccone e i pantaloni grigi, la coppola calcata sui capelli bianchi. Era invecchiato anche lui come tutta questa storia di piombo, che sempre aleggia nei fondali della nostra Repubblica, ora che la ferocia di quei tempi è diventata una lunga coda di inchiostro, dove si sono smarrite le ragioni, non i lutti e neppure i torti.
Nei libri e nei verbali ha raccontato le radici della sua scelta. Il nonno e il padre partigiani a Reggio Emilia, lui iscritto al Partito comunista fin da ragazzo. Poi le insofferenze per il moderatismo del partito. E perciò la scissione con i compagni dissidenti, Prospero Gallinari, Roberto Ognibene, Paolo Maurizio Ferrari. Il trasferimento a Milano, la città delle fabbriche. L’incontro con Renato Curcio e Mara Cagol, le riunioni del Collettivo politico metropolitano, l’antifascismo che doveva tornare militante, dopo la resa di Togliatti. Tutto accelerato dalla strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969, la decisione di continuare “la rivoluzione interrotta”, riprendere le armi, fondare le Brigate Rosse.
Mi disse: “Non cerco giustificazioni. Ma davvero eravamo dei ragazzi, io avevo 22 anni, quando sono entrato in clandestinità, Renato Curcio ne aveva 29 e a me sembrava grande e maturo. Non ci rendevamo conto di quello che stavamo mettendo in moto”.
Nel 1972 il primo sequestro di persona, l’ingegnere della Sit Siemens Idalgo Macchiarini, rapito per otto ore, fotografato con un cartello al collo “Colpiscine uno per educarne cento!”. L’anno dopo, l’altro rapimento del dirigente d’azienda, Ettore Amerio, a Torino, capo del personale Fiat, sequestrato e interrogato per sette giorni.
Raccontava Franceschini: “Toccando la Fiat le cose cambiarono rapidamente. Il mondo degli adulti prese le sue contromisure”.
In che senso? “Nel senso che ci fu una riunione a Torino nell’ufficio del procuratore Bruno Caccia con il generale Dalla Chiesa, che aveva appena fondato il suo Nucleo Antiterrorismo, e alla riunione partecipò Ugo Pecchioli, il responsabile della sicurezza del Partito comunista che ci considerava nemici mortali. Estremisti da sconfiggere perché il nostro attacco armato poteva danneggiare lo Stato, le istituzioni, ma prima di tutto il Pci. Portò ai magistrati l’elenco dei sospetti, i più combattivi nelle fabbriche, gli extraparlamentari, gli ex militanti del Pci che se n’erano usciti a sinistra, come noi”.
Andammo a sederci nella saletta dell’Alemagna che aveva arredi antichi, coerenti al racconto di Franceschini. “Pecchioli collaborò all’infiltrazione del primo nucleo Br perché Dalla Chiesa aveva bisogno di occhi e orecchie dentro l’organizzazione”.
Poi ci furono i trentacinque giorni del sequestro Sossi, il magistrato genovese, rapito nell’aprile del 1974, liberato con la promessa della scarcerazione di otto “prigionieri politici”, un patto che venne immediatamente cancellato, quando Sossi fu in salvo, con ulteriore catena di conseguenze sanguinose, l’uccisione per rappresaglia del procuratore capo di Genova Francesco Coco e l’ostinazione dei brigatisti, durante i 55 giorni del sequestro Moro a non liberare l’ostaggio prima di ottenere la contropartita.
Tutti eventi che Franceschini visse da detenuto, carceri speciali di Asinara, Bad’e Carros, Palmi, avamposti del “fronte delle carceri”, mentre fuori cominciava a scorrere il sangue dei morti ammazzati, delle rapine, fino “all’assalto al cuore dello Stato” con la strage di via Fani.
Ricordava tutto di quell’ultimo anno di libertà clandestina: “Dalla Chiesa unificò le indagini, creò analisi e archivi. Infiltrò un tale Marra, di cui non si sentirà più parlare, poi Silvano Girotto, detto Frate Mitra, che veniva dalle guerriglie sudamericane, e determinerà il mio arresto e quello di Renato”. Dei molti anni in carcere ricordava le botte, le rivolte, la difesa identitaria dell’organizzazione. Compresa quella volta, a Palmi, quando Luciano Liggio, il boss di Cosa Nostra, invitò Curcio in cella: “Gli disse: vi porto i saluti di quelli che vi hanno fatto un favore e si riferiva all’omicidio Dalla Chiesa che era appena avvenuto a Palermo. Gli propose uno scambio: il permesso di costruire una nostra rete in Sicilia e in cambio l’impegno di ammazzargli dei dirigenti del Pci che gli davano fastidio. Neanche lo prendemmo in considerazione, ovvio. Ma questo era il clima”.
La sua tesi rimase fino alla fine che le Br – a corredo della sconfitta politica – fossero state infiltrate da subito: “L’informatore più importante fu Patrizio Peci che a un certo punto consegnò ai carabinieri tutto l’organigramma dell’organizzazione”. Peci lo ha sempre smentito. Vive sotto protezione da quegli anni lontani, dopo il carcere e dopo che le Br avevano sequestrato e ucciso per rappresaglia suo fratello Roberto.
Franceschini scuoteva la testa: “Resto convinto che le Br siano state controllate prima, durante e anche dopo il sequestro Moro. Che fu roba nostra, come hanno dichiarato Gallinari e Moretti, ma solo perché ce lo hanno lasciato fare. Serviva che accadesse e accadde”.
Aggiunse: “Noi avevamo un progetto politico, l’insurrezione armata. Ma anche lo Stato ne aveva uno: usarci per stabilizzare il suo potere, quello congelato dall’alleanza atlantica, tenendo immobile il Pci, ma senza tagliarlo fuori del tutto. Per loro una fetta del gioco grande c’era sempre. Noi eravamo solo i burattini che servivano”.

Visione scanziana

 

Cinquanta sfumature di giornalismo (si fa per dire) meloniano
DI ANDREA SCANZI
A sinistra si tende a pensare che i giornalisti/opinionisti di destra siano tutti impreparati e improponibili: non è vero, o è vero solo in parte. Esistono varie tipologie. Ecco una parziale e tutt’altro che esaustiva carrellata di 50 sfumature di meloniani.
Sechismo. Branca del pensiero che, di fatto, rinuncia al pensiero stesso per difendere sempre e comunque la Meloni. Discutere con un sechista è del tutto inutile, perché lui – appunto – non pensa ma tifa. Non argomenta ma celebra (o insulta). Il sechismo è uno dei punti più bassi del melonismo, e proprio per questo (somigliando nel profondo al melonismo stesso) va bene per qualsiasi talk-show: quelli di destra se ne servono per dare spazio ai peana a caso, quelli di sinistra per dimostrare quanto a destra il pensiero sia oltremodo evanescente.
Bocchinismo. Variante più incarognita e compiaciuta del sechismo. Il bocchinista (con rispetto parlando) si vanta del suo essere sgradevole, schierato e malamente curvaiolo. Il giornalismo dovrebbe essere cane da guardia della democrazia azzannando il potere, ma il bocchinista rovescia con sadismo tale precetto, divenendo zelante cane da riporto del potere contro qualsivoglia contrappeso democratico.
Sallustismo. Deriva moscia, caricaturale, abbrutita e sommamente vuota dei “pensieri” precedenti. Il sallustista vorrebbe avere argomenti ma non ne ha, vorrebbe avere visibilità ma per carità, vorrebbe avere credibilità ma ciao core. Una prece.
Belpietrismo. La sfumatura più puntata e preparata del giornalismo di destra italiano. Spesso sopra le righe, provocatorio, teo-con, (ahilui) no-vax e maramaldo, deliberatamente scorretto e puntualmente opposto a qualsivoglia afflato woke, il belpietrista – così come la sua versione più giovanile borgonovista – ha un grande pregio che manca alle altre correnti destrorse: è preparato. Spacca il capello in quattro (anche quando sa di avere torto marcio). Non si fa prendere quasi mai in castagna. Conosce l’italiano e, di solito, ha pure una dialettica degna. Per tutti questi motivi, quando li si trova in tivù dall’altra parte della barricata, non si prova mai quella odiosa sensazione di parlare da soli o con un fiancheggiatore cieco (quando non entrambe le cose). Detta ancora più dritta, con tanto di iperbole: Tra un Belpietro e un Sallusti, o un Borgonovo e un Sechi, passa la stessa differenza che intercorre tra Wagner e Marcella Bella.
Giordanismo. Per tanti versi simile al belpietrista, aggiunge a ciò una propensione teatrale e gigiona nell’approccio televisivo (soprattutto quando conduce). È munito di autocritica e, come il belpietrista, ha molte idiosincrasie: tra queste, i renziani e i professionisti dell’antifascismo di facciata.
Crucianista. Categoria a se stante. Il crucianista è unicamente interessato al far parlare di sé, e in questo (soprattutto in radio) è bravissimo. La politica gli interessa solo in funzione del poter allargare la sua fama. Furbino, bastian contrario per interesse, scaltro come pochi, abilissimo nel trollare i media e il prossimo. Se potesse, parlerebbe solo di feticismo, sadomaso e Only fans. E a pensarci bene sarebbe meglio per tutti.
Fusanismo. Il lettore si stupirà nel vedere citata una categoria così marginale e irrilevante. Il motivo è semplice: da sempre esiste un equivoco, vuoto e insopportabile “centrosinistrume” così respingente da far venir quasi voglia di rivalutare Crosetto. Le giuggiole appartenenti al morituro fusanismo hanno vissuto la loro età dell’oro col renzismo, negli anni tragici dal 2014 al 2016, e nonostante il trapasso politico del loro Sire sono ancora lì a tifare Rignano, spalando sterco a casaccio su grillini e sinistra radicale. Ecco: finché l’alternativa a Meloni sarà (anche) gente così, questo governo non cadrà mai…

Un bel mondo!

 



Conclavemente

 



Abbiate pietà

Di Marco Travaglio 

Questa cosa che il conclave inizierà solo il 7 maggio è una vera jattura, perché ci infliggerà almeno altri dieci giorni di toto-papa, di calcoli spannometrici sui voti di questo o quel cardinale, di oracoli sull’immancabile “Papa nero” (brano dei Pitura Freska del 1997), o giallo, o rosso, o verde e sui candidati di Trump, Macron, Meloni e Schlein, di vaticanologi della mutua che tracciano identikit del vero erede di Francesco o hanno le visioni e sentono le voci come Giovanna d’Arco e auspicano un “papa di transizione”, “pacificazione” e “larghe intese”, magari un tecnico alla Draghi o alla Monti o un ambidestro per tutte le stagioni tipo Letta o Amato. Il malvezzo di affidare le cose di Chiesa a gente che non ne ha mai vista una e bivacca notte e giorno alla buvette di Montecitorio ha già fatto abbastanza ridere tra la morte e il funerale di Francesco, con gente armata di metro, goniometro e tomtom per misurare quanto fosse di sinistra il defunto e di centro o di destra gli aspiranti al Soglio. Fino alle barzellette del 25 aprile quando la Liberazione dal nazifascismo è diventata tutt’uno con le esequie papali dell’indomani, tra inviti del governo alla “sobrietà” per rispetto del morto, appelli delle sinistre a combattere i fasci nel nome di Francesco, strofe di Bella ciao miste all’Eterno riposo sull’aria del De Profundis (e viceversa), manifestanti confusi con i pellegrini e cartelli partigiani col faccione del caro estinto, manco avesse fatto la Resistenza a 17 anni in smartworking dall’Argentina.

Ora la Maratona Conclave continua con due aggravanti: la Meloni deve dimostrare di aver propiziato lei – e non la diplomazia vaticana – il faccia a faccia Trump-Zelensky in San Pietro, ma lontano dai fotografi perché è una statista molto schiva; e le vedove inconsolabili dell’“euroatlantismo” in missione per conto di Dio lacrimano come viti tagliate per il tradimento trumpiano, ma ancora non si rassegnano. Mieli sul Corriere e Orsina sul Giornale intrattengono i lettori sul succulento tema “Cristianesimo e Occidente”. Orsina per deplorare il “divorzio” tra l’uno e l’altro, a causa del Papa più antioccidentale (cioè più cristiano) mai visto. E Mieli per aggrapparsi all’“aleggiare in piazza San Pietro di un barlume del ritrovato spirito dell’Occidente”, che gli ha fatto sperare, ora che il Papa non parla più, in una “resurrezione dell’Occidente cristiano… nelle forme dell’alleanza tra Stati Uniti, Europa e altri partner nel mondo liberale”. Il cosiddetto “Occidente cristiano” è quello che ha seminato milioni di morti in giro per il mondo usando la religione e il liberalismo per fare stragi contro “imperi del male” veri o presunti. E le prefiche piangenti non vedono l’ora di ricominciare a menare le mani. Spirito Santo, pensaci tu.

L'Amaca

 

La rivolta degli offesi
di MICHELE SERRA
«Proviamo un profondo senso di tradimento. Siamo offesi». Così Greg Fergus, presidente del Parlamento di Ottawa, parla dello sconquasso politico e psicologico che la volontà di annessione di Trump (incredibile ma vera, e più volte ribadita) ha provocato tra i canadesi. Offesi: un sentimento, non una valutazione economica, non un calcolo di convenienza.
I sentimenti sono un fattore molto sottovalutato, quando si parla di politica. A partire dalla paura, che è il più ricco giacimento di voti al mondo. Alla quale si affiancano, per fortuna, anche moti dell’animo più evoluti, meno primordiali. Tra questi ci sono la dignità, l’orgoglio, il bisogno di sentirsi rispettati (e di provare rispetto). I prepotenti, come Trump, sono così accecati dalla vanità che non mettono mai nel conto la reazione che il loro brutale arbitrio può suscitare. Nel caso del Canada, l’effetto Trump è stato clamoroso: ha ribaltato in poche settimane l’enorme vantaggio che il candidato populista (trumpiano quanto basta per diventare invotabile anche per molti elettori di destra) aveva su quello progressista.
Mentre scrivo queste righe ancora non si sa il risultato del voto in Canada, ma già si sa che il peso dell’offesa ha influito enormemente.
Più delle divisioni interne sull’economia e sull’immigrazione. Non tutto è convenienza e comodità, in politica. Vale molto anche sentirsi liberi e sentirsi rispettati. Questo dà qualche speranza in più per un futuro meno nero.


lunedì 28 aprile 2025

Pronosticate!


Ho appena fatto il mio pronostico 

Fantapapa.org

Partecipate!

E i beoti muti



A chi dice che questa fetida aria non sia pericolosa, e per fortuna il Presidente della Repubblica ne è invece consapevole tant’è che il 25 aprile a Genova ha dichiarato “È sempre tempo di Resistenza!”, ecco le squallide dichiarazioni del sindaco di Ascoli Piceno Marco Fioravanti di FdI, proteggente la polizia che identificò  la mitica panettiera dopo che, eroicamente, espose il costituzionale striscione a favore dell’Antifascismo, fulcro, architrave, rotore della nostra Repubblica. Nelle stesse ore, indisturbati, senza che nessuno chiedesse loro di identificarsi, un manipolo di imbelli a Dongo, squallidamente, salutavano col braccio teso col contorno del “Presente!” in modalità “in memoria di quelloatestaingiù” parafrasando il Marchese del Grillo col “io so’ io e voi nun siete un caxxo!” 
Se sommiamo ciò alle ultime leggi liberticide c’è da preoccuparsi eccome, e si dovrebbe, fossimo sani di mente, scendere in piazza, bloccare tutto, attanagliare questo potere nero perdi sempre per imporre chiarezza, paventando lotte urticanti, al fine di proteggere la democrazia, mai come ora in pericolo a causa di tutti i rancorosi balordi che, lasciate le fogne, tentano di ammaestrarci, mandando pure in solluchero ignavi beoti, al fine  di normalizzare idee funeste, malevole ed indecenti.

Sull'arenile


 

Sai che...

 

...Associo questo film a qualcosa… ma non so a cosa…




Vamos Tomaso!

 

Cemento selvaggio, tornano quelli del “silenzio assenso”
DI TOMASO MONTANARI
Ma che bell’ambiente. Nella revisione del codice di beni culturali e paesaggio ecco il cavallo di Troia che depotenzia il ruolo delle soprintendenze e i controlli
Ci risiamo: è lo stesso, eterno copione. Da Berlusconi, a Renzi e oggi a Salvini: abbattere le odiate soprintendenze, sciogliere ogni vincolo che possa frenare l’arbitrio privato. E nel frattempo sterilizzarle, ridurle all’impotenza. Oggi il cavallo di Troia si chiama disegno di legge 1372, in discussione al Senato, e intitolato Delega al Governo per la revisione del codice dei beni culturali e del paesaggio in materia di procedure di autorizzazione paesaggistica. Nell’introduzione si mente per la gola, ma non si riesce a trattenere il ghigno, affermando che la legge “rappresenta un passo importante verso una gestione più efficiente e moderna delle autorizzazioni paesaggistiche. La tutela del patrimonio culturale e ambientale deve rimanere un obiettivo primario, ma è necessario bilanciarla con l’esigenza di non paralizzare l’attività edilizia e urbanistica con procedure eccessivamente lente e complesse”. Una excusatio non petita, seguita da un’orgia di ipocrisia: bilanciare la tutela dell’ambiente con il cemento è come bilanciare la legalità con la mafia. Perché in Italia abbiamo un articolo 9 della Costituzione in cui si dice che la Repubblica tutela il paesaggio, cioè l’ambiente, e abbiamo un articolo 42 che dice che “L’iniziativa economica privata … non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno … all’ambiente”.
Perché questo è il punto: in un Paese come il nostro il cemento è un interesse privato, l’ambiente è l’interesse generale. E invece il ddl che cosa fa? Resuscita il vecchio mito dei palazzinari: il silenzio assenso. Se la soprintendenza non risponde entro un termine preciso, abbassato in alcuni casi a 30 giorni, allora si può procedere: ma la semplificazione amministrativa deve garantire l’interesse di tutti, non quello privato. Così il gioco è scoperto: le soprintendenze sono prive di personale e definanziate, e i cementificatori, amici degli stessi politici che fanno le leggi e tolgono i mezzi alla tutela, hanno via libera. E poi, alla prima alluvione, tutti a piangere sulla cementificazione che porta morti, e danni per miliardi.
Ma non basta. Il ddl modifica l’articolo 152 del Codice dei Beni culturali, che prevede che “nel caso di aperture di strade e di cave, di posa di condotte per impianti industriali e civili e di palificazioni nell’ambito e in vista” di “cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale, singolarità geologica o memoria storica, ivi compresi gli alberi monumentali”, “complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici” o di “bellezze panoramiche e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”, la soprintendenza debba esprimere parere vincolante.
Cioè se voglio piazzare una fabbrica davanti a una cattedrale, o una pala eolica sopra un albero secolare oggi devo passare per il parere di chi tutela i beni di tutti noi. Ma se passa questa legge, il parere sarà sì obbligatorio, ma non più vincolante: ergo i privati tireranno diritto, in un nuovo sacco d’Italia. Non basta ancora: il parere delle soprintendenze sarebbe carta straccia anche per gli interventi nelle aree tutelate per legge, come i “territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i terreni elevati sul mare; i territori contermini ai laghi compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i territori elevati sui laghi; i fiumi, i torrenti, i corsi d’acqua iscritti negli elenchi … e le relative sponde o piedi degli argini per una fascia di 150 metri ciascuna; le montagne per la parte eccedente 1.600 metri sul livello del mare per la catena alpina e 1.200 metri sul livello del mare per la catena appenninica e per le isole”.

domenica 27 aprile 2025

Le questuanti



Dopo aver passato la notte a sgranare rosari, giaculatorie -San Giuliano fammi parlare col presidente americano- aver sguinzagliato i vari Sechi scodinzolanti, le due signore europee, una affamata e fremente di dilapidare 800 miliardi in armi, l’altra convinta di essere diventata l’ago della politica mondiale - ciao core! - si sono ritrovate un magro risultato in mano. Ursula un saluto alla “scusi mi si è fermato l’orologio, mi può dire che ore sono?” e Giorgia inseguendo Ciuffo Biondo con pennivendoli e ritrattisti al seguito è riuscita ad avvicinarlo in modalità “ahò ma tu non sei Geroni quello della 3C?” 
Tutte e due, verso sera, ritrovandosi, sono rimaste allibite, allorché qualcuno, timorosamente, ha spiegato loro che l’evento a cui avevano partecipato la mattina trattavasi del funerale del Papa. “Ma davvero?” attonite han replicato…

Sempre bellicista




Sintesi




Flash




Francescanemente

 

Il primo miracolo
DI MARCO TRAVAGLIO
Forse è solo un fuoco fatuo. Ma la storica foto di Trump e Zelensky seduti faccia a faccia sulle due sedie rosse e dorate fra i marmi di San Pietro, protési l’uno verso l’altro a parlare di pace a pochi metri dalle spoglie di Francesco, ha acceso le speranze del mondo intero (fatta eccezione per chi è troppo impegnato a salvarsi la faccia per preoccuparsi di salvare vite). E ha oscurato persino le immagini solenni del funerale del Papa, che sarebbe il primo a gioirne: la pace non è morta. In questi anni si è battuto solitario, incompreso, frainteso e vilipeso, per convincere i potenti della Terra a fermare le 56 guerre che la insanguinano, dall’Ucraina a Gaza in giù. E proprio nel giorno della sua sepoltura quel gesto così normale pare il suo primo mezzo miracolo: un colloquio sottovoce, lontano da orecchi indiscreti, clamori mediatici, ansie di uscire vincitori con rivendicazioni irrealistiche e minacce umilianti. L’opposto di quello di due mesi fa nello Studio Ovale. Anche i séguiti fanno sperare: dopo le bacchettate a Zelensky di questi giorni, Trump dà una botta a Putin condannando gli ultimi bombardamenti e lo sfida a non prenderlo in giro; Putin non risponde a brutto muso, ma annuncia la completa liberazione di Kursk e si dice pronto, ora che la contro-invasione è respinta, a negoziati diretti con gli ucraini “senza precondizioni”. E, sull’altro fronte, Hamas offre una tregua a Tel Aviv con la liberazione di tutti gli ostaggi israeliani, mentre fila liscio il terzo round tra Usa e Iran sul nucleare malgrado l’esplosione al porto di Shahid Rajaee e Trump giura che “Netanyahu non mi trascinerà in guerra con Teheran”.
Sono solo parole che attendono la prova dei fatti. Ma parole molto diverse da quelle bellicose e belliciste che ascoltavamo fino a qualche giorno fa. Parole “disarmate”, come aveva auspicato il Papa nella lettera scritta al Corriere il 14 marzo dall’ospedale (“Disarmare le parole per disarmare le menti e disarmare la Terra”). Ed è paradossale che, a innescare almeno verbalmente questo circuito virtuoso, sia un leader rozzo, violento, antitetico al messaggio bergogliano come Trump. Perciò il Papa parlava con tutti, anche con le peggiori canaglie (“Dio condanna il peccato ma salva il peccatore”), senza sconti ma senza rotture. L’ha spiegato padre Antonio Spadaro a Daniela Ranieri: “Quando si rivolge a politici e capi di Stato, lui punta il dito sui fatti, non attacca i singoli. La sua è una diplomazia ‘sartoriale’, tende a ricucire”. Nei Vangeli la Provvidenza si serve del Male – Giuda, i sommi sacerdoti, Pilato – per propiziare la morte e resurrezione di Cristo. E nei Promessi sposi usa don Rodrigo e l’Innominato a fin di bene. Se ieri, in piazza San Pietro, qualcuno lo ha capito, quel funerale diventerà una festa.

L'Amaca

 

Una pace senza parole
di MICHELE SERRA
Si chiama, la nostra, “società dell’immagine”, e dunque l’istantanea di Trump e Zelensky (in ordine alfabetico) che confabulano in San Pietro, seduti su due sedie, ha un forte impatto. Se si chiamasse “società della parola” l’impatto sarebbe molto minore: senza didascalia, quella foto è solo una foto.
Che cosa si saranno detti? Qualche frase improvvisata, probabilmente, magari qualche espressione di circostanza che rimedi, almeno in parte, al disgraziato incontro/agguato nella Sala Ovale. Meglio che niente, ma un percorso di pace richiede il lavoro paziente di molte persone esperte, documenti lunghi, faticosi e sempre passibili di correzioni rigo per rigo, trattative, colloqui, tentativi parziali, mosse tattiche e obiettivi strategici. Parole messe in fila, insomma, in mezzo alle quali le sole immagini pertinenti sono carte geografiche e fotografie satellitari: questa è, tecnicamente, una pace. Parole, nero su bianco.
Ci sia concesso di dubitare che questo lavoro sia in atto; che a farlo siano persone con le dovute competenze e la necessaria esperienza; che la pace, insomma, non sia solo una suggestione legata allo scatto fortunato di un bravo reporter (quella foto è, comunque, notevole). Trump non sembra disporre di un personale politico all’altezza, Zelensky fatica addirittura a essere riconosciuto, con pieno diritto, parte in causa, e delle intenzioni dei russi, a parte le bombe sui civili e le invettive social che fanno il paio, per rozzezza e stupidità, con quelle trumpiste, sappiamo poco o niente.
Il tragico depotenziamento di tutte le sedi internazionali, a partire dall’Onu, aggrava il quadro. Sarebbero i luoghi deputati per discutere di pace. Il nazionalismo epidemico che sta devastando il mondo le sta smantellando, mattone dopo mattone.

sabato 26 aprile 2025

Osho!




La Storia




Dentro San Pietro la foto per la Storia (quello a sinistra non è un confessore…)

Ma come ci siamo ridotti?

 



Anche se era ieri!

 



E' stato un onore!

 



Natangelo

 



Palloni gonfiati

 

“Avevamo un rapporto straordinario”: la grande famiglia (postuma) del Papa
DI TOMMASO RODANO
Giorgia, Salvini, Renzi e gli altri: ora che è morto sono tutti amici suoi
Papa Francesco aveva moltissimi amici ed estimatori tra i politici italiani, solo che non lo sapeva: lo sta scoprendo ora che non c’è più. Da quando è morto, s’è alzato il coro imbarazzantissimo di quelli “molto vicini” al pontefice. Dalla premier in giù, una grande famiglia postuma.
Giorgia Meloni. “Tutto il mondo lo ricorderà per essere stato il papa della gente, il papa degli ultimi. Mancherà anche a me, avevamo uno straordinario rapporto personale, molto più assiduo di quanto si vedesse, molto oltre i nostri ruoli istituzionali. Sono orgogliosa di averlo convinto a venire al G7, è la prima volta per un pontefice. È una delle cose che ho fatto in questi due anni e mezzo di cui vado più fiera. Lui teneva da parte disegni che mia figlia gli aveva regalato nel cassetto del suo ufficio. Era capace di piccoli gesti che erano straordinari”. (Francesco ha posto al centro del suo magistero l’accoglienza dei migranti, la critica al neoliberismo e all’individualismo esasperato, l’attenzione ai poveri, la denuncia del cambiamento climatico e soprattutto la “scomunica” del riarmo. Praticamente il contrario dei valori della destra di governo)
Matteo Salvini. “Papa Francesco ha raggiunto la Casa del Padre”, con tre emoticon di mani congiunte in preghiera. (È lo stesso Salvini che nel 2016, da uno stand leghista, esibiva una sobria t-shirt con l’effigie di Bergoglio e lo slogan: “Il mio papa è Benedetto”)
Carlo Nordio. “Nella sua grande misericordia, Francesco era molto sensibile alle sofferenze dei carcerati. Nel suo nome lavoreremo per rendere il sistema penitenziario sempre più umano”. (Da quando è Guardasigilli, Nordio ha ostacolato le misure alternative alla detenzione, sostanzialmente ignorato l’emergenza suicidi e ha messo in pratica l’ideologia securitaria che è uno dei distintivi della cultura politica del governo Meloni)
Matteo Piantedosi. “Lo stesso Papa Francesco affermò in più occasioni come non si potesse accogliere illimitatamente, ma che l’accoglienza dovesse essere ragionevole per potersi tradurre in reale integrazione”. (Bergoglio, tra le altre cose, commentò la tragedia di Cutro con parole lapidarie: “Dio ce ne chiederà conto”. Sostenere che fosse a favore di politiche restrittive sull’immigrazione è un pensiero lisergico)
Maurizio Gasparri. “Il papa non ha mai piegato la testa davanti a nessuno, ha rappresentato le sue idee. Alcuni le hanno rispettate quando gli facevano comodo e le hanno ignorate quando non erano utili al loro disegno. Parlo soprattutto della sinistra che è papista a fasi alterne”. Manolo Lanaro, giornalista de ilfattoquotidiano.it, gli domanda: “Perché non cita le frasi sui migranti e sul riarmo che voi non avete seguito?”, Gasparri: “Quando la incontrerò in chiesa condividerò i miei argomenti con lei, non la vedo mai in chiesa. Le nostre non sono incoerenze, siamo per la pace”. Altra domanda: “Ma voi non avete sostenuto ReArm Europe?”. Gasparri: “Le faccio sapere la mia parrocchia”.
Paolo Gentiloni. “Papa Francesco mostrava una cristiana compassione per i politici”. (Talmente compassionevole con i politici che nel 2022 disertò il forum Mediterraneo: “Se c’è Minniti, non vado”. Marco Minniti, da ministro dell’Interno, fu l’artefice degli accordi con la Libia per trattenere i migranti nei lager. Indovinate chi era il premier? Gentiloni)
Matteo Renzi. “Uscivo in incognito da Palazzo Chigi con una utilitaria, ed entravo in Vaticano per dialogare con Papa Bergoglio. (…) Tutte le volte che finivamo di parlare mi accompagnava fino alla macchina. (…) (dopo il referendum) Mi inviò una commovente lettera scritta a mano, con la bellissima calligrafia che lo contraddistingue e che inizia con l’espressione ‘Caro fratello’. Mi invita a rialzarmi”. (Commovente. Chissà se anche al papa venuto “dalla fine del mondo” Renzi ha detto che andrebbe “aiutato a casa sua”).
Emma Bonino. “Mi disse: ‘Sono vecchio, morirò. Continua tu le nostre battaglie’”. (Qui c’è lo zampino del titolista della Stampa, che ha dato un taglio peculiare all’intervista. Ma da che battaglie partiamo? Aborto? Eutanasia? Marijuana?)

Elena

 

Francesco, Von der Leyen e tutti i nuovi (falsi) amici
DI ELENA BASILE
Nella mistificazione mediatica globale, Francesco, il Papa oscurato, delegittimato, odiato dai cattolici integralisti, dalla destra e dagli Israeliani, dalla falsa sinistra russofoba è divenuto con la sua morte il carro vincente sul quale salgono tutti. Cinici pennivendoli che avrebbero voluto il Papa esprimesse parole d’odio mascherato a difesa dell’Occidente suprematista contro i musulmani o la chiesa russa ortodossa, a favore delle democrazie contro le autarchie, politici incompetenti che volevano le loro politiche fasciste contro i migranti venissero giustificate da ordine e sicurezza nazionale, opinionisti che mal sopportavano la sincerità disarmante di Francesco sulla Russia, sui crimini di Israele, oggi contribuiscono alla mielata retorica con cui si inneggia al Papa amico degli umili, tanto ormai non può più nuocere e può essere utile strumento di propaganda. Ascoltare la presidente Von der Leyen lodare Papa Francesco ci fa palpare come la macchina capitalistico-mediatica si muova inghiottendo il pensiero diverso, trasformando ogni possibile opposizione in strumento del proprio potere.
Ai tanti democristiani, ai socialisti più propensi a riconoscere i crimini a Gaza che non quelli in Ucraina, mi capita di ricordare che si tratta degli stessi governi, degli stessi politici, degli stessi diplomatici: essi ci dicono di difendere libertà e democrazia in Ucraina e sono complici dei crimini di Gaza. Come potrebbero i criminali di Gaza travestirsi da democratici contro la Russia?
L’Europa giustifica la censura a fin di bene naturalmente in quanto noi, i democratici, dobbiamo difenderci dai nemici dittatoriali. Perora l’annullamento delle elezioni se a vincere è un seguace dei nostri nemici. Accetta il temperamento dei diritti umani per le popolazioni russofone in Ucraina come nei Baltici. Ricatta i Paesi candidati come la Serbia fermando il processo di adesione qualora essi non aderiscano alla politica contingente contro la Russia, sebbene possano essere idonei sulla base dei parametri dell’acquis. Bruxelles riscrive la storia e non riconosce il contributo dato dall’Unione Sovietica alla liberazione dal nazismo. Celebrare con i russi il 9 maggio la sconfitta di Hitler diviene reato. Il primo ministro slovacco Fico è redarguito da una burocrazia che non ha risolto il suo deficit democratico. Del resto anche la sottoscritta è stata insultata pubblicamente per aver presentato il suo libro: L’Occidente e il nemico permanente all’ambasciata russa, per avere parlato con l’ambasciatore russo. Vogliono che accettiamo l’idea che siamo già in guerra, che il prolungamento della legge marziale in Ucraina vada di pari passo con la costruzione di un’economia di guerra e la sospensione dei diritti democratici. Il riarmo, i corsi militari e la rieducazione dei giovani, far rinascere lo spirito guerriero di una generazione rammollita è divenuto un obiettivo che politici e intellettuali possono declinare in pubblico senza che i molti si stupiscano. Se si ragiona e ci si allarma, se si mette in dubbio che la Russia sia il nostro nemico oppure che il 7 ottobre autorizzi il genocidio di Gaza, si rischia di venire indagati come disfattisti, antisemiti, essere repressi e deportati come gli studenti stranieri delle università americane, denunciati e linciati mediaticamente come molti di noi qui in Europa senza che gli stessi amici intervengano a nostra difesa. Nei tempi più oscuri la vigliaccheria conformista dell’umanità emerge e una sordida voce alberga in ciascuno di noi: “Menomale che non sia capitato a me, forse è sua la colpa per essere oggetto di sanzione o ostracismo”. Non ne possiamo più di ripetere parole inutili di protesta contro gli orrori in Palestina di cui siamo tutti consapevoli e dunque complici. Non ne possiamo più di vedere queste macchiette da spettacolo, Macron e Starmer, che in tutto hanno 500 testate nucleari, preparare la guerra alla Russia che ne ha 6000.
Accettare un armistizio coreano per Mosca sarebbe venir meno ai suoi obiettivi: evitare le armi nucleari alla propria frontiera, farla finita con il Paese nazionalista e antirusso di Zelensky, avere garanzie che la guerra non riprenda in un prossimo futuro quando Ucraina e Europa saranno meglio armate. Putin fa da spalla a Trump in una tattica che per ora appare priva di visione strategica. Prende tempo auspicando che Washington riesca a imporre neutralità ucraina, riconoscimento dei territori e apertura di negoziato con un nuovo presidente eletto a Kiev. Se l’Europa è cobelligerante e fa di tutto per essere considerata tale, come potrebbe fornire le garanzie di pace? Soprattutto evitate di fare domande razionali a una politica che è tattica e podio per la sopravvivenza di politici che non rappresentano i propri popoli, ma rimangono a galla in virtù della loro genuflessione alle lobby che contano nelle oligarchie liberali.

Sana brezza

 

Un colpo di vento
DI MARCO TRAVAGLIO
Abbiamo insistito molto, da quando è morto papa Francesco, sulle appropriazioni indebite e i vilipendi di cadavere perpetrati dai politici italiani e stranieri, in una gara pressoché infinita di ipocrisia e mitomania. Ma non è detta l’ultima parola: oggi al funerale, complici l’emozione, la commozione e quel qualcosa che i credenti collegano al soprannaturale e i non credenti alla suggestione, potrebbe anche accadere il miracolo. Vent’anni fa, 8 aprile 2005, piazza San Pietro salutava un altro grande papa, Giovanni Paolo II, con 200 leader mondiali e 300 mila fedeli (più altri 2 milioni videocollegati in altre piazze di Roma). Mentre il cardinale decano Joseph Ratzinger, che di lì a undici giorni gli sarebbe succeduto, celebrava la Messa e pronunciava una strepitosa omelia, una potente brezza iniziò a sfogliare le pagine del Vangelo rosso poggiato sulla bara di legno. E lì, dinanzi a quella scena che nessun regista avrebbe potuto rendere meglio, anche il miscredente più impenitente vacillò. “Il nostro Papa – disse Ratzinger – è stato sacerdote fino in fondo, ha offerto la sua vita a Dio per le sue pecore e per l’intera famiglia umana… Non ha mai voluto salvare la propria vita, tenerla per sé: ha voluto dare se stesso senza riserve, fino all’ultimo momento per Cristo e così anche per noi… Il messaggio della sua sofferenza e del suo silenzio è stato così eloquente e fecondo”. E citò il Vangelo di Giovanni, là dove Gesù parla a Pietro, il primo pontefice: “Quando eri più giovane, andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”. Parole perfette anche per Francesco.
Visto che il meteo non lascia speranze di un diluvio purificatore, possiamo solo augurarci che oggi una parola, un gesto, un imprevisto, un colpo di scena o di vento lasci il segno nei potenti della terra intenti a celebrare se stessi, a mettersi in mostra a favore di telecamera, a misurare le distanze delle loro sedie da quelle altrui, a succhiare la ruota del carro funebre per arraffare like e consensi in conto terzi. Sognare una conversione di massa sarebbe troppo: miracoli così enormi non ne risultano neppure nei Vangeli. Ma un lampo di dubbio o di vergogna, al ricordo di una frase del Papa defunto, potrebbe toccare la mente e il cuore di chi regge il pianeta e indurlo a riflettere. E poi ad agire con un gesto di resipiscenza anche piccolo, al ritorno in patria: sulle politiche di guerra e di riarmo, sull’esecrazione della diplomazia, sui mutamenti climatici, sulle disuguaglianze, sul disprezzo dei deboli e delle minoranze, sulla repressione del dissenso, sulla violazione dei diritti umani. Non sappiamo se a papa Francesco siano già stati attribuiti miracoli: ma basterebbe quello.

L'Amaca

 

Ognuno ha i suoi impegni
di MICHELE SERRA
Pare che Trump si fermi a Roma solo poche ore perché nel pomeriggio di sabato è atteso nel suo golf club di riferimento in America. Il classico impegno irrinunciabile: è sabato, che diamine, il giorno più adatto per le attività ricreative.
Quelli che fanno la coda per “baciargli il culo” (parole sue) hanno modo di riflettere, e soprattutto di dotarsi di agende all’altezza di quella di Trump: lunedì ho il dentista, martedì non posso perché devo accompagnare mia figlia a judo, mercoledì ho il corso di cucina, il giovedì è dedicato a mia mamma che non sta bene, venerdì c’è il torneo di burraco.
Della supremazia americana sul resto del mondo si può pensare bene o male, dipende dalle opinioni; ma non si può che pensare male della mancanza di dignità che il resto del mondo, con poche eccezioni (la Cina perché è troppo grossa e troppo antica, la Russia perché è troppo imperialista e dunque troppo uguale all’America), mostra nei rapporti con gli Stati Uniti, anche da prima di Trump. Finché aspettano tutti di essere ricevuti o convocati, non se ne esce. Non è una relazione paritaria, specie adesso che la statura politica, umana e culturale del Presidente tutto suggerisce, tranne che reverenza. Basta sentire come parla (ha un vocabolario ridotto a quanto basta per ordinare un hamburger) per stabilire che Trump ha qualcosa da imparare da chiunque, anche dal reggente del più trascurabile staterello.
Come sarebbe bello, e come sarebbe nuovo, se gli altri governanti del mondo gli dicessero che sì, sono disposti a incontrarlo, non per dovere ma per buona educazione; ma compatibilmente con i rispettivi impegni, tutti ugualmente importanti e rispettabili, per non dare l’impressione che uno solo riceva, e gli altri siano in coda per essere ricevuti. Utopia. L’uguaglianza tra le Nazioni è un’utopia, tal quale l’uguaglianza tra gli esseri umani. Non per questo è meno giusta e desiderabile.