Il caso
Il partito pigliatutto Quei sintomi inquietanti di democrazia illiberale
DI STEFANO CAPPELLINI
ROMA — La foto di Pescara, con i manager di Stato trasformati in testimonial di Giorgia Meloni, è meglio di un abbecedario per spiegare quali sono i sintomi di una democrazia illiberale. Cos’è la democrazia illiberale? È quella democrazia che conserva i rituali formali, in primo luogo le elezioni, e al contempo perde la sostanza. Si svuota di quei meccanismi che regolano la distinzione dei ruoli, la terzietà delle istituzioni e la separazione dei poteri. È una democrazia menomata dove chi vince le elezioni si ritiene naturalmente proprietario dello Stato e di tutto ciò che lo Stato partecipa o il governo controlla, come appunto le aziende pubbliche o le agenzie nazionali. Una democrazia azzoppata nella quale il consenso elettorale viene brandito come un clava per ridurre o eliminare i contrappesi e poteri autonomi, dalla magistratura ordinaria a quella contabile, dalla libera informazione alle figure di garanzia.
Nello specifico italiano, la presidenza della Repubblica, il principale bersaglio della riforma istituzionale già incardinata in Parlamento, il cosiddetto premierato, che punta ad abbattere l’arbitro del sistema per eccellenza, il Quirinale, affinché chi è investito del voto popolare non debba rendere conto a nessuno se non agli elettori e nemmeno tutti, solo i suoi, secondo la logica perversa di un sovranismo plebiscitario. Per questo, negli intenti della riforma, anche il Parlamento va messo nelle condizioni di non poter esprimere in corso di legislatura un presidente del Consiglio alternativo a quello indicato dalle urne: la chiamano norma anti-inciucio, per vellicare i più bassi istinti populisti, mentre invece è un altro passo verso quei pieni poteri invocò invano dal Papeete Matteo Salvini. Il quale, caduto nel frattempo in disgrazia, contribuisce come può alla devastazione di ogni grammatica candidando Roberto Vannacci, generale dell’esercito in attività sebbene ormai fuori controllo.
Negli ultimi mesi si sono moltiplicati i casi di ingerenza, invasione e interdizione, in diverse direzioni. Ci sono stati gli attacchi ripetuti alla Corte dei conti, rea di aver acceso un faro sulla riscrittura del Pnrr e sul rischio concreto di mancato raggiungimento degli obiettivi prefissi. Per ritorsione, lo scorso gennaio il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto, altro esponente di FdI, ha sottratto alla nostra magistratura contabile la nomina del rappresentante italiano presso la Corte dei conti europea, affidando l’incarico a un suo fedelissimo. Ci sono gli sfregi al Parlamento, ultimo dei quali è l’incredibile caso accaduto alla Camera dei deputati, in commissione Affari costituzionali, sull’autonomia differenziata. Il governo è andato sotto in una votazione a causa dell’assenza di alcuni parlamentari di maggioranza. Nessun problema: il presidente della commissione Nazario Pagano, in questo caso di Forza Italia, ha congelato l’esito per poter chiudere lavotazione a ranghi completi e così ribaltare il risultato. C’è la vicenda della censura in Rai al discorso sul 25 aprile dello scrittore Antonio Scurati. Al di là dell’evidenza dei fatti, rivelante è il particolare che, scoppiato il caso, a intervenire per replicare alle accuse di censura è stata Meloni in persona, di fatto rivendicando l’intervento («Propaganda a spese dei contribuenti») e facendo cadere anche l’ultimo velo di finzione su quella che la presidente del Consiglio considera la vera catena di comando aziendale.
Ma la foto di Pescara restituisce anche la debolezza di una classe dirigente, quella di nomina politica, che scambia l’investitura ricevuta per una forma di vassallaggio che incorpora dunque l’omaggio al feudatario. Il problema è duplice: da una parte un partito di governo cheritiene naturale trasformare in cartelloni pubblicitari due importanti boiardi mettendo loro in mano una maglietta con lo slogan elettorale di FdI; dall’altra i due dirigenti - Stefano Pontecorvo, presidente di Leonardo, la più grande azienda italiana insieme a Eni, e l’ex prefetto Bruno Frattasi, capo dell’Agenzia per la Cybersicurezza, la cui importanza non ha bisogno di essere spiegate – che la ostendono sorridenti e compiaciuti a favore di obiettivo. Se il gesto voleva rappresentare una adesione militante alla campagna elettorale meloniana, la gravità e il danno ai rispettivi incarichi sono evidenti. Ma anche a prendere la loro disponibilità allo scatto per altra cosa, un atto di malintesa cortesia davanti a una richiesta dei padroni di casa, le conclusioni sono persino più inquietanti: se non si sentono in grado nemmeno di declinare in pubblico una proposta irricevibile, cioè l’arruolamento coatto in una foto di propaganda, c’è da dubitare su quale possa essere il loro grado di autonomia di fronte alla telefonata proveniente da un ministro o da Palazzo Chigi.
Fratelli d’Italia è un partito dichiaratamente sovranista che, come tutte le forze politiche gemelle nel resto d’Europa, insegue e alimenta questa confusione tra partito e governo, partito e Stato, partito e aziende pubbliche. All’ultima assemblea dei dirigenti di Leonardo, il giorno dopo la presentazione del piano industriale da parte dell’ad Roberto Cingolani, il ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti ha mandato un composto videomessaggio, quello della Difesa Guido Crosetto si è invece presentato di persona e ha tenuto un discorso. A un certo punto ha pronunciato una frase che faceva così: dicevano che io fossi in conflitto di interesse con l’azienda, io invece sono in conflitto di interessi con voi, perché vi conosco tutti e so quando dite la verità e quando no. Dietro l’ironia, un’altra rappresentazione plastica di un rapporto non proprio equilibrato tra un ministro e un’azienda quotata che ha tra i suoi clienti anche il governo. Un mese dopo quell’assemblea, il presidente di Leonardo è sul palco di Pescara, insieme a Crosetto, a esibire lo slogan che accompagna la corsa di Meloni a Strasburgo: «L’Italia cambia l’Europa». Se questo è il cambiamento, si può solo sperare che l’Europa resista.
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