La scuola può ancora salvarci dai fascismi (e dai Valditara)
DOPO IL PESTAGGIO DI FIRENZE - Argine. La distruzione del progetto politico della Costituzione, avviata alla fine degli anni 70 e culminata con un centrosinistra di destra, ha prodotto un deserto culturale
DI TOMASO MONTANARI
La prima cosa che mi sono domandato di fronte al pestaggio fascista al Liceo Michelangiolo, è se uno dei picchiatori fosse il ragazzino che, sei o sette anni fa, durante un incontro in una scuola media di Firenze mi chiese perché dicessi che il fascismo era “sbagliato”, visto che quelli di Casa Pound portavano alla sua famiglia pacchi di pasta. Due episodi che ci mettono di fronte a un fallimento politico, sociale ed educativo che non si risolve certo con le proclamazioni di antifascismo (comunque sempre benvenute, specie in queste ore): che Italia abbiamo consegnato a questa nuova generazione?
La distruzione del progetto politico della Costituzione, avviata alla fine degli anni Settanta e culminata nelle politiche di un centrosinistra sempre più di destra negli ultimi decenni (dalla precarizzazione del lavoro alla sperequazione dei diritti indotta dalla riforma del titolo V; dalla privatizzazione della sanità all’aziendalizzazione della scuola; dalla distruzione della progressività fiscale ad una sempre più marcata sudditanza anche bellica agli Stati Uniti; dalla politica securitaria contro i migranti alla “riabilitazione” del fascismo) ha prodotto un deserto di deprivazione sociale e culturale che oggi sfocia nell’astensionismo di massa e nel ritorno al potere (per abbandono di tutti gli altri) di una destra di matrice fascista. Fin dal 1970 Sandro Pertini aveva ammonito che solo tenendo insieme libertà e giustizia sociale non avremmo perso la prima: ora il corto circuito rischia di compiersi. Abbiamo scelto di essere così ingiusti e diseguali da creare consenso per i fascisti che portano pacchi di pasta a chi è scartato da una società bestiale.
Quando alla bellissima manifestazione fiorentina convocata dagli studenti per reagire al pestaggio, li ho sentiti scandire lo slogan “Ma quale pacifismo, ma quale nonviolenza / Ora e sempre resistenza”, un brivido mi è corso lungo la schiena. E mi sono sentito subito paternalista: come giudicare le parole di ragazzi di sedici anni che hanno subìto quel che hanno subìto (non solo le botte, ma la colpevolizzazione delle vittime orchestrata dal governo e dai suoi scherani mediatici)? Il punto non è giudicarli, ma star loro vicini, offrendo loro gli strumenti culturali per scoprire che la resistenza fu fatta perché noi potessimo abbracciare il pacifismo e la nonviolenza (verso tutti: anche verso i fascisti) come valori essenziali. Non farli sentire soli: dimostrare (se ne siamo capaci) che lo Stato è dalla loro parte, perché, nonostante tutti i tradimenti, la “rivoluzione promessa” (Calamandrei) chiusa nella Costituzione ha ancora la forza di cambiare la realtà, facendola assomigliare alle loro aspirazioni di giustizia e libertà.
Per farlo, il primo passo è che la scuola torni a essere scuola. Mi ha colpito che nell’alluvione di solidarietà arrivata al Michelangiolo (simboleggiata dalla lettera della preside perciò minacciata dall’indegno ministro Valditara) la voce degli altri licei classici fiorentini sia o non pervenuta, o singolarmente reticente: la parola d’ordine di professori, genitori e dirigenti è “non facciamo politica, non parliamo di fascismo e antifascismo”. Un errore capitale, quanto rivelatore. La scuola che si vede come fucina della classe dirigente si è messa al servizio dello stato delle cose, non del suo scardinamento. E si è dimenticata delle angoscianti domande sulle complicità della scuola nell’ascesa dei fascismi. In Costituente, il relatore dell’articolo 9 Concetto Marchesi disse amaramente che “il mondo della scuola ha dato ai giovani un senso di soffocazione: è apparso come chiuso a tutte le esigenze del mondo morale; e più la cultura si elevava e affinava nelle sue particolari ricerche e applicazioni, più appariva il suo distacco dai principî di dignità e utilità sociale e da quell’aspirazione all’universale che è nello spirito dell’uomo. Così veniva formandosi il tecnico, il giurista, il letterato, lo storico, dentro un’orgogliosa clausura che badava a dar pregio … all’utilità personale che ne veniva, anziché al fine superiore cui lo studio è diretto, cioè alla scienza intesa come perpetua ricerca di un bene comune. E quando l’enorme crisi del mondo scoppiò e avvenne l’urto immane delle forze in conflitto, quei maestri … non ebbero più una parola da dire ai discepoli che si avviavano da soli verso la salvazione o la morte. Perché è avvenuto tutto questo? Per mancanza di capacità e di cultura? No: per mancanza di coscienza civile”. Oggi i ragazzi ci chiedono non la professionalizzazione che li rende capitale umano o merce nel mercato del lavoro, non la selezione per ‘merito’ o l’avvio al massacro sociale della competizione. No: ci chiedono una scuola e un’università che abbiano una coscienza civile. Capaci non solo di educare all’antifascismo, ma perfino di recuperare quei ragazzi lasciati soli a credere al fascismo. Perché è solo la scuola l’unica cura efficace per un’Italia che è tornata a produrre picchiatori (e ministri) fascisti.
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