Il piccolo rettile
di Mattia Feltri
Karima, amica mia, ti stavo soltanto aspettando. Quando ieri mattina ho letto il tuo dolorosissimo, magnifico pezzo sulla Stampa – hai scritto ok, avete vinto voi, non sono italiana, non sarò mai abbastanza italiana, diceva bene mia madre: per voi resterò sempre una marocchina – ho pensato che infine eri arrivata. Ogni qualvolta ti avevo vista dibattere in tv, gli occhi che ti si posavano addosso dicevano tutti la stessa cosa: sei una marocchina. Erano eccessivamente accondiscendenti o eccessivamente aggressivi per la stessa identica ragione, che resti una marocchina. Siamo un paese razzista – hai ragione tu, ha ragione Paola Egonu – e lo neghiamo soprattutto perché non ce ne rendiamo conto. Pensiamo che il razzismo produca i campi di concentramento, la caccia allo straniero, la teoria della superiorità. Ma quella è la malattia ormai evoluta in pestilenza. La malattia è uno strisciante, subdolo pregiudizio. È opporsi allo ius soli o allo ius scholae perché la cittadinanza bisogna meritarsela, e detto da chi l'ha avuta in sorte è razzismo scintillante. E scintilla in ognuno di noi. Quante volte, allungando una moneta a un immigrato, gli ho dato del tu? Quante volte, allungandola a un italiano, gli ho dato del lei? Al primo davo soldi, al secondo davo anche dignità. Quante volte non ho riconosciuto quel piccolo rettile dentro di me? Un pomeriggio mio figlio ospitò a casa un compagno delle elementari, un figlio di immigrati. Quando il bambino se ne andò, chiesi a mio figlio da dove venisse. Da Roma, mi rispose. Provai vergogna proprio perché la mia domanda era spontanea. Però era spontanea anche la sua risposta.
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