sabato 19 marzo 2022

Commento

 

Ho letto con attenzione l'articolo qui sotto riportato di Massimo Recalcati, e in parte lo condivido, in altri punti no.
Perché se da un lato è sacrosanto contrastare l'aggressione del Killer Russo, dall'altro occorrerebbe soffermarsi sul significato profondo del tanto abusato termine "democrazia", nel senso che, a mio parere, di democrazia in giro se ne trova ben poca, a cominciare dal nostro paese. Ciò che provoca miasmi dalla parte del carnefice di turno è l'eclatante oppressione dispotica di un popolo, quello russo, da troppo tempo caduto in mano di oligarchie immonde; le stesse che vengono altresì onorate e coccolate dal cosiddetto mondo occidentale, con tanto di decorazioni e medaglie in nome di quella minchiata popolare penetrata nei tessuti sociali più nascosti qual è "Si può essere, però creano posti di lavoro!"
E se è vero e reale il soffocamento della libertà imposto dall'Aguzzino Biondastro ex Kgb, perché non riflettere sul "subdolo" da sempre pregnante le cosiddette grandi democrazie, a partire dal faro della libertà retto attualmente da un sonnolento pensionato? E' vera democrazia tramare ed aizzare per consumare ordigni, onorando il patto coi veri signori del pianeta fabbricatori di morte per il vil denaro? Addestrare gli ucraini sul loro territorio come stelle&strisce hanno fatto nel sottobosco è un aiuto al mantenimento della pace?
E perché accusare chi della guerra non ne vuol sentire parlare come amico di Putin?
Se dico che reputo un'eclatante vergogna sapere che il mio paese democratico spenderà 38 miliardi di euro ogni anno in armi, rischio di passare per un "né né?"
Ma la domanda è un'altra: la volete smettere di rompermi i coglioni su tematiche che mai e poi mai mi vedranno al vostro fianco?
Bignamicamente: non sopporto l'idea che l'industria bellica vada protetta perché genera molta occupazione; aborro armi e trafficanti, le fiere espositive col monsignore che benedice il cannone, i cori da stadio ogni qualvolta Leonardo raggiunge obiettivi economici. Mi stanno sul glande ogni forma conclamata di ricerca di strategie per acquisire nuovi fazzoletti di terra, i summit con sfaccendati intenti ad arzigogolare sull'infiascamento dell'aria fritta, il sopruso plateale ma anche, e soprattutto, quello subdolo, antitesi di una sana democrazia. Non mi schiero con nessuno, perché ritengo gli schieramenti oramai anacronistici. Soffro e compartecipo chiedendomi perché il patrono di questa povera patria sia uno che predicava pace, pace, pace sempre e ovunque, alfiere com'era del "né né" che questo filosofo vorrebbe relegare a frescaccia. Siate coerenti: sostituitelo con Santa Barbara. Bum Bum!

Le incrostazioni dei né né
di Massimo Recalcati
Alcuni tra i più grandi esperti di geopolitica sembrano essere d’accordo nel condannare la guerra scatenata da Putin e nel ritenere senza speranza la resistenza ucraina. La sproporzione delle forze in campo non lascerebbe dubbi sulle sorti del conflitto.
Dunque meglio arrendersi subito e lasciare il campo alla diplomazia che prolungare la carneficina (come se sfuggisse il nesso evidente tra le sorti delle trattative e l’importanza della resistenza militare ucraina). Ne consegue che per alcuni di loro Zelensky sarebbe colpevole (quanto Putin?) di esporre il proprio popolo ad una carneficina insensata invece di arrendersi accettando le condizioni di pace imposte dal Cremlino.
Questo ragionamento è condiviso anche da una certa sinistra nel nome del pacifismo: prima una guerra si interrompe prima si arrestano le morti. Peccato però che il “né né” non può essere rifiuto di prendere le parti della Nato o della Russia perché Ucraina oggi non coincide con la Nato, ma con le vicissitudini di un popolo che rivendica con decisione e legittimità il suo diritto a non essere sottomesso. Tuttavia il discorso che reclama la fine immediata della guerra non sembra fare una grinza.
Ma la grinza c’è ed è qualcosa che può sfuggire anche alle più sottili analisi geopolitiche. In psicoanalisi si chiama forza del desiderio e, al di là dell’espressione forse un po’ retorica, concerne una dimensione della potenza che non è primariamente militare.
Ne abbiamo diversi ritratti, anche mitici. Uno tra i più noti è quello biblico di Davide che sfida il gigante filisteo Golia. Ricordiamo le parole minacciose con le quali questi si rivolge con arroganza al gracile pastore: «Fatti avanti e darò le tue carni agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche». Non è difficile cogliere qui la prossimità del suo gergo con la più recente retorica putiniana. Ma Davide non arretra, né si lascia intimorire. E non sarà solo la scelta tattica della fionda a determinarne la vittoria.
C’è sempre in ogni lotta un fattore supplementare che esorbita le capacità militari e le arti strategiche. Non perché queste non siano necessarie per vincere («dateci armi, non consigli!», supplica Zelensky i suoi alleati), ma la forza di Davide è innanzitutto nella sua nuda fede, è davvero la forza indomabile del suo desiderio. È quello che forse Putin ha maggiormente sottovalutato. È quello che attraversa gli individui e i collettivi ogni qualvolta la decisione di combattere non è subita, imposta, genuflessa ad una causa estranea, ma scaturisce da un profondo sentimento di giustizia e di rifiuto del sopruso.
Questa forza è l’incalcolabile di questa guerra, la grinza che disfa i discorsi più lineari. I volti spauriti dei giovanissimi soldati russi fatti prigionieri non denunciano solo l’inadeguatezza militare dell’esercito di Putin, ma rivelano anche la ferocia fascista del suo regime: la menzogna situata sistematicamente al posto della verità. Ma, come noi invece, diversamente da quei poveri soldati, sappiamo bene, non si tratta né di un’esercitazione, né di un’operazione speciale di denazificazione di un territorio di confine, ma di una vera e propria guerra di invasione contro uno Stato sovrano e indipendente.
Questi ragazzi sono vittime dell’inganno dell’ideologia, simili in questo a quelli delle varie gioventù miliziane tipiche di tutti i regimi totalitari. Solo che in questo caso non abbiamo traccia di fanatismo, ma soltanto di paura. La Russia di Putin non è l’Unione Sovietica di Stalin. Questi ragazzi, in fondo, non solo mancano della formazione necessaria per combattere al fronte, ma non sanno nemmeno dove sono e per cosa combattono. L’accusa che una certa sinistra rivolge a Zelensky di non arrendersi non coglie questo punto elementare: un intero popolo di uomini e di donne si rivolta con la potenza della loro nuda fede contro l’oppressore non perché segue fanaticamente il suo leader, ma perché non vuole rinunciare alle sue libertà democratiche e alla sua identità. Il vero terrore di Putin non sono, infatti, le armi della Nato sul suo confine, ma l’incubo altamente contagioso della democrazia.
In questo senso la sinistra ideologica e populista — quella che Manconi ha recentemente definito come “sinistra autoritaria” — che non si schiera apertamente a fianco della resistenza del popolo ucraino, invocando la retorica del “né né”, perde l’occasione per mostrare la sua adesione alla democrazia contro ogni forma di dittatura, ivi compresa quella del popolo che, come sappiamo, è purtroppo una matrice archetipica, difficile da estirpare, della sua storia.
L’invocazione artefatta della “complessità” contro la sterile propaganda di coloro che vorrebbero distinguere senza indugi la democrazia da altre forme autoritarie di governo, l’equiparazione tra la democrazia americana e l’autocrazia putiniana, la critica alla Nato e all’Europa che finisce per attenuare di fatto le responsabilità criminali della Russia di Putin e del suo regime nell’avere provocato questa guerra, insomma tutta la retorica variegata dell’equidistanza, rivelano, in realtà, delle incrostazioni mnestiche profonde della sinistra ideologica e populista che le impediscono di aderire sino in fondo alla cultura della democrazia.

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