Quando i Savoia battono cassa
di Michele Serra
Così come Mattarella, lasciando onorevolmente il Quirinale, non vorrà portare con sé i tendaggi e i corazzieri, allo stesso modo bisognerebbe che gli eredi Savoia si mettessero il cuore in pace sui “gioielli della corona”, custoditi in un caveau di Bankitalia dal 1946 dopo la poco onorevole partenza di Umberto II.
Li pretendono, con tanto di carte bollate, ed è la seconda volta che battono cassa allo Stato italiano dopo una stramba richiesta di “risarcimento” di qualche anno fa (finita nel nulla) per i danni patiti in seguito al crudele esilio, sicuramente oneroso perché trascorso — noblesse oblige — non già nel suburbio, nella banlieue, nella favela, come avrebbero certamente preferito, ma in eleganti località turistiche, noiosissime.
Il dibattito giuridico e politico sulla monarchia, sul corpo del Re (corpo statuale, difatti bersaglio di regicidi) con tutti gli annessi e connessi (l’accessoristica monarchica è, per antonomasia, fastosa) è antico, già i politologi del Seicento scrissero libroni sull’argomento.
Il trono e lo scettro appartengono alla Nazione o a chi li adopera? Quel collier, quel diadema, sono dovuti al ruolo, oppure brillano per meriti familiari? Quanti gioielli avrebbero, i Savoia, non fossero stati casa regnante?
Nel dubbio, fossi il discendente di un ex monarca, lascerei perdere. Dicono i Savoia (ovvero Vittorio Emanuele, sorelle e figlioli: ma ci sono anche altri Savoia che lavorano, addirittura) che con quei 300 milioni, qualora la causa fosse vinta, vorrebbero fare una Fondazione benefica. Soluzione più semplice e più repubblicana: la Fondazione la fa direttamente lo Stato, mettendo all’asta quei beni e destinando il ricavato a quelli che, ai tempi dei Savoia, si chiamavano “i bisognosi”.
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