mercoledì 18 agosto 2021

Un ottimo Robecchi!

 

I cantori dell’Afghanistan. Adesso vanno confinati nel disprezzo eterno
di Alessandro Robecchi
Ero tentato di scrivere al direttore per chiedergli – invece dello spazio di questa rubrichina – una pagina, o due, o tre, per elencare tutti gli insulti ricevuti negli anni da quelli, come me e molti altri, che alla guerra in Afghanistan (e in Iraq) sono sempre stati contrari. Utopisti, imbelli, amici dei talebani (qualche imbecille col botto lo ha detto anche ieri), comprese insolenze di stampo fascista (malpancisti, panciafichisti), più analisi geopolitiche dei puffi, più rapporti amorosi (ed economici) con la Cia e il Pentagono, più le accuse di tradimento dell’Occidente. Insomma, mi limito a questa minuscola sintesi delle infamie ricevute per vent’anni. Anche ieri, su Repubblica, Francesco Merlo ci ricordava che “il pacifismo assoluto è un’utopia infantile e qualche volta pericolosa”, ed ecco sistemato anche Gino Strada (ciao, Gino).
Siamo abituati agli insulti, anche se alcuni – recentissimi, di ieri – suonano davvero intollerabili (ah, sei contento che gli americani si ritirano! E le donne? E i bambini? Sei come i talebani!), argomenti di poveri disperati che preferiscono fare la figura dei coglioni piuttosto che ammettere un errore politico durato due decenni.
Paradossalmente, la vergogna non riguarda solo una guerra criminale e sbagliata, ma anche il suo grottesco epilogo. Speravano, tutti gli “armiamoci e partite”, che l’esercito del governo fantoccio resistesse almeno tre mesi. Cioè: fatevi sbudellare per permetterci di scappare con più agio. La risposta – comprensibile – è stata “col cazzo”, e mentre i militari da noi così efficacemente addestrati (ahah, ndr) si arrendevano, i loro capi, da noi così generosamente coperti di soldi, scappavano oltre confine, e chi s’è visto s’è visto.
Avendo letto qualche libro di storia, avevamo imparato che chi perde una guerra viene sostituito, cacciato, sommerso dal disprezzo, insomma, il famoso “vae victis”, guai ai vinti. E invece no. Perché i cantori della guerra persa non hanno perso per niente. Ne escono vittoriosi, più ricchi e più grassi – insieme ai feroci talebani – anche tutti gli apparati militari occidentali, che per vent’anni sono stati ricoperti d’oro per sostenere il più grande affare del mondo: la guerra al terrorismo. Tremila miliardi di dollari, è costato tutto questo scempio di vite, per lo più intascati da contractors privati, produttori di bombe, lobbisti delle armi, consulenti strategici, Pentagono, servizi segreti. Con tremila miliardi di dollari, in vent’anni, si potevano consegnare a ogni afghano centomila dollari in contanti, trasformando quel paese in una specie di Svizzera o Lussemburgo. Invece i soldi sono passati da una tasca all’altra degli invasori – una partita di giro – e per gli afghani bombe e terrore. I “signori della guerra” (cfr, Bob Dylan, 1963) siedono a Washington e nelle cancellerie occidentali, nei giornali che hanno insultato per vent’anni (e continuano tutt’ora) i pacifisti, nelle lobby degli armamenti, tra tutti i parlamentari che per vent’anni hanno finanziato e rifinanziato le missioni armate all’estero chiamandole “missioni di pace” e “umanitarie”, e si è visto. Non si farà fatica a ricordare nomi e cognomi, da Bush a Blair giù giù fino ai pensosi corsivi di oggi che ci spiegano, in clamorosa malafede, che la guerra era giusta, peccato per come è finita. Ecco, segnarsi i nomi, almeno quello, in modo da non votarli mai più, non leggerli mai più, da confinarli nel disprezzo eterno. Non sarà un risarcimento, ma almeno un piccolo esercizio di dignità personale.

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