martedì 31 agosto 2021

Interessante

 

Ridiamo vita al povero latino
Periodicamente accusato di essere inutile, l’insegnamento della lingua dei classici dovrebbe trasmettere più passione che regole grammaticali

di Corrado Augias

Ma a che serve il latino? Posta in termini brutali, la domanda chiama una risposta altrettanto brutale: serve a poco, il latino – si potrebbe addirittura dire che non serva a niente. Se si deve giudicare dalla conoscenza media del latino di un ex liceale, quella è la risposta. Poche e vaghe reminiscenze insignificanti. Per molto tempo si è difeso il latino sostenendo che la sua costruzione della frase, così diversa da quella dell’italiano, impegni nella comprensione logica di un periodo, cioè di un concetto. Studiare il latino, s’è detto, è un ottimo esercizio, una ginnastica per la mente. Lavorare sul latino stimola le capacità deduttive/ induttive. Umberto Eco, tirando in ballo anni fa questo luogo comune, cioè che studiare le "lingue morte" aiuti a ragionare, commentava sornione: «È una balla. O meglio: anche lo swahili aiuta a ragionare. Se lo scopo è quello, andiamo direttamente al nocciolo e insegniamo logica formale. Semmai s’impara a ragionare comparando le lingue: magari inglese e latino, perché no». Dunque, è vero che il latino non serve? Sì, è vero. Forse però sarebbe più corretto dire: non serve se lo si studia nel modo suggerito dalla didattica attuale. La fatica, in certi casi la pena, della traduzione rischia infatti di far prevalere la noia sui benefici. La percentuale di studenti del liceo classico in grado di leggere una frase latina e di tradurla in un italiano accettabile è così bassa che viene da chiedersi se sia davvero di qualche utilità spendere una così grande fatica, sia nell’insegnare sia nell’apprendere, per ottenere risultati tanto modesti. Un professore di liceo, qualche anno fa, mi descrisse la situazione in questi termini: «Nei licei si è rassegnati al fatto che gli studenti, dopo aver fruito nel quinquennio di quasi seicento ore di lezione di greco (e più di settecento di latino), siano in grado (nella proporzione, se va bene, di due o tre per classe) di tradurre con l’aiuto del dizionario, in quattro ore, in una forma italiana di solito stentata, una ventina di righe di un testo in genere non complicato. I nostri studenti non sono né stupidi né infingardi; è la didattica delle lingue classiche, immobile da lungo tempo, che andrebbe rinnovata. L’alternativa è o la rinuncia alle nostre radici culturali (folle, in tempo di globalizzazione) o il perpetuarsi di uno spreco di risorse e di energie con relativa tragicommedia finale». Ritengo che con queste ultime parole alludesse al povero esame pomposamente detto «di maturità».

Il ricorrente dibattito sull’utilità del latino, sulla sua necessità, si accende ormai sempre più raramente, dando evidenti segnali di stanchezza, quasi fosse una formalità da compiere, un campo nel quale prima o poi è doveroso schierarsi: i conservatori per il suo mantenimento nei curricula, i progressisti per la sua abolizione.
Con ogni evidenza una lingua, ridotta a questo livello, è solo una bandiera da sventolare sulle mura di una fortezza che in realtà è già stata espugnata e demolita. Il rischio è di finire come nel famoso, irridente apologo di Leo Longanesi: un professore di lingue morte che si uccide per poterle finalmente parlare. In realtà ci sarebbero parecchi altri modi di avvicinarsi alle lingue classiche. Senza ovviamente prescindere da alcuni elementi di grammatica e di sintassi, si potrebbe spostare il cuore dell’insegnamento del latino dalla sua «traduzione » al suo godimento. Accenno a un metodo che hanno adottato parecchie persone amiche – e, confesso, anch’io. Leggere un testo latino con l’italiano a fronte. Sbarazzarsi cioè della lunga e faticosa ricerca sul vocabolario, andare subito al significato del testo, e guadagnare così tempo prezioso per approfondire altri aspetti: quando e perché quel testo è stato scritto, chi era l’autore, quale fase della vita stava attraversando, a che cosa, a chi, miravano le sue allusioni. Tolta di mezzo la fatica preliminare di ricercare il significato di ogni vocabolo, resta il godimento non solo del contenuto dello scritto, ma della stessa lingua, del suo suono. Con un po’ di studio supplementare si può assaporare la musica dei suoi versi.

Conosco le obiezioni di chi è contrario a questo metodo, perché ne abbiamo discusso più volte: primo, così facendo si trascurerebbe tutta la parte che riguarda la struttura della lingua, tra cui le finezze che una scelta lessicale o sintattica può rivelare a chi è in grado di decifrarla. Secondo, la semplice lettura rischia di diventare un rimedio molto superficiale rispetto alla complessità che ogni lingua racchiude. Il pericolo sarebbe quello di sostituire un’inutilità con un’altra. Sono obiezioni ragionevoli, inutile negare che una perdita ci sarebbe. La scelta infatti è tra perdere una parte o perdere praticamente tutto, come dimostra l’attuale condizione di gran parte degli studenti. Riprendiamo allora l’incipit della prima Bucolica di Virgilio. Vediamo come si sviluppa la strofa, facendo attenzione soprattutto a quale scena, e a quali domande, rimandano quei versi: 

«Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi / silvestrem tenui Musam meditaris avena; / nos patriae finis et dulcia linquimus arva. / Nos patriam fugimus; tu, Tityre, lentus in umbra / formosam resonare doces Amaryllida silvas». 

«Titiro, tu, reclino all’ombra di un ampio faggio intoni sull’esile flauto un’aria silvestre; noi [invece] lasciamo la patria e gli amati campi; fuggiamo la patria, noi. [Mentre] tu, Titiro, pigramente all’ombra, fai echeggiare nei boschi il nome della bella Amarillide». 

Chi parla è un pastore, Melibeo, che si rivolge a un altro pastore: Titiro. Da dove vengono amarezza e rimpianto? Perché Melibeo deve fuggire, mentre Titiro se ne sta sdraiato all’ombra a zufolare? Che cosa racconta Virgilio in questa scena che sotto una placida apparenza campestre allude chiaramente a eventi drammatici? Porsi in classe domande come queste – discutere insieme le relative risposte, che qui ometto – non sarebbe molto più appassionante che spendere qualche ora in un’affannosa e stentata traduzione?

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