domenica 1 agosto 2021

Ma guarda chi c'è!

 

Piano piano anche Massimo Giannini...
di Massimo Giannini
Non sono un magistrato. Non sono un giurista. Ho una laurea in giurisprudenza, ho fatto una tesi in diritto costituzionale, per qualche tempo ho fatto l'assistente volontario alla Sapienza. Ma non serve essere Salvatore Satta o Costantino Mortati, per capire che la riforma della giustizia penale appena varata dal governo Draghi coglie un'opportunità ma non scioglie le criticità. È vero, aspettiamo dalla notte dei tempi una dignitosa riscrittura delle regole, che realizzi davvero il dettato della Costituzione: il diritto ad ottenere giustizia, con un processo giusto nella forma e ragionevole nella durata. Alle spalle abbiamo quella che impropriamente si continua a definire la "guerra dei trent'anni": come se Mani Pulite, pur con i suoi eccessi, fosse stata solo una "Intentona" delle toghe rosse per liquidare la vecchia partitocrazia, e non invece l'ovvia conseguenza di una Tangentopoli che quel sistema aveva costruito per blindarsi al potere.

Di fronte abbiamo un ordine giudiziario pieno di eroi operosi e silenziosi, ma anche infestato dai serpenti e delegittimato dalle correnti: le procure svilite a corti di Bisanzio, le cene di Palamara e i dossier di Amara, gli errori giudiziari e i detenuti in attesa di giudizio. Tutto questo è incontestabile. E rende imprescindibile "una" riforma. Ma spiace dirlo: non "questa" riforma, ambiziosa ma discutibile. Anche dopo le ultime modifiche apportate dal Consiglio dei ministri. Le "criticità" del testo sono evidenti. Se i "garantisti" in servizio permanente effettivo non vogliono credere ai togati "giustizialisti" come Gratteri e Musolino, ascoltino un grande giurista come Vladimiro Zagrebelsky. La ministra della Giustizia sostiene che "dopo un reato è fondamentale accertare tutti i fatti e tutte le responsabilità e farlo in tempi certi. Nell'interesse delle vittime, degli imputati, di tutti i cittadini".
Ma la domanda è proprio questa: la formula dell'improcedibilità, fissata in modo categorico dopo due anni in appello e dopo un anno in Cassazione, risponde davvero a questa esigenza? Purtroppo no. Lasciamo stare i processi per mafia, terrorismo, droga e quelli per delitti puniti con l'ergastolo: se anche per queste fattispecie gravissime scattasse comunque la tagliola dell'improcedibilità saremmo davvero al "de profundis" della Costituzione. La possibilità di proroghe motivate, rinnovabili e impugnabili, prevista in questi casi estremi con le modifiche apportate dall'ultimo Cdm, è davvero il minimo sindacale per uno "Stato di diritto".

Ma cosa succede ai processi per altri reati, esclusi dall'elenco delle deroghe aggiunte dopo le febbrili trattative tra governo e maggioranza? Per definizione, quando si stila un elenco si include e al tempo stesso si esclude. Nessuno scandalo: semplicemente, l'esecutivo fa una scelta politica su cosa debba rientrare e cosa debba star fuori. Ora è un fatto oggettivo, non smentito, che se questa riforma fosse già in vigore sarebbero esclusi dall'elenco delle deroghe, e dunque finirebbero nel "nulla improcedibile", processi come la strage di Viareggio, la tragedia della funivia del Mottarone, l'omicidio in carcere di Stefano Cucchi, i morti sul lavoro. Cosa resta, in questi casi, dell' "interesse delle vittime" di cui parla giustamente la Cartabia e di cui riempiamo sdegnati le prime pagine dei giornali, ogni volta che processi di questa portata cadono in prescrizione? Accorciare i tempi, per evitarlo, è sacrosanto. Ma l'improcedibilità è la soluzione migliore? Non lo è, con buona pace della Guardasigilli che obietta: "I termini che abbiamo messo sono raggiungibilissimi alla luce dei dati statistici". I numeri del suo dicastero dicono altro: i procedimenti pendenti nelle Corti d'appello che non rispettano i due anni stabiliti dalla riforma sono quasi 190 mila, e pesano per il 75% del totale. Si va da un "massimo" a Napoli (2.031 giorni) a un "minimo" a Firenze (745 giorni). Come impatterà la tagliola, in questi distretti? Qualche dubbio deve averlo avuto lei stessa, visto che per le nuove norme ha introdotto un "regime transitorio" monstre di tre anni.

Poi certo, c'è "l'opportunità", che è altrettanto evidente. Si chiama Next Generation Eu. I primi 25 miliardi sono in arrivo. Poi arriveranno gli altri 180, se faremo davvero le riforme. La giustizia è la prima sulla quale il premier si è impegnato con Bruxelles. Per questo ha annunciato subito la fiducia sul maxi-emendamento e lo vuole al traguardo prima delle ferie d'agosto. Tutto legittimo. Purché, anche qui, si dica la verità. La priorità degli interventi per noi è scritta nel Recovery Plan, a pagina 51: "Nelle «Country Specific Recommendations» indirizzate al nostro Paese negli anni 2019 e 2020 la Commissione Ue… invita l'Italia ad aumentare l'efficienza del sistema giudiziario civile". Perché una giustizia civile più efficiente spinge il Pil dello 0,5% l'anno, rende "i mercati più contendibili", riduce "l'incertezza sui rendimenti di capitale", migliora il "finanziamento per famiglie e imprese", stimola "investimenti interni e dall'estero". Di penale, nel Recovery tricolore, si parla in tutt'altro senso: la Commissione invita l'Italia "a favorire la repressione della corruzione, anche attraverso una minore durata dei procedimenti penali". Tutto qui.

Naturalmente nessuno si sogna di dire per questo che un intervento sul penale non serve. Al contrario: è urgente, per i motivi che ho spiegato. Ma quello che dobbiamo invece dire è che la clausola del "ce lo chiede l'Europa" in questo caso non funziona. L'Europa, qui ed ora, ci chiede altro (la riforma del civile). E questo "altro" Draghi e Cartabia lo hanno posposto. Anche questo è legittimo: si tratta, di nuovo, di una scelta politica. Come sostiene il commissario Paolo Gentiloni, nell'intervista che pubblichiamo oggi, le polemiche ci sono sempre, ora "l'importante è "guardare avanti". Ma è un punto delicato, che va spiegato all'opinione pubblica. Siamo tutti d'accordo, Mister Draghi è una benedizione per l'Italia, perché è credibile nel mondo e perché "rompe le noci più dure" (copyright New York Times). Ma non per questo bisogna accettare acriticamente tutto quello che fa il suo governo. Diversamente, passa l'idea sbagliata del solito "ricatto tecnocratico" (che già funzionò tra i 2008 e il 2011, all'epoca della crisi dei debiti sovrani): per incassare i fondi europei dobbiamo offrire in cambio riforme purchessia. Non importa se buone e giuste.

Invece, per noi cittadini, questa è l'unica cosa che conta. Tutto il resto è chiacchiera politica, compresa la rituale contabilità dei vincitori e dei vinti. Sul campo di battaglia ognuno ha piantato la sua "bandierina identitaria". Draghi ha vinto perché ha imposto la linea (mentre è chiaro che cedendo ai 5S ha stabilito un precedente pericoloso in vista del semestre bianco). Conte ha vinto perché ha tenuto il punto sulla prescrizione (mentre è chiaro che la Supernova grillina è ormai implosa, la coesistenza con Di Maio è difficile e la coabitazione nell'esecutivo di unità nazionale è scomoda). Salvini ha vinto perché ha cancellato la legge Bonafede (mentre è chiaro che senza la mediazione di Giorgetti il risultato non sarebbe arrivato). Cartabia ha vinto perché ancora una volta ha prevalso il suo "metodo" (mentre è chiaro che la sua corsa al Colle è diventata più impervia). Forse ha vinto pure Renzi, per motivi che ora ci sfuggono ma un giorno capiremo. Va tutto bene. Purché tra qualche anno non scopriamo che gli unici a perdere sono stati gli italiani.

Nessun commento:

Posta un commento