mercoledì 02/09/2020
L’INTERVENTO
Dico Sì alla riforma contro quelli che ragionano “a breve termine”
REFERENDUM - I VOLTAFACCIA DEL TAGLIO
di Salvatore Settis
20-21 settembre - Il referendum confermativo per la riduzione del numero di parlamentari - FOTO ANSA
Grande è la confusione sotto il cielo, ma ancor più grande nella Penisola. Come spiegare chi, avendo votato in Parlamento la modifica costituzionale che riduce il numero di deputati e senatori, al referendum si schiera per il No? A quel che pare, i loro principali argomenti sono due: la maggior rappresentatività di un Parlamento più numeroso e la salvaguardia della Costituzione, nonché della dignità dei rappresentanti del popolo. Come tale dignità possa uscire indenne da tali subitanei voltafaccia resta un mistero. Una spiegazione forse c’è, e si chiama short-termism: una peste del nostro tempo, che consiste nel badare alle conseguenze a breve termine delle proprie azioni, senza preoccuparsi di quelle a lungo termine. Si spiegherebbe così come qualcuno possa aver votato Sì alla Camera solo pochi mesi fa onde fortificare la maggioranza di governo, e voglia oggi votare No per indebolirla. Si capirebbe anche perché la riforma è stata approvata alla Camera con una maggioranza superiore ai due terzi, al Senato no: condizione necessaria, quest’ultima, perché si andasse al referendum confermativo, creando così un’altra occasione per stare col fiato sul collo del governo.
Convergono in tali comportamenti due malattie della nostra democrazia, strettamente connesse tra loro. Primo, il vizio di operare secondo un orizzonte temporale di poche settimane o mesi, anche quando si tratti di riforme costituzionali, che per loro natura dovrebbero esser sostenute da un amplissimo respiro. Secondo, l’habitus di orientarsi sulla base non di ferme convinzioni, ma della convenienza del momento: è quel che accadde col voto contrario alla riforma Renzi da parte delle destre, che avevano pochi anni prima proposto una riforma assai simile e ne covavano un’altra pochi mesi prima, nel governo Letta. Se poi votarono No in Parlamento e al referendum, fu perché Renzi aveva rotto il “patto del Nazareno”, intestando al suo “governo costituente” quel conato di riforma, mentre “il governo deve rimanere estraneo alla formulazione della Costituzione, se si vuole che scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’assemblea sovrana” (Calamandrei). Della stessa natura è il voltafaccia di chi, come Zanda e Finocchiaro, si oppone a una riduzione dei parlamentari identica fin nei numeri a quella che essi proposero nel 2008 (i dati, inoppugnabili, sul Fatto del 29 agosto). Per non dire di Salvini, che dopo aver trionfalmente presentato questo stesso ddl in conferenza stampa con Di Maio, Fraccaro e Calderoli, raccomanda ora di votare No, cioè contro il se stesso di due anni fa. Per costoro, la Costituzione è dunque un terreno di gioco politico di piccolo cabotaggio, e non la Carta che regola la vita civile della Repubblica. Ma chi cambia fronte con tanta disinvoltura non è né smemorato né distratto: lo fa perché sa (o crede) di poter contare sulla smemoratezza e distrazione di una fetta più o meno grande di elettori. A spese della Costituzione.
La confusione non si ferma qui. Chi, avendo votato No alla riforma Renzi, intende ora votare Sì al referendum (è questo anche il mio caso) viene talvolta accusato di incoerenza. Val dunque la pena di ricordare ad nauseam che quella riforma prevedeva sì la riduzione del numero dei parlamentari, ma intendeva modificare altri 45 (quarantacinque) articoli della Costituzione, stravolgendo le procedure costituzionali; per non dire che il Senato veniva svilito a un’accolta di sindaci e assessori regionali non eletta dal popolo. Ma la Costituzione va strenuamente difesa anche là dove (art. 138) essa stessa dice che può essere modificata, con una procedura lenta e garantita, che invano si è cercato talvolta di espugnare. Tuttavia, cambiare due articoli della Costituzione può rispondere al suo spirito, modificarne più di 40 in un colpo (come hanno tentato di fare Berlusconi, Bossi e Renzi) no.
Abbondano, nella Penisola, i prestigiatori verbali. Fra le loro prodezze svetta, di questi tempi, l’acrobazia concettuale per cui ridurre il numero dei parlamentari sarebbe oggi “antipolitica”, “antiparlamentarismo” e “populismo”, mentre chi proponeva l’identica riduzione nel 2008 o nel 2016 stava combattendo precisamente contro l’antipolitica, l’antiparlamentarismo e il populismo. Tanto più importante è che chi intende votare Sì provi a dire perché. Non sarà certo per via del (modesto) risparmio sui costi delle Camere: argomento che fu frivolo quando lo usavano Renzi e Boschi, e frivolo resta chiunque lo agiti oggi. Né certo perché questa sia una riforma salvifica, per un Paese devastato dalla doppia crisi del bilancio e del Covid-19. È stato lo stesso presidente del Consiglio Conte, nel suo discorso d’investitura alla Camera un anno fa (9 settembre 2019), a formulare chiaramente le condizioni di contorno perché questa riforma abbia effetti positivi.
Rileggiamo il suo discorso. La riforma, disse Conte, doveva essere contestualmente “affiancata da un percorso volto a incrementare le garanzie costituzionali e di rappresentanza democratica, favorendo l’accesso democratico alle formazioni minori e assicurando – nello stesso tempo – il pluralismo politico e territoriale”. Conte aggiungeva la stretta necessità di “avviare un percorso di riforma, quanto più possibile condiviso in sede parlamentare, del sistema elettorale” e di “procedere a una riforma dei requisiti di elettorato attivo e passivo per l’elezione del Senato e della Camera”. Sagge parole, a cui ben poco è corrisposto nei fatti, anche se si tratterebbe qui di leggi ordinarie, senza il percorso giustamente lento delle riforme costituzionali.
Se governo e Parlamento non hanno tenuto fede a questi intenti programmatici, sarà anche per l’enorme impegno nella lotta alla pandemia che ci affligge, ma il fatto che il percorso delineato allora sia rimasto a uno stadio men che embrionale mostra che anche i fautori di questa riforma la vedono più come un evento simbolico da sbandierare che come il necessario tassello di un paziente progetto di rilancio della democrazia. Ai punti indicati da Conte altri ne andrebbero aggiunti, per esempio la reale rappresentatività degli eletti dal popolo (che una signora di Arezzo rappresenti l’Alto Adige perché ci andava in vacanza dovrebbe esser vietato in perpetuo), o sulla democrazia interna dei partiti (questa parola, l’unica usata dell’art. 49 della Costituzione, riguarda evidentemente anche quei partiti che per civetteria negano di esserlo), cestinando una volta per tutte l’etica tribale fondata sulla devozione a un Capo e sulla caccia ai suoi favori.
Il fronte del Sì ha però qualcosa in comune col fronte del No, ed è la concentrazione sulla sola riduzione dei parlamentari e la riluttanza ad affrontare una seria discussione sulle leggi ordinarie (e i regolamenti delle Camere) che dovrebbero accompagnarla. L’obiettivo del No non è forse nemmeno la caduta del governo, che tutti temono per ragioni diverse, ma un suo radicale indebolimento, per bilanciare la forza che esso ha acquistato per l’efficace lotta al virus e i successi in Europa. Insomma, siamo ancora una volta al tran-tran di governi che si reggono su cento stampelle, con cento (mini-)signori della guerra che minacciano di farli cadere, chiedendo qualcosa in cambio di un sempre barcollante sostegno. Lo stesso identico tran-tran che vorrebbe imbalsamare i numeri dei parlamentari per l’eternità. La riduzione numerica di Camera e Senato sarà uno choc sufficiente per innescare un qualche processo virtuoso? Per scompaginare le consorterie di corrente, sfrondare le clientele, rivedere al rialzo il rapporto coi territori? Purtroppo non è certo. Certo è invece che la vittoria del No darebbe ai campioni di short-termism e ai professionisti del voltafaccia un premio che non meritano.
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