mercoledì 2 aprile 2025

Robecchi

 

La grande fuga. I successi di Meloni: gli italiani si rimpatriano in altri Stati
DI ALESSANDRO ROBECCHI
Le politiche dei rimpatri di Giorgia Meloni sono un vero successo, infatti nel 2024 156 mila italiani si sono rimpatriati da soli in altri Stati, facendo le valigie e salutando la carbonara e le ospitate di Italo Bocchino in tv (si suppone con qualche rammarico, almeno per la carbonara). Considerando che sempre nel 2024 sono nati in Italia 370 mila bambini, si può dire che per ogni due nuovi italiani, un “vecchio” italiano ha levato le tende. Ciao e grazie di tutto. “Vecchio italiano” si fa per dire, perché di quei 156 mila che sono espatriati, 131 mila hanno meno di quarant’anni e la metà (il 48,5 per cento, per la precisione) sono laureati.
Volendo correre subito alle conclusioni, si potrebbe dire che la retorica nazionalista della signora Meloni, i suoi monologhetti in video diffusi a reti unificate sulla ritrovata grandezza della “Nazzione”, il suo volitivo spronare alla fierezza e al rinascente orgoglio dell’italianità, l’attaccamento sacro alla patria, e tutte quelle fregnacce da cronachette del Ventennio, hanno prodotto risultati concreti: quelli che se ne vanno sono aumentati del 20,5 per cento in un solo anno. Brava Giorgia. Il fatto è – come al solito – che le belle parole colorite e mascellute non servono a niente, perché la gente non vive mettendo in tavola la bella retorica ardita e la Weltanschauung tricolore di Giorgia & Arianna, ma di solito preferisce buon cibo, sicurezza sociale e una risonanza magnetica quando serve, non tra ventotto mesi. Le statistiche parlano chiaro: ci dicono che a tre anni dalla laurea, solo sette italiani su dieci trovano un lavoro, e la media europea è all’otto e mezzo. Ma le statistiche sono anche freddine: non ci dicono se quei sette lavori hanno veramente a che fare con la laurea conseguita, in un Paese in cui basta lavorare una settimana ogni tanto per essere considerati “occupati”. E infatti quando Giorgia parla di boom dell’occupazione, sotto bisognerebbe scrivere, con nota segnalata da asterisco: grazie al cazzo.
Anche la perdita vertiginosa del potere d’acquisto (meno 8,7 per cento in quindici anni) non è tutta responsabilità del governo Meloni, ci mancherebbe, ma è un dato di fatto che in due anni abbondanti non è stato fatto nulla per invertire la tendenza. Pure la retorica pre-elettorale si è sciolta senza lasciare traccia: chi ricorda i “mille euro con un clic” e “toglieremo le accise sui carburanti” può serenamente farsi una risata, anche se molti se la faranno dalla Germania, o dalla Spagna o dalla Svizzera. È probabile che gli italiani che scappano dall’Italia non troveranno altrove l’Eldorado, certo, tutta l’Europa ha i suoi problemi (primo tra tutti quello di educarli alla guerra prossima ventura), ma almeno si risparmieranno l’eterno giorno della marmotta di cose sentite e risentite. Per avere un lavoro non dovranno passare dalle forche caudine dello “stage non retribuito”, non si sentiranno dire che devono lavorare “per avere visibilità e migliorare il curriculum” e non si dovranno sorbire le periodiche lacrimose intemerate dei ristoratori che non trovano cuochi e camerieri che – avidi – vogliono essere pagati.
Insomma, la retorica del Make Italia Great Again che i patrioti spargono a piene mani, abbellita dal paradosso (ah, finalmente non governano più i “comunisti”) diventa, da patetica che era, fortemente autosatirica, una presa in giro autoinflitta. Brutta immagine, quella del comiziante che arringa le folle e poi è costretto a dire, nel bel mezzo del discorso: “Aò! Ma dove andate tutti?”.

Ineccepibile

 

Calenda, politico fallito pompato da tutti i media
DI DANIELA RANIERI
Tecnicamente Calenda è un politico fallito. Breve storia di Calenda: giovanissimo impiegato nella Ferrari di Montezemolo, che è amico di papà, poi in Sky, indi assistente del presidente in Confindustria, si innamora di Italia futura, si candida con Scelta civica di Monti e non viene eletto, diventa viceministro di Letta e Renzi, poi dallo stesso Renzi è fatto Rappresentante permanente presso la Ue (230 diplomatici insorgono con Renzi: “Non ci s’improvvisa ambasciatori”), dunque de plano ministro allo Sviluppo economico; prende la tessera del Pd, si fa eleggere al Parlamento europeo coi voti del Pd ma con un simbolo proprio (“Siamo europei”); pochi mesi dopo, alla formazione del Conte-2, lascia il Pd con una piazzata da sciantosa, cambia nome al suo partito (“Azione”) restando beninteso europarlamentare del Pd, spalleggia Renzi alle Regionali al solo scopo di togliere voti al Pd, si candida a fare il sindaco di Roma pretendendo i voti del Pd, comincia a girare le inesplorate periferie di Roma importunando gli indigeni affinché lo votino, arriva terzo su tre, annuncia che non farà il consigliere comunale, buttando a fiume 220 mila voti di romani, salvo poi ripensarci, salvo poi ri-ripensarci e rinunciare (il suo slogan era: “Roma, sul serio”), si mette in proprio, imbarca le berlusconiane Carfagna e Gelmini, diventa draghiano importando nel programma di Azione l’invisibile “Agenda Draghi”. Tanta coerenza va premiata: nel 2022 Letta gli apre le porte del Pd, si baciano in pubblico. I giornali negli anni lo hanno talmente gonfiato (febbraio 2019, titolo di HuffPost: “Calenda punta a superare il 30% alle Europee”) che ha finito per crederci anche lui; quando i sondaggi interni gli presentano un misero 5-6%, dopato pure dalla sovraesposizione, fa marcia indietro. “Mi pare che l’unico alleato possibile per Calenda sia Calenda”, twitta Enrico Letta; una battuta sagace su uno che fino a un minuto prima voleva come alleato al punto da regalargli il 30% dei seggi (in effetti Calenda su Twitter ha il 30%), perché Carlo sarebbe stato un “magnete per i voti di centrodestra”. Lasciato Letta, Calenda si sente di non essere più di centrosinistra ma di centro estremo e si mette con Renzi, che gli sembra un giovane promettente (“Renzi è inaccettabile sul piano etico” e “mi vergogno di aver lavorato con lui”, aveva detto tempo prima). All’insegna dell’elogio del merito e della cancellazione del Reddito di cittadinanza (il figlio di papà col culo al caldo odia i fancazzisti), fondano il “Terzo Polo”, che poi è Sesto anche se i giornali continuano a chiamarlo Terzo per accarezzare l’ego straripante dei due, che sommato dà il 78% anche se poi portano ciascuno tra il 2 e il 3% dei voti, buttali via. Verificata una certa incompatibilità caratteriale, si separano civilmente: Calenda: “Io non ho mai ricevuto avvisi di garanzia/rinvii a giudizio/condanne, non ho accettato soldi da dittatori e autocrati stranieri, da speculatori stranieri e intrallazzatori”; Renzi lo ignora, ma La Stampa “ruba” una sua frase: “Calenda è pazzo, ha sbagliato pillole”). Quindi Carlo si vota alla causa bellicista atlantista e porta in Tv la sua strenua opposizione al governo Meloni: “La posizione di Meloni nei confronti degli Stati Uniti è da italiota”, “una nuova tipologia del fascio codardo”, senza contare che Meloni “per tutta la sua vita ci ha rotto i coglioni con la dignità nazionale e la forza della nazione”. I giornali ci credono molto: chiamano Renzi e Calenda “l’opposizione”.
Ed eccolo l’altro giorno, al congresso di Azione (che poi è composto da Calenda e da qualche altra frattaglia politica, tipo l’ex renziano Rosato; se ne sono andate pure le berlusconiane), inveire istericamente contro il M5S per il diletto dell’ospite d’onore, una ridanciana Giorgia Meloni accompagnata dai suoi pretoriani.
Questa coerente, tetragona biografia dà a Calenda l’agio di definire Conte un “trasformista”. E di scegliere, dopo aver tentato una carriera prima nel centrosinistra, poi nella sinistra, poi nel centro, l’ultima opzione che gli era rimasta: fallire anche nell’estrema destra. Ah: la cosa divertente è che Enrico Letta si fiondò su questo pompatissimo fenomeno mediatico, che con la sua quota di liberalità “centrista e riformista” avrebbe portato la socialdemocrazia nel Pd, per “non lasciare il Paese alla Meloni”. La quale, pur di rimpiazzare il bollito lesso Salvini, evidentemente si accontenta pure di Calenda, sperando che con il suo partito di plastica e le sue bizze da ricco possa portare un gruzzoletto di voti, magari quelli dei residenti dei quartieri a nord di Magliana-Garbatella. In fondo condividono l’amore per le armi (premio della critica a Crosetto che si alza in piedi ad applaudire il leader dei Parioli che vuole “cancellare il M5S” come uno zio ubriaco al momento del brindisi a un matrimonio) e la grande truffa liberale del “merito”. E il merito va premiato.

Spiaggiati

 



Sensazioni

 



Natangelo

 



Presente! Ci vediamo sabato!

 

Dov’è la vittoria
DI MARCO TRAVAGLIO
Non sapendo più come squalificare la manifestazione M5S di sabato contro il riarmo dei 27 Stati Ue (soprattutto uno), per il negoziato sull’Ucraina e un’economia sociale per l’Europa, i media dominanti han ricominciato a dipingere organizzatori e manifestanti come un mix di idioti e farabutti. Idioti che inseguono l’utopia di mettere i fiori nei cannoni, pacifisti assoluti che vogliono abolire eserciti, spese militari e alleanze strategiche per difendersi da eventuali aggressori sventolando ramoscelli di ulivo. E farabutti che sotto sotto tifano per Putin e i suoi crimini. Noi abbiamo l’impressione che chi manifesterà sabato sia lontanissimo da quel fumettone, anzi l’opposto: quanto di più realista e meno utopista esista in Italia. Gente che da tre anni solidarizza col popolo ucraino per le due aggressioni subite. Quella degli oltranzisti Nato che hanno strappato a viva forza Kiev dalla sua collocazione più conveniente (scelta dagli elettori e pattuita dai governi negli anni 90 e nei primi 2000): la neutralità militare e la cooperazione economica con Russia e Ue. E quella di Putin con l’invasione del 2022.
Gente che ha sperato nella vittoria dell’Ucraina, ma si è resa ben presto conto che era impossibile: sul campo gli ucraini da due anni e mezzo non fanno che arretrare per mancanza non di armi, ma di uomini; e, se mai Mosca dovesse soccombere, un attimo prima di alzare bandiera bianca sgancerebbe l’atomica. Gente che, proprio perché sta dalla parte del popolo ucraino tradito dagli “amici” occidentali e dalle sue classi dirigenti, prega che riesca il negoziato avviato da Trump, che è sgangherato finché si vuole, ma è l’unico che abbiamo. Così l’Ucraina manterrà almeno l’80% del territorio che le è rimasto, senza le regioni russofone e russofile che in maggioranza dal 2014 non si riconoscono più nel regime di Kiev; e potrà tornare alla sua neutralità, unica vera garanzia contro future invasioni. Questo dice il realismo. L’alternativa è nota: la guerra continua, i russi continuano ad avanzare lentamente ma inesorabilmente (dei 1300 kmq invasi dagli ucraini nella regione di Kursk in agosto, ne hanno ripresi 1.220), Kiev continua a perdere uomini e terreno. Quindi gli utopisti e i farabutti sono quelli che remano contro il negoziato con piani di riarmo e truppe “volenterose”: sono loro i veri alleati di Putin (a cui conviene continuare la guerra); i finti amici degli ucraini (a cui conviene fermarla subito); e i veri nemici dell’Europa (che non è mai stata nel mirino di Putin, ma a furia di armarsi potrebbe presto finirci). I sognatori del ’68 ripetevano una frase di Che Guevara e Camus: “Siate realisti, chiedete l’impossibile”. Oggi siamo così mal ridotti che chi chiede il possibile passa per sognatore.

Spezzinamente