sabato 3 settembre 2022

Cultura, Cultura!

 

L’altro Pico della Mirandola Tra religione e ossessione

Il Savonarola fu la sua stella polare. Spese la sua vita per difenderlo a oltranza

Luca Scarlini 


Giovan Francesco Pico della Mirandola, dalla sua minima signoria presso Modena, entrò a gamba tesa nelle vicende fiorentine, che ben conosceva per mole presenze sue e per via del celebre zio, ritenuto tra gli uomini più colti dell’epoca sua, e più in generale presentato al mondo come un prodigio di memoria, cultura e capacità di connessione. Egli conobbe il frate nel 1492 e ne venne fortemente influenzato. Dal 1496 scese in campo a favore del religioso, con l’opuscolo «De morte Christi et propria cogitanda», composto per i giovani frati di San Marco e stampato l’anno seguente. Iniziò quindi una serie di interventi a favore del religioso, che nel frattempo perfezionava la sua idea fascinosa e violenta di una Gerusalemme in terra. Nel 1497 venne la «Defensio Hyeronimi Savonarolae adversus Samuelem Cassinensem», edito dal celebre Bernardo de Libri. 


La scomunica di Girolamo ebbe seguito per l’intellettuale in un instant book l’«Opusculum de sententia excommunicationis iniusta», edito a Firenze dalla compagnia del Drago. Nella Pasqua del 1498 inviò dalla sua rocca, una commossa «Epistola in favore de fra Hyeronimo da Ferrara, dappoi la sua captura». Nemmeno il tragico rogo del 23 maggio di quell’anno cambiò la sua fede: per tutta l’esistenza continuò a interrogarsi sul carisma del religioso, a cui rimase fedele, anche quando il solo parlarne esponeva a rischi e sospetti. Si prefisse subito di scrivere una biografia edificante del religioso, ma la Storia aveva in serbo altro per lui. Riuscì a compiere il ponderoso testo solo nel 1530, oltre trent’anni dopo i fatti fiorentini, perché nel frattempo il suo staterello, dopo la morte del padre, più bravo di lui a mantenere i faticosi equilibri di quell’epoca contrastata e violenta, venne messo sotto attacco e infine conquistato da un’armata dei suoi fratelli rivali condotta dal capitano Trivulzio. 


Gli anni seguenti furono quindi di esilio e di faticosi tentativi di recuperare le proprie terre, con il sostegno dell’imperatore Massimiliano I e con presenze continue a Roma alla corte di Giulio II. Infine, sfumata ogni speranza di riprendere in mano le proprie terre, si dette a opere intellettuali complesse, che soprattutto lo impegnavano. Fedele a Savonarola, egli voleva distinguere, a ogni costo, tra la profezia santa del frate ferrarese e gli infiniti annunciatori di sventure che in quegli anni erano assai influenti in Italia, in un’epoca fuor di sesto, in cui non si capiva come potersi salvare dalle infinite calamità che accadevano. Perciò egli scrisse «De rerum prenotione», edito a Strasburgo nei suoi ponderosi «Opera», tra il 1506 e il 1507. Qui egli mette in guardia i suoi lettori dalla praenotio superstitiosa, che è la ricerca con ogni mezzo del futuro che apre la via al diavolo per esercitare il proprio potere in terra. La stagione d’oro del Rinascimento fiorentino era terminata da tempo, ed egli scelse come proprio bersaglio la prisca theologia di Marsilio Ficino, che gli pareva né più né meno teologia diabolica, da evitare a ogni costo. Nel continuo tentativo di recuperare le sue terre, dove riuscì a tornare per breve tempo, ma venne poi di nuovo cacciato, poi, avendo svolto incarichi militari nei vari eserciti che scorrazzavano per l’Italia, infine nel 1514 riuscì a fissare un accordo con la cognata Francesca Trivulzio per una divisione, traballante, ma che per qualche tempo funzionò: a lui andò Mirandola e le adiacenze, e a lei Concordia. A quel punto Giovan Francesco tornò agli studi, riprendendo la riflessione su Savonarola, che rimase la stella polare del suo pensiero. 


Nel 1519, con autorizzazione del Papa, poté aprire una sua personale stamperia, dove nel 1520 dette alle stampe l’opera sua suprema: l’«Examen Vanitatis doctrinae gentium» in sei tomi, dedicati al Papa. Qui egli prende di mira, anche la filosofia di Aristotele, cercando il ritorno a un cristianesimo depurato dall’eredità del Rinascimento. In una visione sempre più austera, nella fase finale del pensiero dell’agitato uomo di lettere, fatalmente le sue accuse al mondo che aveva fatto del paganesimo riscoperto il proprio alimento, si fissò sulla strega, destinata a diventare la vittima sacrificale dell’epoca nuova, di ferro e sangue. Strix, ossia «La strega e le illusioni diaboliche», che compose nella sua età tarda (una buona edizione recente del testo è quella ben curata e tradotta da Ida Li Vigni per Mimesis nel 2012). Qui il pensiero savonaroliano si fissa in modo maniacale contro la donna, vista nelle vesti di avvocata e alleata del diavolo, dove la predica del frate ferrarese diventa un discorso, spesso violento, della paura e dell’incomprensione.

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