Come scimmie ammaestrate per far pubblicità ad Amazon
Felicità ingannevole - Il colosso e i lavoratori
DI DANIELA RANIERI
Siamo ridotti a un livello tale che la spietata degradazione cui sono sottoposti i lavoratori viene presentata come l’essenza del progresso: il neoliberalismo, non pago del suo dominio sulla vita, propina quotidianamente le sue mitologie attraverso il web, la tv, la pubblicità, perché la sua egemonia sia totale e psichica.
Avrete visto i più recenti spot di Amazon, in cui dipendenti della multinazionale ne tessono gli elogi: “Avevo un compagno stupendo che è venuto a mancare”, dice una donna sulla cinquantina mentre guida muletti, “non volevo fare la vita che facevo prima, che portava solo dolore. Mi sono reinventata: Amazon mi ha aperto un mondo, ho pensato: non ti devi spezzare, devi andare avanti”.
Andare avanti, non spezzarsi, reinventarsi: una declinazione da manuale della esiziale “resilienza”, questa rucola concettuale che si trova ormai in ogni piatto servito dalla società attuale, finita persino nel piano di finanziamenti europeo post-crisi pandemica.
La pubblicità motivazionale è uno strascico della Covid, come i problemi neurologici di chi è stato malato: solo che questi guasti sono estesi alla società tutta.
“Sono Gianluca, ho smesso di studiare, è il mio grande rimpianto”, dice un ragazzo. Ma ecco che arriva Amazon a tamponare le falle di studi non regolari: “L’importante è rialzarsi”, dice, perché chi resta a terra, cioè chi non lavora per Amazon e magari prende il Reddito di cittadinanza, è indegno; Gianluca invece “impara cose nuove”, perché “siamo fatti per fare cose grandi”, e “l’importante è crederci”.
Che stoccare scatoloni, spillare codici a barre, accatastare bancali siano lavori degni non v’è dubbio; che siano l’epitome della grandezza umana, opere leonardesche e sostituti dell’apprendimento e della coltivazione interiore, è inaccettabile. Il messaggio scaturito dai serbatoi del pensiero dei pubblicitari di Amazon è che lo scatto della dignità umana offesa sia possibile grazie a un datore di lavoro generoso, il quale, più che mirare ai profitti, si occupa di risollevare (dalla miseria, dall’afflizione) i suoi lavoratori, ciò che spetterebbe allo Stato.
Il terzo spot è ancora più mortificante. La voce fuori campo di un ragazzo dice: “Mi chiamo Mohamed, la mia frase preferita è (segue frase in arabo, ndr), che vuol dire ‘non smettere di lottare’”. Fate attenzione a quel “lottare”: Mohamed non parla di lotte sindacali, non si batte per i suoi diritti: lotta con Amazon (non contro di essa) per mantenere inalterate le sue condizioni. È grato all’azienda, e lo storytelling ci spiega perché: “Mia sorella è nata con disabilità”; foto di famiglia si alternano a immagini di Mohamed che infila pacchi dentro una bacheca e passa allo scanner alcuni prodotti. “Miei genitori sono molto contenti perché riesco a aiutarli economicamente”. Amazon si è accollata il lavoratore migrante e la sua famiglia, che Mohamed sfama con agio. Sembra non faticare, anzi: l’ambiente di lavoro è talmente rilassato che ha anche modo di fare break dance nello stabilimento: “La mia squadra mette qualche musica per farmi fare qualche balletto: mi fa sentire siamo tutti famiglia” (sic).
Il claim è: “Amazon, ogni giorno meglio”. Le denunce di ex lavoratori costretti a urinare nelle bottiglie perché non hanno tempo di andare in bagno si infrangono contro il pathos a buon mercato delle biografie di questi poveri e lavoratori.
A impersonare i grati prigionieri di questa gabbia sociale micidiale non sono attori: sono presumibilmente dipendenti veri, con nome e cognome. È etico farli lavorare alla pubblicità dell’azienda? I dirigenti fanno casting in reparto? Sono pagati a parte, o raccontare docilmente le proprie disgrazie – apice dell’alienazione – è compreso nello stipendio? E cos’altro possono dire, se non che sono contenti? Ma a che serve questo finto cinema verità? Naturalmente a lucidare l’immagine di un’azienda che si trova in una situazione di quasi monopolio, il cui padrone Jeff Bezos (patrimonio stimato: 205 miliardi di dollari), quello che ha fatto un giro di 4 minuti nello spazio nella sua navicella Blue Origin, paga zero dollari di tasse negli Usa, e in Europa ne paga pochissime perché le imposte sono sui profitti e non sui ricavi (basta investire molto).
Ma perché deve importarci se i lavoratori di Amazon si esibiscono per il padrone? Perché societas vuol dire insieme di soci, non di competitor. Quel che si deve rifiutare radicalmente non è lo spot, è il modo in cui è organizzata la società, che “accresce le ricchezze di una parte e conserva l’abietta povertà” (Marcuse, negli anni 60).
Infine: Gianluca, Mohamed, la signora che si reinventa, li tutela qualcuno in Italia? Se stanno a casa sono parassiti divanisti; se lavorano devono fare le scimmie ammaestrate per i loro padroni. Servono altre prove per la sparizione della sinistra? Per forza poi ci troviamo la destra reazionaria anti-capitalista a fare gli interessi “del popolo”.
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