sabato 13 febbraio 2021

E questa l'archiviamo!

 Gedi-Agnelli-Francesco Merlo- Repubblica, contenti sino all'emozione si permettono sguaiatamente di insultare, impoverire, deridere il Premier uscente, un uomo per bene finito quasi per sbaglio nella tana di questi lupi senza alcun sentimento di sazietà.

Ma noi che controlleremo, irrideremo, canzoneremo il nuovo corso, archivieremo pure quest'articolo del Merlo-Agnello- bonomesco, un esemplare triste e solitario, utile solo per proteggere la plutocrazia dei suoi padroni, insensibili a tutto, ancor timorosi che si potesse innescare quel moto ondoso tanto agognato, in grado di ridistribuire le carte, al momento in gran parte nelle immani tasche di lor signori, proprietari sabaudi. 

Lo archivieremo Merlo, lo terremo con noi e ogniqualvolta avremmo necessità di rammentarci in che pozzo di merda il Comico ci ha fiondati, leggeremo questo pezzo, con inalterata nausea.


Quel che resta di Conte

di Francesco Merlo

Sul ponte sventola pochette bianca. Non è stato intonato il requiem di Mozart né di Brahms per Giuseppe Conte che è uscito di scena senza neppure l’applauso da sipario. Al suo posto è tornata la normalità, proprio nell’eccezionalità del governo del presidente, la tanto attesa normalità con gli immancabili caratteri italiani, e valga per tutti Brunetta "il fantuttone", titolo che l’allora ministro si conquistò andando a caccia di fannulloni nella pubblica amministrazione. Per questi "tipi" il tempo della commedia dell’arte non scade mai. Ci vorrebbe un governo Draghi delle anime, dei sentimenti e dei valori per liberare l’Italia dalla Cretinocrazia.
Sicuramente quello di ieri non è stato un 25 luglio, non la fuga dei Savoia né la fine della Dc, né tanto meno la tragedia craxiana, nessuno ha mangiato mortadella in Parlamento come avvenne quando cadde Prodi, non c’è stato neppure l’addio ai monti di Berlusconi che era addirittura diventato una categoria dello spirito. Molto più modestamente con Giuseppe Conte è finita l’epoca della cerimoniosità, dei vezzi, del quasi, del buon ectoplasma affidabile e rassicurante, del leader ad interim, del ‘provvisoriamente al posto di’, del ‘signor nel frattempo’ che, a furia di resistere al fuoco lento con la pazienza dell’arrostito, saliva la scala di seta rossiniana, quella della popolarità che in Italia è sempre effimera.
Diciamo la verità: di Giuseppe Conte non rimane nulla. Il governo Draghi seppellisce infatti le divise dell’ etichetta e dello scrupolo liturgico. E l’Italia ha già dimenticato le iperboli auto celebrative: "vinceremo sempre", "è stato un anno bellissimo" " i miei ministri sono i migliori del mondo", "ci è stato riconosciuto di avere indirettamente salvato vite umane in Europa", "non ci accontenteremo della normalità" e soprattutto"mai una sola giornata sarà sottratta al servizio del Paese", che è il più vecchio luogo comune della retorica italiana, di Renzi, di Berlusconi, di Andreotti, di Craxi e, arretrando ancora, di Mussolini: tutti lasciavano la luce sempre accesa. Quella di Conte si è spenta da sola.
Tra i confermati al governo non c’è nessun "contiano" ed esce ovviamente anche Rocco Casalino, che stava sempre al suo fianco ed era il suo doppio, il portavoce che guadagnava più del presidente, cervello politico dei grillini che, per conto loro, non ne possedevano.
Casalino ha già scritto il suo libro di memorie e certamente si inventerà l’ennesimo futuro, pescherà un altro coniglio dal suo cilindro.
Molto più povero è il libro del suo presidente, che nel primo governo fu il vice dei suoi vice e poi ne diventò il padrone, il più strambo protagonista di questo nostro tempo instabile. Ricordate? "Non sopporto la definizione Conte - bis, preferisco Conte – due" diceva. Ed era pronto al Conte- tre, al Conte- sempre, con la presunzione di conciliare gli inconciliabili sintetizzandoli in sé, di trasformare se stesso nel leader-tavolo-rotondo, nell’uomo-piattaforma-comune. Conte è stato il luogo politico che di se stesso diceva "sono l’interlocuzione" e si autocitava, parlava in terza persona come la regina Elisabetta: "Vi prometto che il presidente Conte non si lascerà distrarre". E ancora: "Figuriamoci se il presidente Conte ha qualcosa contro qualcuno".
E forse c’è stato, nei quasi tre anni di governi Conte dominati dai grillini un momento fatale che ha cambiato il "contediprima" nel "contedipoi", e non nel senso del banale trasformismo politico, ma in quello antropologico. Ecco: il momento fatale fu la tre giorni degli Stati Generali. Quel professore che dilatava i titoli e truccava il curriculum universitario si vestì infatti da uomo solo al comando, fastoso come Berlusconi, spavaldo come Renzi, sapiente nelle promesse e nel Rinvio come Andreotti, e "nazionalista" come Salvini nell’esibizione dei simboli italiani, da padre Pio al tricolore nella cravatta, dalle dichiarazioni d’ amore per la Patria identificata con se stesso, sino "alla bellezza ci salverà" quando definì Villa Pamphili la sua "location", non opera d’ arte, luogo della memoria, parco, ma "location", il fondale per la cerimonia del nuovo potere, il set cinematografico la scenografia rococò del populismo italiano.
Insomma il suo momento fatale arrivò quando perse la modestia , la furbizia del provinciale che sapeva farsi sottovalutare. Bisogna infatti dire che era stata una parabola italiana quella del folgorante successo del presidente più popolare, una bella lezione per la politica degli spacconi e dei ganassa , dal vaffa di Grillo alla rottamazione di Renzi e ai pieni poteri di Salvini. Conte ce l’aveva fatta proprio perché nessuno lo prendeva sul serio e l’Italia aveva bisogno di un antidoto, di un contravveleno. Lo trovò in quel formalismo coltivato come un tic nervoso, con le giacche di sartoria, la colonia al limone, la lacca nera sui capelli, i gemelli ai polsi, la geometria delle pochette a quattro punte, insomma la cura di sé come ossessione psicosomatica. Conte si impose con l’aria tranquilla, serena, conversativa, amabile e indulgente anche mentre al Senato picchiava Salvini. Ma dagli Stati in Generali in poi si trasformò come Teodosio che davvero credette di poter fare l’imperatore di Roma pur essendo un ispanico, un provinciale, un burino, un ciociaro… Sepolto dalla sua ambizione, il protagonista è di nuovo invisibile.

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