Un luogo ideale per trasmettere i miei pensieri a chi abbia voglia e pazienza di leggerli. Senza altro scopo che il portare alla luce i sentimenti che mi differenziano dai bovini, anche se alcune volte scrivo come loro, grammaticalmente parlando! Grazie!
domenica 30 giugno 2024
Tutto in una frase
C’è tutto in questa frase della senatrice, compreso la vergogna, che dovrebbe essere comune ma non lo è, dei normodotati per aver indotto una persona come lei, che ha subito efferatezze ignobili frutto di una malvagità inaudita scatenata da un pazzo e coadiuvata da milioni di pazzi, a proferir tale timore. E il teatrino donzelliano, becero tra i beceri, compresa la gravità della situazione, con l’assenso della capobanda di nero dipinta, cerca di infilare il dito nella diga, fingendo provvedimenti in realtà buffetti innocui e d’avanspettacolo, come la cacciata di alcuni giovani dall’enclave fascistoide degli imbelli appartenenti a FdI. Nessuno che abbia il coraggio di guardare la realtà, ovvero che al seguito della caciottara brancolano un eclatante gruppo di nostalgici, inneggianti al razzismo, alla X Mas tirata in ballo da quell’idiota con le stellette, alla caccia all’ebreo, al “negro”, al diverso, per pavoneggiarsi come cultori della razza.
La Ciociara sa bene che quelli sono voti, tanti voti, e non li vuole perdere. Questo è il problema che s’ingigantirà nelle prossime con la presa del potere francese da parte del fascio di loro altri.
Resta la vergogna di non riuscire a seppellire un passato tremebondo causa di violenze, morti e scelleratezze che ogni sano di mente dovrebbe guardare con disprezzo e vergogna.
Pino su Ursula
Ursula, Miss Pannolini divenuta contabile Ue per sfuggire ad Angela
PRESIDENTE UE AL BIS - La sua casa era l’Unione. Nata a Bruxelles, padre commissario del governo d’Europa Sposata con un nobile, 7 figli, si smarca dall’ingombrante figura della cancelliera per poi finire agli ordini degli americani
DI PINO CORRIAS
Secondo giro di pista, dopo il Pit-Stop elettorale, sull’identico circuito dove corriamo senza pace. E dunque auguri alla “contabile d’Europa” miss Ursula von der Leyen, per stare all’ultimissima cattiveria di Romano Prodi che su quello stesso podio della Commissione europea ci è stato per cinque anni: “Ai miei tempi si ragionava ancora con i capi di Stato sui nomi dei commissari da scegliere. Oggi Ursula fa la contabile di quel che le dicono”. Cioè mette in fila le decisioni altrui, a cominciare da quelle militari della Nato. E anche le indecisioni, visto il guaio identitario in cui si è infilata la sua amica Giorgia di Colle Oppio, capace di frignare in pubblico per non essere stata invitata “al ballo mascherato delle celebrità”, come cantava il vecchio De André, e dove Meloni Premier non vedeva l’ora di chiedere allo specchio della Nazione e all’Europa intera: “Son più bella io o la statua della Pietà?”
Ursula – detta il “casco d’oro” per via della permanente, ma anche “l’elmetto di piombo” vista la sua predisposizione al riarmo d’Europa – lascia correre il filo delle trattative, dei dispetti e delle ripicche di queste ore. Incassa la maggioranza dei cattolici, dei socialisti e dei liberali che, incidentalmente, hanno vinto le elezioni. Torna al rigore dei bilanci degli Stati, considerando secondarie le faglie sociali che si sono aggravate in questi anni. Promette maxi-investimenti nella difesa comune. E naturalmente prega, vista la sua devozione religiosa, mentre predispone i sacchi di sabbia intorno alle finestre d’Europa, non solo per accogliere quel che resterà dell’Ucraina, ma anche a contrasto dei Velociraptor della destra ultra sovranista, fascistelli e neonazi compresi, che vorrebbero sfasciarli quei cristalli, come nella celebre notte del 1938, fino alla dissoluzione “dell’Europa delle multinazionali”, per sostituirla con un nuovo disordine identitario e anti-globalista che poi sarebbe la brace dei nazionalismi, sempre finiti in reciproci massacri.
Nei cinque anni passati, Ursula ha navigato con carburante rigorosamente americano, inseguita dalle voragini aperte dalla pandemia planetaria, dai guai climatici, dal ricorrente corto circuito delle fonti energetiche aggravato dalla guerra di sanzioni contro la Russia, dal terrorismo islamico, dalle migrazioni che mandano in tilt interi governi, dai super poteri geopolitici della Nato e da quelle militari di Putin che con l’invasione dell’Ucraina ha interrotto la lunga pace in Europa, ex Jugoslavia a parte. Per non dire della nuova guerra, scoppiata dopo il raid dei tagliagole di Hamas in Israele, con i massacri nella Striscia di Gaza che stanno di nuovo incendiando l’intero Medio Oriente.
Dalla pandemia ne siamo usciti. Dai malanni dell’economia ci stiamo ancora provando con il monumentale vaccino del Next Generation Eu, i 750 miliardi di euro iniettati nelle casse vuote degli investimenti europei. In quanto al clima, ancora non si capisce se i progetti del Green Deal verranno attuati – emissioni zero entro il 2050 – o finiremo per intossicarci a vicenda a causa dei permanenti conflitti tra industria, agricoltura, fonti energetiche, consumi, concorrenza cinese, eccetera.
Per le guerre vere, neanche a parlarne. L’Europa di Ursula von der Leyen, non ha toccato palla, salvo raccattare quelle lanciate dai due fronti guidati da Usa e Gran Bretagna da una parte, Russia e Cina dall’altra, titolari di questa “Terza guerra mondiale a pezzi”, dove si moltiplicano, oltre ai morti, i fatturati delle industrie militari e l’isteria dei governi. Mentre parole come “negoziato” e “pace” ancora non compaiono, sebbene stiano a fondamento proprio dell’Europa e dell’inchiostro dei suoi fondatori.
Compare invece in ogni inquadratura – da cinque anni filati – il suo sorriso d’alta classe che solo una volta si incrinò, quando Erdogan, il turco, la lasciò senza sedia a un summit, come fosse arrivata lì per spolverare. Invece di assestare almeno un calcio negli stinchi al califfo, pigolò: “Rimasi sorpresa, ma badai alla sostanza dell’incontro”.
Ursula del resto nasce ben educata nella villa di famiglia, 8 ottobre 1958. Il padre, Ernst Albrecht, politico e imprenditore, è Commissario europeo. Cresce a Bruxelles fino ai 13 anni. In casa parla tedesco, fuori casa inglese e francese. Dirà: “Sono stata europea prima di sapere di essere tedesca”. Quando il padre diventa presidente Cdu della Bassa Sassonia, la famiglia torna a Hannover. Ottimi studi, adolescenza senza ombre. L’unico vero intralcio a vent’anni, quando la polizia sospetta che i terroristi della Baader-Meinhof vogliano rapirla. Per precauzione il padre la manda a studiare alla London School of Economics. Ma tre anni dopo, rientrata in patria, sceglie di ricominciare con Medicina, fino alla laurea in Ginecologia, anno 1987. Nel frattempo, sposa il rampollo dei nobili von der Leyen. Segue il marito in California, dove per 6 anni insegna Medicina alla Stanford University, e già che c’è si specializza in super mamma, fabbricando 7 figli.
La politica è un’attitudine tardiva che coltiva dentro l’ombra di Angela Merkel. Dopo un paio di incarichi regionali, diventa ministro agli Affari sociali, anno 2005, dove si concentra sulle reti di protezione per le famiglie tedesche, asili nido, congedi parentali, sussidi alla maternità. I giornali la chiamano “Miss pannolino”. Ma è un errore di sottovalutazione. Da ministro del Lavoro se la batte con i colossi industriali e i potenti sindacati metalmeccanici. Da ministro della Difesa mette in riga i generali, polemizza con i russi quando nel 2014 Putin si annette la Crimea, accendendo i fuochi della futura guerra in Ucraina. Macina consensi e carriera fino a diventare l’erede designata della Merkel. Salvo che per troppa ombra in patria, i suoi competitori si inventano la sua candidatura a Bruxelles.
Anche stavolta è il suo filo di perle il punto di mediazione dei molti labirinti d’Europa. Per festeggiare la sua nuova nomina ha dettato l’elogio della pace e della democrazia, “dobbiamo prendercene cura” perché sono preziose e in pericolo. Poi ha assecondato quello stesso pericolo imbracciando le insegne del leader ucraino Zelensky, promettendo altri miliardi alle trincee della guerra e altre armi per i nostri arsenali, “magari con un nuovo Recovery” da intitolare stavolta Dead Generation Eu. Ottima idea per il secondo giro di pista, fino al traguardo del baratro comune.
Dati e Dragoni
Ma Draghi e Letta?
di Marco Travaglio
Ogni mattina compulsiamo spasmodicamente ogni articolo sui negoziati europei a caccia di un indizio, una traccia, un segnale, una frase, un monosillabo, un cenno, un ammicco, un qualcosa purchessia che ci rassicuri sull’esito più naturale per i vertici dell’Ue: la carta Draghi e l’opzione Letta (nel senso di Enrico). A furia di leggerne sui giornaloni, ci abbiamo fatto la bocca. E gli elettori sono stati chiarissimi. Un sol coro dall’Italia al Baltico, dal Nord Europa alla Penisola iberica ai Balcani: “Mai più senza Draghi e Letta!”.
Chi volete che avessero in mente gli italiani che hanno premiato la destra, i francesi che han votato Le Pen, i tedeschi arrapati dai popolari e dai neonazi, gli ungheresi filo-Orbán e gli altri popoli devoti ai sovranisti contro i tecnocrati di Bruxelles? Draghi e Letta. Anche Renzi, in tandem con la Bonino, era stato chiarissimo: “Voglio Draghi alla guida dell’Ue”, “Vorrei la maggioranza Mario”. E pure la Boschi: “Draghi al posto di Ursula”. E Calenda, perentorio: “Draghi presidente Ue? Io ci credo”. Il Corriere, sempre informatissimo, non aveva dubbi: “Draghi, un piano per l’Europa”, “Bene la svolta di Draghi per l’Ue”, “Opzione Draghi”, “La sveglia di Draghi”, “Sondaggio nella Ue, Draghi batte Ursula”. Anche in Scandinavia, per dire, il culto mariano faceva impazzire tutti. Il Tempo: “Tutti sognano Draghi”. Repubblica non stava più nella pelle: “Ue, si tratta su Draghi”. “Road map Ue, Draghi da von der Leyen”, “Il ruolo di Michel potrebbe liberare la casella per Draghi”, “L’Europa secondo Draghi”, “La carta Draghi”, “Porta aperta di Meloni a Draghi”, “A chi può giovare il fattore Draghi”, “Per Giorgetti, Draghi è la scelta migliore per l’Ue”, “Palazzo Chigi studia se indicare l’ex Bce”, “La lezione di Draghi”. Era fatta. Lui faceva sapere di non essere interessato, ma la Stampa mica ci cascava: “Fattore Draghi”, “Draghi vede Macron e i commissari Ue. Le tentazioni europee sull’ex premier”, “Draghi scende in campo”, “La scossa di Super Mario all’Ue bella addormentata”, “Torna l’ipotesi Draghi al Consiglio Ue”, “La scossa di Draghi”, “Il manifesto di Draghi”. Il Sole 24 ore aveva notizie di prima mano: “Draghi come sostituto di Michel è la soluzione super partes per rompere gli schemi”. Per il prestigioso Libero di Sechi l’opzione Draghi era una pura formalità: “SuperMario prenota una poltrona al Consiglio Ue”, “Il piano Draghi e il ritorno della storia”, anche perché, non bastando Renzi, Boschi, Bonino e Calenda, anche “Gentiloni lo sostiene”, e sono sempre soddisfazioni. L’autorevole Giornale di Sallusti tagliava la testa al toro: “Torna Draghi e fa un pensierino all’Europa”, “Draghi, carte coperte. Ma nessuno crede che farà solo il nonno”.
E ancora: “Lo scenario Draghi alla Commissione Ue agita il centrodestra”, “Draghi riscende in campo”, “Il programma di Super Mario”, “I contatti telefonici tra Meloni e l’ex Bce”, “Si rafforza l’ipotesi Draghi”, “Riportiamo Draghi in campo”. “Draghi, fuoriclasse che ci serve (e che fa gola pure all’America)”. Ecco, quei golosoni degli americani volevano portarcelo via, ma nulla potevano contro gli spingitori italiani, inclusi i portafortuna del Foglio: “Un caffè segreto tra Draghi e Ursula offre suggestioni sul dopo 9 giugno”, “Sogna il Quirinale ma è in corsa per Commissione e Consiglio Ue. La moglie Serenella: ‘La politica lo teme, non lo ama’”, “Vota Antonio? No: vota Mario! La nuova agenda Draghi ha messo in mutande i populismi di destra e sinistra”. Non s’era ancora trovata la prima Agenda Draghi e zac! Il rag. Cerasa già lanciava la seconda, in pelle umana. Altro amuleto, l’Unità di Samsonite: “Riappare Draghi: vuole prendersi l’Europa”, “Timone Ue a Draghi: FdI frena, Pd ci sta, Centro esulta”. Il Riformatorio vedeva “Draghi a Bruxelles senza l’appoggio dell’Italia”, ma con quello dei marziani. E il Messaggero annunciava un’irresistibile “raccolta firme di Ichino e Martelli: ‘Sia Draghi a guidare Bruxelles’”. Ichino e Martelli, mica pizza e fichi. Mancava solo Fassino.
E Letta? Anche lui, zitto zitto, inesorabilmente avanzava. Soprattutto sulla Stampa, che ci teneva tanto: “Ipotesi Letta al Consiglio europeo. La premier non metterebbe il veto”. “La carta Letta al Consiglio Ue. Il report che ha convinto Meloni”. Ma anche sul Corriere: “L’opzione Letta al Consiglio Ue e l’antico rapporto con Meloni: ‘come Sandra e Raimondo’, confronto periodico civile e rispetto reciproco”. Il nipote di suo zio aveva addirittura trasformato in un libro, appassionante come tutto ciò che fa e dice, il suo rapporto sull’economia europea, dal frizzante titolo Molto più di un mercato. Viaggio nella nuova Europa, anticipato a edicole unificate alla vigilia delle trattative Ue da Corriere, Repubblica, Sole e Messaggero. Poi i Ventisette si son visti davanti al caminetto e nella cena finale. E proditoriamente nessuno, ma proprio nessuno, neppure il premier di Malta, ha nominato né Draghi né Letta. Un attacco collettivo di amnesia? O di pazzia? O di masochismo, viste le rivolte popolari che esploderebbero fra tutti i popoli orbati di cotali leccornie? Impossibile. Dev’essere un astutissimo bluff del Consiglio Ue, che se n’è uscito con la terna Von der Leyen-Costa-Kallas per tenere coperti i due assi nella manica e tirarli fuori al momento opportuno. L’alternativa è che in Europa nessuno legga i giornaloni italiani né dia retta a Renzi, Boschi, Bonino e Calenda: ma questa è pura fantascienza.
L'Amaca
Cicalone e lo Stato
DI MICHELE SERRA
Non sono tra i follower dello youtuber Cicalone. Non amo il “faidate” in nessun campo (dall’idraulica alla medicina all’ordine pubblico). Diffido di chi fa sfoggio della sua abilità nelle arti marziali. Eppure, nelle scorrerie di Cicalone e amici a caccia di borseggiatori nella metro di Roma, riconosco una ratio .Non è la mia, è la sua: ma c’è, e non vederla è un errore.
Laratiodi Cicalone è questa: dove lo Stato arretra, avanzo io. I borseggiatori derubano i vecchi, approfittano dei deboli, rubano il denaro guadagnato con fatica dagli onesti.
Qualunque sia la ragione del loro delinquere, è un atto odioso. E viene voglia di intervenire per interromperlo. Che lo Stato arretri per debolezza, o penuria di mezzi, o scelte politiche sbagliate, è cosa rilevante per chi pretende di capire meglio quello che non funziona. Ma irrilevante per i Cicalone. Per dirne solo una: l’evasione fiscale toglie risorse e forza allo Stato, ma non sono sicuro che tra i tanti che applaudono Cicalone il concetto “le tasse si pagano” sia molto popolare.
Chi si ferma all’evidenza, magari perché non ha il tempo materiale per approfondire, vede ladri indisturbati e vede un giovanotto che cerca di acciuffarli. E pensa: finalmente qualcuno fa qualcosa. I giustizieri prosperano laddove le autorità annaspano, non danno risposte, non ce la fanno. Fossi il ministro degli Interni, o il capo della Polizia, o il sindaco di Roma, inviterei Cicalone a fare due chiacchiere. Gli spiegherei i problemi, la mancanza di uomini, i punti critici nel lavoro delle persone in divisa.
Gli darei consigli e gli chiederei consigli. Non ne farei un nemico, o un concorrente: cercherei di farne un complice dello Stato.
Crosetti per tuti
Nemmeno l’illusione di esistere
DI MAURIZIO CROSETTI
Più lontano il passato o il futuro? Serve molta memoria per ricordare una Nazionale peggiore di questa, e molta fantasia per immaginarne una almeno un po’ migliore, che non rischi di star fuori dal terzo Mondiale. Al prossimo giro, tra due anni, le finaliste saranno 48, però l’Europa avrà soltanto tre posti in più. Gli azzurri erano arrivati tra gli ultimi a Euro 2024 e se ne vanno per primi, miracolati dai croati, malmenati dagli spagnoli, spaventati dagli albanesi e umiliati dagli svizzeri. La vera anomalia è stata la coppa di tre anni fa, non questa pena. Siamo scivolati ai margini del continente, figurarsi del pianeta. Non facciamo tre passaggi di fila.
Abbiamo un allenatore, forse non ancora un cittì, che dice «rosicchiare il metro», «ricomporre», «moralità», cambiando sempre modulo e giocatori per approdare, infine, alla formazione peggiore: forse è questo, il suo calcio liquido? O liquefatto? A un certo punto è apparso il fantasma di Ventura: sorrideva.
Ma non esiste molto di più. Non abbiamo diamanti gettati per errore nella spazzatura, Baggio o Totti lasciati a casa. C’è proprio poco, e qualcosa si è perso per strada tra infortuni e squalifiche. Il nostro regista di ieri, bravo ma acerbo, è un ragazzo che era fermo da 7 mesi per ludopatia. Senza il fenomenale Donnarumma sarebbero state due goleade su tre, e gli svizzeri li avremmo visti in tivù (forse, sarebbe stato meglio). Nemmeno per un minuto si è avuta l’illusione di esistere: una squadra di peluche, lenta, sgangherata, vittima di errori elementari e vuoti mentali che in campo hanno prodotto voragini. Zero qualità, zero ritmo, zero carattere: decidete voi cos’è peggio. Questo Europeo ci riporta molto indietro, del resto già avevamo ricominciato da zero dopo la fuga in Arabia del vecchio cittì, agosto 2023. Poi, poche partite e pochissimo tempo, anche se ci chiediamo come lo abbiano speso gli azzurri e il loro condottiero in questo mese e mezzo di ritiro: a girare spot a caccia di prosciutti o strappandosi il telecomando? Ora sì che dovranno litigarselo, seduti sul divano. Ma se Spalletti ha avuto poco tempo, ora usi un po’ meglio quello che ha davanti.
Tra le conseguenze inevitabili, anche la debolezza del presidente Gravina nel cammino che porterà al voto federale. A occhio, la classe dirigente del nostro calcio assomiglia a quanto produce.
sabato 29 giugno 2024
Minzionando
È da tanto che sto cogitando di preparare una piccola guida di bar alternativi per sfanculare gli orchi onnivori che si fanno chiamare autogrill. Ad esempio al mattino io e un mio collega quando capita s’esce a Fornovo direzione Parma per andare a far colazione in un tranquillo bar che ti propone briosche e non agglomerati di plastiche cotte pure male come ti propinano in quelle caverne dell’assurdo, dove se la mangi al pistacchio - come caxxo si fa a mangiarla al pistacchio! - la brioche costa meno di quella al cioccolato o ai frutti di bosco! E se vuoi il caffè macchiato paghi un’addizionale manco fossimo in Antartide! Ho anche un’altra idea: preparare delle magliette con su scritto “faccio minzione e da voi non compro una pippa!”
Sui Rimba e i Balordi
Il re è rinco
di Marco Travaglio
A un certo punto del raccapricciante faccia a faccia dell’altra notte, si è avuta la netta sensazione che, se Trump avesse chiesto a bruciapelo a Biden “come ti chiami?”, il Capo del Mondo Libero non avrebbe saputo rispondere. Ma, per tutti i 90 minuti del derby fra il mascalzone esagitato e il mascalzone rintronato, le domande che galleggiavano sul capoccione phonato del primo e su quello incollato del secondo erano altre. Come ha potuto la Culla della Democrazia ridursi a una scelta tanto imbarazzante? Chi sta guidando davvero gli Usa e l’Occidente verso la terza guerra mondiale? Per quanto tempo ancora i dem americani e i commentatori internazionali al seguito pensavano di poter negare ciò che il mondo intero vede a occhio nudo da anni sullo stato pietoso in cui versa il “commander in chief”? Solo pochi giorni fa Repubblica spacciava una doverosa inchiesta del WSJ sulla salute mentale di Biden per un “attacco dei repubblicani”. E Domani spiegava che il presidente Usa sta una favola, ma i “trucchi” e le “fake news a basso costo” della “campagna di Trump vogliono farlo apparire confuso, lavorando su inquadrature e tagli per trasmettere un’idea falsata”. Certo, come no.
Poi l’altra sera, come nella fiaba del re nudo ma senza bisogno del bambino, tutto il pianeta ha visto Rimbambiden al naturale: saltava di palo in frasca, biascicava frasi incomprensibili (poveri interpreti), infilava il prezzo dell’insulina nella risposta sull’Ucraina e i chip coreani in quella sull’età, vantava come un trionfo l’invereconda fuga da Kabul, ripeteva che Putin vuole invadere la Polonia e poi l’intera Europa, cose così. E non di fronte a un campione di dialettica, ma a un odioso e rozzo bullaccio che ficca i migranti e i veterani dappertutto, spara (anche lui) cifre a casaccio e mente (anche lui) a ogni respiro. Al confronto, il peggior politico italiano pare Churchill. Biden s’è distrutto da solo, con scene pietose che ricordano il tramonto dell’altro impero, quello sovietico, plasticamente incarnato dal corpo mummificato e surgelato di Breznev issato sulla balconata del Cremlino per mostrarsi ancora vivo con meccanici scatti del braccio. Eppure, fino all’altroieri, chi osava dire che l’Occidente è in mano a un rinco era un nemico della democrazia e un servo di Trump, oltreché di Putin. E i nemici delle “post-verità” trumpiane accreditavano quella bideniana per “non fare il gioco” di The Donald, senza accorgersi di lavorare proprio per lui. Perché, a quattro mesi dal voto, è difficile cambiare cavallo in corsa. E perché la reputazione della “democrazia” americana, diretta per finta da Rimbambiden e per davvero da una cricca di fantasmi mai eletti che gli fan dire e fare ciò che vogliono, è irrimediabilmente compromessa.
Che ricordi!
Nell’albero caverna lo spirito del bosco L’estate nel Casentino in fuga dal rumore
di Gabriele Romagnoli
Confesso: non ho mai viaggiato per cercare un luogo dell’anima, una vibrazione spirituale, la pace interiore. Mi sono sempre affidato al fatalismo: se è destino, mi verrà incontro. Infatti: quando sono arrivato a Sedona, in Arizona, ho sentito scariche di energia prima che mi parlassero dei vortici; a Dharamshala, in India, camminando all’alba, ho inspiegabilmente sorriso, come tutti, a tutti; poi c’è stato il Casentino. Non ho scelto io di andarci, mi ci hanno portato perché «potrebbe essere il posto che cerchi». Invece, è quello che mi ha trovato.
Tutto quel che ne sapevo era la posizione geografica (una vallata in provincia di Arezzo), l’esistenza di un parco forestale e quella di un omonimo panno per giacche e cappotti che sembra aver prodotto i pallini ma è così dall’inizio e tiene assai caldo. Poi sono arrivato.
Ora pretendiamo di vedere con l’occhio del drone: guardare le cose dall’alto, delimitarne i perimetri, mapparne i sentieri. Viviamo sul pianeta Google Earth. Siamo convinti che essere nella foresta impedisca di comprenderla. Dentro il parco casentinese non c’è limite, né geometria. Il mare lo capisci immergendoti, il bosco altrettanto. È sui singoli alberi che devi concentrarti. Sul castagno Miraglia, per esempio. In una visione che rifugge dall’orientamento sta simbolicamente al centro del Casentino. Alto 22 metri, quasi 9 di circonferenza, un’età valutata fra i tre e i cinque secoli, prende il nome da una donna di fine Ottocento, Elena Miraglia, moglie dell’allora direttore generale del ministero dell’Agricoltura. Poiché l’albero ha una grande cavità, lei ci aveva “fatto tana”, messo un tavolino e una sedia, per leggere, scrivere o pensare. Un’immagine disneyana, o da Panella-Battisti: la donna nel tronco, i rami le sue braccia. Che cosa vedeva? Altri alberi, non la foresta. E li vedeva cambiare. Bisogna potersi ri-accorgere delle stagioni. Il tempo deve passare lasciando una traccia, ma promettendo di venirti a ricercare. L’impermanenza delle cose e degli esseri viventi è un loro aspetto fondamentale, una suprema qualità. Non c’è tristezza in un albero spoglio in autunno: è, era, sarà. Ogni nuova fioritura è una resurrezione laica e possibile. Qui più che altrove, perché raramente inquinata dall’umano, dal suo passo affrettato, dal suo armamentario di collegamento. Qui esiste ancora la nebbia (ricordi?). Il Casentino è ideale per imparare a essere soli ed essenziali; ma anche generosi e decisi. L’esempio è tutto. Vale allora la pena salire fino a Quota.
Qui avvenne un eccidio nel luglio del ’44. Dopo la mediazione di un professore e di una maestra i nazifascisti ridussero da 15 a 5 gli uomini da fucilare, a distanza di 5 minuti uno dall’altro. L’ultimo doveva essere Emilio Spinelli, padre di 6 figli. Raccontano che si fece avanti suo fratello Amedeo, scapolo. Andò dal comandante tedesco e chiese di prendere il posto del fratello. L’ufficiale assentì. Amedeo abbracciò Emilio, gli consegnò il portafoglio, si spostò e fu trapassato dai proiettili. Poteva ritenere inevitabile quel che stava succedendo. P oteva giurarsi di prendere in carico la famiglia del fratello. Fece la scelta più semplice, la più difficile. Poi, a tutti i salvati spetta il dovere di condurre una vita degna e, se possibile, evitare un’altra guerra, altre lapidi. Nel cuore di Poppi, delizioso paese sovrastato da un castello medievale, un negozio espone invece questa scritta-memento: “Qui è stato girato Il ciclone ”, film di Leonardo Pieraccioni, eroe di un altro tempo, a cui il fratello implorava: “Tumulami”. Eppur rileva, nel nostro presente: è un link, un riferimento. Ha l’importanza di una recensione positiva, “è piaciuto anche a…” e in questa terra, puoi aggiungere nomi illustri: a cominciare da san Francesco, poi de Gasperi, papa Giovanni Paolo II, il beato Carlo Acutis (futuro santo millennial), Vittorio Gassman.
Dalla cima del Pratomagno, a 1.592 metri, la grande croce in ferro alta 19 (Eiffel in fase mistica) domina la vallata e benedice tutti. Capita di svegliarsi per il verso notturno di animali alla porta, poi disentire all’alba commenti del tipo: «Ma quelle mucche?». Risposta dei locali: «Sono cervi in amore. Bramiscono». E non significa che desiderino, abbiano brame. O forse sì. Si brama l’afflato, il contagio spirituale, tra il santuario della Verna e l’eremo di Camaldoli.
Un momento chiave è quello del pasto in convento. Lo conosco quel brivido inseguito dal borghese cittadino. Quand’ero ragazzo tra i lavoretti che ho fatto per mantenermi agli studi c’è stata la mansione di guardarobiere alla mensa dei poveri, nelle sere in cui a cenare venivano, per beneficenza, gli iscritti a circoli esclusivi. La cucina era la stessa, i tavoloni anche, il menù all’incirca. Non mancava mai pasta e ceci, o fagioli (qui: acquacotta, tortelli alla lastra, due fette di raviggiolo e un bicchiere di pinot nero). Prima di accomodarsi signori e signore depositavano i soprabiti. Spesso, in quell’epoca pre-ecologista, elaborate pellicce. Ricordo il muso di una volpe, incastonato a centro schiena, osservarmi mentre l’appendevo. L’avrei rivista nelle foreste del Casentino, molti anni dopo. Memore di un racconto Paul Auster (in cui riappare una moneta) ho pensato fosse la stessa: viva e libera. L’ho pensato, non l’ho creduto.
La fede l’hanno i fratini che ringraziano tutte e tutti. I commensali qui sono più mimetici: indossano sandali o scarponcini, camicie a quadri, maglioni di lana grossa, qualcuno si tradisce con uno sfavillante giaccone di panno. Doveva pur farlo, un intervallo di shopping. Anche l’ironia ha il suo tramonto. Taci, quando si fa sera. Pure i cervi ammutoliscono, perfino l’amore si ritira, oscurato dal puro sentimento d’essere stati, essere ancora, vivi. Ed è merito del bosco, se trascuri il resto del mondo, se senti tutto senza vedere niente.
Il punto di non ritorno da questo viaggio è che bisogna pur scegliere un luogo definitivo per dissolversi nell’universo e questo è il mio.
L'Amaca
Il duello più triste del mondo
DI MICHELE SERRA
Non è da ieri, nemmeno dall’altro ieri che mezzo mondo manifesta grande preoccupazione, e scoramento, per la ricandidatura di Joe Biden, che ha 81 anni ma ne dimostra parecchi di più. Lo scontro elettorale dell’altra notte ha solo reso ufficiale ciò che da tempo è sotto gli occhi di tutti.
Ho letto tutti i possibili articoli e interventi e analisi, nell’ultimo paio d’anni, per capire come sia possibile che niente e nessuno riesca a evitare che mezza America sia costretta a votare per un signore degnissimo, ma ormai fuori uso.
Non ho trovato risposte all’altezza della domanda, nel senso che qualunque risposta “tecnica”, o formale (tipo: se non si ritira lui, non c’è niente da fare) è comunque un invito ad allargare le braccia, come se “la più grande democrazia del mondo” fosse inchiodata a un destino che nemmeno la più piccola democrazia del mondo accetterebbe per se stessa: affidare il proprio futuro al duello tra un demagogo mentitore, che sta alla democrazia come un bazooka sta a una scuola elementare, e un anziano poco lucido e poco energico.
Che cosa contano, al di là della retorica, i rispettivi partitoni, attori molto teorici del bipolarismo e della celebre democrazia americana? Che ne è dell’aura dinamica e scintillante che avvolge da due secoli quel Paese, è stata data in esclusiva a Wall Street e agli ex giovani miliardari di Silicon Valley? Ditemi, stando alla storia recente delle democrazie, uno scontro elettorale più mortificante, più inverosimile, più triste di quello che si prepara in novembre negli Stati Uniti. E ditemi se non è un sintomo, forse il più clamoroso, del collasso dell’assetto mondiale nel quale siamo cresciuti.
venerdì 28 giugno 2024
Che se fanno?
Amici, si fa per dire, destrorsi riuniti sotto l'ala protettrice di Giorgia!
Dai siamo seri! Ma che ve ne fate di un simbolo della cultura? Dai non scherziamo!
Vorreste organizzarvi qualche torneo internazionali di rutti con il sommo vate della divisione italica Calderoli? O per spiegare che Dante era di destra? Per fare un piacere all'immenso ministro della Cultura, che premia i libri prima di averli letti e che geograficamente e storicamente non è proprio una cima?
E il figliolo di colui che per alcuni è presidente del senato che ci azzecca?
Lo so, lo fate solo per saziare la vostra smania di possedere tutto, anche simboli come il Piccolo da cui siete distanti più che Donzelli dal ragionamento.
Avete pensato, Lollo escluso che ne è esentato, che far cultura potrebbe portare qualcuno, molti mi pare azzardato, ad abbracciare le vostre idee, o quelle dei giovani ciancianti il crapone inetto, il nero che perde sempre, le braccia tese, la X del cretino ora in Belgio.
Amici, si fa per dire, è tipico dei muridi che escono dalle loro anguste tane per scorrazzare nel salone vuoto per le vacanze dei padroni di casa, quella di credersi arrivati e capaci di infondere cultura. Peccato però che la cultura di destra abbia proprietà che non si addicono per niente ad un movimento culturale: il ricordo di sterminatori, la violenza come modo per diffondere, l'inconsistenza filosofica e la desertificazione del costrutto. Insomma dateci retta: cercatevi delle giostre!
Boom!
Assange e le nomine Ue: i soliti sudditi degli Usa
DI ELENA BASILE
Un giornalista perseguitato per 14 anni dalla Cia (che ha obbligato il governo democratico della Svezia a emettere false accuse su improbabili stupri) ne ha trascorsi sette in reclusione nell’ambasciata dell’Ecuador, l’ultimo dei quali sotto costante pressione, spiato anche nella toilette, e altri cinque nel carcere di Belmarsh riservato ai più pericolosi terroristi, torturato con un accanimento senza precedenti ad avviso della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite. Ora è stato rilasciato grazie a un accordo che lo obbliga a dichiararsi colpevole per una delle accuse di spionaggio e meritevole di 5 anni di reclusione in virtù dei calcoli elettorali di Biden e grazie alle pressioni dei democratici australiani e del governo di Canberra. I giornali del democratico Occidente, che quando Julian Assange rischiava di morire in prigione raramente ne parlavano e non in prima pagina, ora celebrano la liberazione come riprova che le democrazie liberali sono diverse dalle autocrazie cinese e russa.
L’ex direttore dell’Economist Bill Emmott si spinge a riconoscere in Assange un giornalista coraggioso, ma imprudente, che con le sue rivelazioni, pur denunciando crimini di guerra statunitensi, avrebbe messo a repentaglio la vita di militari e informatori. Accusa ripetuta, mai provata e senza fondamento. Emmott ha la faccia tosta di affermare che Assange doveva fidarsi della democrazia statunitense e affrontare il processo negli Usa. Un pennivendolo innominabile del Corriere della Sera si diverte in paragoni calcistici tra Assange e un altro “pazzo” che ha svelato non so quali intrallazzi del mondo del calcio. Capisco che costoro si guarderebbero bene dal rischiare la vita, la detenzione, la tortura, per sfidare il potere e denunciarne i misfatti, ma che almeno tacessero pieni di vergogna davanti a un uomo di un’altra tempra, un idealista, un folle che ha inseguito un sogno: la trasparenza nelle democrazie liberali occidentali.
Assange ha dovuto piegarsi. Il Primo Emendamento della Costituzione americana che sancisce la libertà di parola e di stampa ha subito un’aggressione senza precedenti nell’indifferenza dei nostri editorialisti e politici. Daniel Ellseberg, la gola profonda dei Pentagon Papers, oggi farebbe la fine di Assange. Siamo tutti felici per Julian e per la sua famiglia. Vederlo al sicuro dopo tanti anni strazianti è una delle poche cose che, in questi tempi bui di massacri impuniti e legittimati, ci permette di sentire il tepore del bene.
Sembra impossibile, passando ad altro argomento, che in un momento cruciale delle relazioni internazionali, personaggi come Ursula von der Leyen e l’estone Kaja Kallas si accingano a guidare l’Europa nei prossimi anni. Non sono che marionette al servizio della Cia e dei servizi segreti europei. Ma fa impressione che si rinunci, ora che le lancette dell’orologio dell’Apocalisse sono distanti solo 90 secondi dalla mezzanotte, allo spessore politico-diplomatico e alla visione strategica. Povera Europa! Secondo qualche editorialista, questa classe dirigente, i Macron e gli Scholz che hanno tradito gli interessi dei popoli europei a vantaggio di quelli statunitensi, dovrebbero essere il “baluardo contro le destre”. Prepareranno invece il terreno alla vittoria del lepenismo e di Alleanza per la Germania che, dopo aver capitalizzato il consenso dell’opposizione, si adatteranno una volta al potere agli ordini delle superiori oligarchie.
Le verità capovolte sgomentano. I filoamericani hanno tutto da guadagnare dall’impero in cui viviamo: carriere, prebende, incarichi, le carezze del potere. I cosiddetti filoputiniani sopportano di esser messi alla gogna, rinunciano a incarichi e soldi, non guadagnano nulla dalla Russia. Eppure i primi giudicano e linciano mediaticamente i secondi. Allo stesso modo due criminali di guerra, Bush e Blair, che hanno mentito pubblicamente e causato almeno mezzo milione di morti in Iraq, continuano a partecipare a master e conferenze, ricchi e onorati, mentre l’uomo che ha svelato i loro crimini è perseguitato nel cuore dell’Europa. Credete che i politici del Ppe o del Pd, tipo il ministro Tajani e il commissario Gentiloni, riconoscano questa anomalia? Lo spero per le loro coscienze.
Finiamo con un sorriso. La rassegna stampa del ministero degli Esteri che censura Spinelli, Travaglio, Mearsheimer, Sachs e altri riportando solo il catechismo Nato, è considerata top secret alla Farnesina. Terribili ukase colpiscono giovani diplomatici che abbiano l’ardire di inviarla per email a un parente, a un amico, persino a un collega in pensione. Sono tutti terrorizzati. A questo si dedica la Segreteria generale diretta da Riccardo Guariglia, diplomatico del mio concorso, che ricordo mite, giovane silenzioso, pronto a obbedire.
A proposito di voti
Ex voto
di Marco Travaglio
L’ideona anti-astensionismo di La Russa – abolire i ballottaggi alle Comunali quando un candidato supera il 40% – contiene una notizia bella e due brutte. La bella: la seconda carica dello Stato ha scoperto l’astensionismo. Le brutte: lo scopre solo ora che le destre han perso quasi tutti i ballottaggi col 52,3% di astenuti, ma non ci aveva fatto caso alle Europee col 50,3% di astenuti; il ballottaggio non c’entra nulla con l’astensionismo e abolirlo non farebbe aumentare i votanti al primo turno, che anzi diventerebbe un ballottaggio anticipato perché costringerebbe partiti molto diversi a coalizzarsi (e dunque a snaturarsi) per raggiungere il 40%. Nel primo round gli elettori sono più numerosi perché possono scegliere, fra molti candidati, il proprio o il più vicino; nel secondo, il derby fra i due più votati esclude chi proprio non ce la fa a votare il meno lontano, anche perché nel finto bipolarismo italiota non riesce a trovarlo. Se davvero La Russa, Meloni&C. volessero combattere l’astensionismo, non dovrebbero cambiare le leggi (a parte quella elettorale, e non per aumentare il premio di maggioranza che scoraggia gli elettori, bensì per tornare al proporzionale con preferenza unica), ma i comportamenti. Evitando di tradire le promesse agli elettori e quindi di prendere impegni impossibili da mantenere. Blocco navale, anzi raddoppio degli sbarchi. Tassa sugli extraprofitti, anzi no. Basta accise, anzi no. Basta Fornero, anzi no. Basta amichettismi, anzi pure cognatismi e sorellismi. Basta austerità in Ue, anzi no. Basta trivelle, anzi no. Presidenzialismo, anzi premierato. Abolire le Regioni, anzi Autonomia. Mai ostacoli ai pm, anzi sì. No alla vendita di Ita ai tedeschi, anzi sì. No alla privatizzazione di Poste, anzi sì. Mai in Ue coi socialisti, anzi sì a von der Leyen coi socialisti. È finita la pacchia per l’Europa, anzi è finita per noi.
Ormai gli elettori votano per la novità del momento e non c’è nulla di più frustrante di un leader che promette di cambiare le cose e poi, giunto al potere, lascia che siano le cose a cambiare lui. È accaduto alle due meteore del decennio, Matteo 1 e Matteo 2, precipitate dagli altari alla polvere in un paio d’anni. E rischia di riaccadere a Giorgia ed Elly, le due novità delle Politiche e delle Europee. La prima si snatura da due anni per farsi accettare dall’establishment nazionale e internazionale, ma sta scoprendo in queste ore che lorsignori vogliono la resa, se non l’harakiri. La seconda fu eletta segretaria del Pd per cacciarne i cacicchi e i capibastone, ma ora vince proprio grazie a loro e, passata la moda, gli elettori si domanderanno dove stia il “nuovo Pd”. E che senso abbia votare se l’unico cambiamento possibile è quello dei leader che promettevano il cambiamento.
L'Amaca
DI MICHELE SERRA
C’è un nesso tra il recupero di tonnellate di rifiuti umani sull’Himalaya (lo scioglimento dei ghiacci lo consente e anzi lo suggerisce) e la rimozione di un paio di cacche di turisti sulla scalinata che porta alla Cupola del Brunelleschi? Sì, c’è un nesso: perfino tecnico, perché in entrambi i casi si tratta di ascensioni, e in entrambi i casi gli escrementi umani fanno parte del lascito del turismo di massa. Troppa gente, e inevitabilmente anche gente impreparata, tra gli aspiranti alla vetta.
Risalgono ai lontani anni Ottanta del Novecento le prime denunce degli esiti della “turistizzazione” dell’Everest.
Centinaia di spedizioni di centinaia di persone ognuna, dunque le deiezioni di decine di migliaia di persone. Bombole del gas, tende, vestiti, plastica, carta, scarti alimentari, defecazioni destinate all’apparente immortalità dei ghiacci.
E cadaveri, cinque quelli recuperati ultimamente, centinaia quelli che il ritiro dei ghiacciai potrebbe restituire, come militi ignoti dell’avventura nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
L’idea che tutti possano fare tutto, e andare ovunque, è democratica, non c’è dubbio. Ma si scontra contro il limite oggettivo della nostra brulicante presenza: ci sono luoghi e situazioni che non reggono l’urto delle masse. Firenze e Venezia sono una specie di prova del nove di questa incompatibilità (che non è ideologica, è oggettiva) tra il singolo luogo e il numero dei visitatori che lo affollano, e spesso lo offendono. Ognuno di noi ha un ingombro. Viene da invocare il numero chiuso (anche sull’Everest). Se ci sono alternative, bisogna trovarle in fretta.
Risalgono ai lontani anni Ottanta del Novecento le prime denunce degli esiti della “turistizzazione” dell’Everest.
Centinaia di spedizioni di centinaia di persone ognuna, dunque le deiezioni di decine di migliaia di persone. Bombole del gas, tende, vestiti, plastica, carta, scarti alimentari, defecazioni destinate all’apparente immortalità dei ghiacci.
E cadaveri, cinque quelli recuperati ultimamente, centinaia quelli che il ritiro dei ghiacciai potrebbe restituire, come militi ignoti dell’avventura nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
L’idea che tutti possano fare tutto, e andare ovunque, è democratica, non c’è dubbio. Ma si scontra contro il limite oggettivo della nostra brulicante presenza: ci sono luoghi e situazioni che non reggono l’urto delle masse. Firenze e Venezia sono una specie di prova del nove di questa incompatibilità (che non è ideologica, è oggettiva) tra il singolo luogo e il numero dei visitatori che lo affollano, e spesso lo offendono. Ognuno di noi ha un ingombro. Viene da invocare il numero chiuso (anche sull’Everest). Se ci sono alternative, bisogna trovarle in fretta.
giovedì 27 giugno 2024
Pace nera
Vicinanza
Pino l'Osservatore
“Ehi, rega’, alzatevi pure voi!”: i secondi più lunghi di Salvini
DI PINO CORRIAS
Tutto si svela nell’anatomia di un istante. Non c’è neanche bisogno dello psichiatra per analizzare la faccia, i gesti e la postura di Matteo Salvini inquadrato lungo quei cinquanta secondi in cui Giorgia – la sua mai digerita capitana d’avventura – rende omaggio a Satnam Singh, l’indiano morto per amputazione di tutti i suoi diritti e per il dissanguamento del braccio reciso e buttato nella cassetta della frutta, lasciato accanto al corpo abbandonato come si fa con la spazzatura.
Meloni sta dicendo in Aula: “Approfitto di questo passaggio per ricordare l’orribile e disumana morte di Santan Singh, 31 anni, il bracciante che veniva dall’India…”. Accanto a lei si vede Salvini con lo sguardo infossato nel buio della sua stessa ombra che a braccia conserte resta immobile, colto di sorpresa da una compassione che non gli risulta e meno che mai lo riguarda.
Meloni: “Per il modo atroce in cui quella morte è avvenuta…” Trapela dalla lontananza dell’aula, fuori dall’inquadratura, un piccolo applauso che sale. Salvini serra le mandibole e le orecchie.
Meloni: “Per l’atteggiamento schifoso del suo datore di lavoro…”. Si rafforza l’applauso. Il mite Tajani, l’altro cartonato che sta seduto alla destra di Meloni, muove appena le mani accennando anche lui l’applauso.
Meloni getta un’occhiata al Salvini immobile seduto alla sua sinistra, e intanto dice: “È l’Italia peggiore…”. Salvini inspira, restando nascosto dentro al suo marmo identitario, sperando di non essere visto, come i bimbi quando chiudono gli occhi per non essere scoperti. Meloni lo perlustra dal Nord dei piedi al Sud della testa per un lungo istante. La sua è un’occhiata scheggiata di disprezzo che si posa e si allontana. Tossisce. Si volta. Stringe gli occhi. Sta pensando che mentre Tajani ubbidisce, il Salvini truce non si muove, non ha intenzione di assecondare l’inserto umanitario.
Meloni tossisce di nuovo, mentre l’applauso sale. E nel preciso istante in cui si muove sembrando a tutti che stia per applaudire anche lei, l’erbivoro Salvini prende vita, muove la mano sinistra in viaggio verso la destra, credendo di assecondare Meloni che invece non applaude, ma si sta allungando verso il bicchiere. In sottofondo i deputati si stanno alzando tutti in piedi.
Meloni respira l’intera pausa, accoglie l’omaggio, lo impone ai suoi due sottoposti soffiando l’ordine appena bisbigliato a renderlo obbligatorio: “Ehi, rega’, alzatevi pure voi!”. Tajani lestamente ubbidisce. Anzi fa di più, dice piano a Giorgia: “Ho fatto chiedere i visti per la famiglia”. Lei non capisce: “Cosa?”. Lui le si avvicina con zelo: “Ho fatto chiedere agli uffici il visto per la famiglia”. E Giorgia, come fosse il suo scolaro, lo premia con un “Ah, sì, bravo”. Salvini invece ancora niente. Si rinserra nelle spalle, rigira due occhiate a spazzare di nuovo il pavimento per l’insofferenza malamente repressa. Ma davvero deve alzarsi anche lui? Il capo dei popoli padani, il ganzo del Papeete? Il plurimo ministro plenipotenziario del Ponte sullo Stretto e dell’Autonomia differenziata che lo allargherà del doppio?
Salvini fa passare altri secondi di insubordinazione e finalmente – mentre tutte le trombe della Lega gli soffiano dentro la testa, sventolano i bandieroni di Pontida, si alzano in volo le corna e gli spadoni delle feste, i rosari e i crocefissi dei comizi, galleggiano tra le onde i migranti sui barconi e dondolano alla deriva le navi delle odiate Ong, con uomini, donne, bambini a scoppiare di sete e di caldo mentre lui contabilizza i voti guadagnati, al diavolo i 49 milioni di debiti da pagare in 70 rate nei prossimi 70 anni – ecco che finalmente si alza, sale in superficie, finge di tossire per riunire le mani davanti alla bocca e sempre guardando il pavimento, scocciatissimo, con le mani che appena si toccano, concede anche lui lo stentato omaggio dell’applauso al negro.
Colleghi anomali
Fate schifo
di Marco Travaglio
E niente, non ce la fanno proprio i cosiddetti “giornalisti” italiani a rendere omaggio a Julian Assange, il collega (senza offesa per lui) che ha nobilitato la professione mentre loro la sputtanavano a suon di veline, marchette e autobavagli. Non ce la fanno a scandalizzarsi perché Usa e Uk, celebri culle della democrazia, l’hanno costretto a vivere per 12 anni da sepolto vivo prima nell’ambasciata ecuadoregna e poi in una cella d’isolamento senza uno straccio di processo. Non ce la fanno a dire che il presunto Impero del Bene ha trasformato un attivista pieno di entusiasmo, di valori e di coraggio in una larva umana con 12 anni di accuse false (persino di stupro), persecuzioni politiche, torture psicologiche e progetti di “ucciderlo con un drone” (brillante idea di Hillary Clinton), fino a estorcergli in cambio della vita una confessione e un patteggiamento per un delitto inesistente, che per le Convenzioni internazionali è una medaglia da Pulitzer: svelare notizie vere e documenti autentici sui segreti e sui crimini del potere.
La stampa mondiale esulta perché Julian è finalmente libero e si allarma per il pericoloso precedente del patteggiamento, che espone ad arresti e condanne chiunque faccia il giornalista sul serio e dissuaderà chiunque altro dall’imitarlo. Intanto la nostra stampa serva schiera i suoi migliori crani embedded, tutta gente che non ha mai trovato una notizia vera in vita sua. Repubblica, che ha campato per anni su Wikileaks, deplora “l’enorme clamore mediatico e dei fan di Assange” per un fatterello del genere. E s’interroga pensosa: “Eroe? Criminale? Martire della libertà? Giornalista? Agente al soldo altrui?”. Meglio non pronunciarsi. In compenso Chelsie Manning, l’ex analista militare, attivista e whistleblower che gli fornì un bel po’ di carte, è “un ladro”. Per il Giornale anche Assange è “un ladro di segreti di Stato”, altro che “paladino della libertà”: uno “spione” con la “pancetta da abbrutito” (vedi a non fare palestra? Poi non passi la prova costume). Per la Stampa è un “personaggio controverso” che ha “favorito Trump e autocrati”, un “hacker” forse “putiniano”. Sul Foglio, la vera spia (della Cia) Giuliano Ferrara raccomanda: “Niente monumenti per Assange, colpevole e libero” che in fondo, dopo essersela cercata, “se l’è cavata” (restare chiusi come sorci per 7 anni in una stanza e per 5 in una cella d’isolamento è una passeggiata di salute). Anzi dovrebbe ringraziare i suoi persecutori: “I nemici degli Usa non muoiono in cella” (Libero), “Julian è libero, Navalny è morto. È la differenza fra democrazia e dittatura…” (Dubbio). Infatti la democrazia è quel paradiso che arresta chi dice la verità, ma poi non lo ammazza, o lo libera un attimo prima che crepi. E sono belle soddisfazioni.
L'Amaca
Se Meloni volesse diventare europea
DI MICHELE SERRA
Meloni si trova di fronte il muro di gomma di un’Europa che diffida dei sovranisti, e per giunta ha ampiamente i numeri per farne a meno. Essendo il nazionalismo il nemico numero uno dell’Unione Europea, e viceversa, credo che Meloni sia perfettamente in grado di cogliere che non si tratta di un pregiudizio, e tantomeno della voglia di “delegittimare” un voto che, in ogni modo, vede l’estrema destra rimanere una robusta minoranza. Si tratterebbe, banalmente e nello stesso tempo brutalmente, di fare per davvero i conti con la propria storia: che è quella del neofascismo, strutturalmente nemico dell’unità europea e della democrazia.
Se sono abbastanza ridicole le ingiunzioni a dichiararsi antifascista (non lo è, non lo sarà mai), sono invece logiche, e perfino disinteressate, le richieste di entrare nel gioco europeo con la chiarezza necessaria: dirsi parte della destra “conservatrice”, e prendere le distanze dal profondo nero nel quale sguazza il Salvini, non è tattica, è strategia, e impone di pagare un prezzo vero e doloroso, perlomeno una seconda Fiuggi, ingentilita dai comfort del governo ma resa ben più ardua dalla presenza del nugolo di fascistoni di ogni età che le fa corona, nonché dalla sua stessa storia personale. Se non a noi, che non siamo degni di confidenza: lo dica ai suoi, che il fascismo in Europa è pura morchia. E chieda una consulenza a Gianfranco Fini, storicamente l’unico neofascista che abbia fatto seriamente i conti con quella sanguinaria buffonata. Metta in conto di perdere un bel po’ di voti (i fascisti, in Italia, sono tanti) ma di guadagnare, infine, una presentabilità non di facciata, ma vera. Se non lo farà mai, non si dica che “non può farlo”. Si dica che non vuole farlo.
E allora, però, la smetta di lagnarsi dell’Europa, che altro non può se non difendere i suoi principi.
mercoledì 26 giugno 2024
Click!
Circola un video della commemorazione di oggi in parlamento del povero Satnam, assassinato dal degrado culturale di questo paese meschino in mano a meschini: la premier ad un certo punto riferendosi alla sua destra al Cameriere di un trapassato pregiudicato, prestato pure quattro giorni per la colazione in carcere alla bella persona dell’avv Previti, e alla sinistra a tutto quanto fa avanspettacolo, con caciottaro accento gli dice “Raga’ alzateve pure voi” che tradotto dallo zoticone sta a significare “diamo una parvenza che ce ne freghi qualcosa!’
Una perfetta foto della nostra attuale condizione.
Ragione piena Roy!
Aveva proprio ragione Roy Batty:
«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi:
navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione,
e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.
E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo,
come lacrime nella pioggia.
È tempo di morire.»
Robecchi
Latina, Alabama. Lavoro e schiavisti con l’eterno ritorno di “Via col vento”
di Alessandro Robecchi
Per ora nella piccola grande Alabama che è la zona agricola di Latina e dintorni si sta girando Via col vento, ma senza la parte romantica. Rossella O’Hara non compare, compaiono solo gli schiavi e gli schiavisti, e anzi compaiono solo gli schiavisti, perché gli schiavi hanno paura a farsi vedere e a meno che non lo facciano insieme, come nelle manifestazioni di questi giorni, restano invisibili.
Si è detto molto, e molte cose giuste e ragionevoli, sulla terribile morte di Satnam Singh, condannato al dissanguamento dal padrone bianco (restiamo in Alabama) che l’ha scaricato come un cane invece di portarlo all’ospedale. E si sono lette anche cose irricevibili, in generale pronunciate a destra, ma non solo: alla fine è colpa dei clandestini (sottotesto: se stavano a casa loro…), oppure della filiera agricola (volete pagare la frutta pochi euro?); o ancora del racket degli schiavi, gestito da stranieri, che costringe i poveri imprenditori italiani – che sarebbero così buoni e compassionevoli, metterebbero in regola tutti, rispetterebbero diritti e regole a costo di sacrificare parte dei profitti – ad accettare a malincuore lo sfruttamento dei lavoratori. Una barzelletta coloniale, insomma: addossare agli schiavi la responsabilità della schiavitù è un classico dai tempi delle potenze europee in Africa, o dei latifondisti del cotone in Mississippi. Aggiungerei all’elenco il ministro dell’Agricoltura, il cognato d’Italia, che ammonisce di “non criminalizzare gli imprenditori”: Rossella O’Hara può dormire tranquilla, nessuno ha intenzione di abolire la schiavitù.
Si assiste insomma a una manovra concentrica che colpevolizza tutti tranne i colpevoli. Un po’ è colpa degli schiavi, se sono schiavi, e un po’ è colpa nostra, che andiamo al supermercato e compriamo le mele, o le arance, o i meloni, pagandoli poco. Bon, chiuso, finito. Si poserà la polvere e si passerà ad altro, esattamente come cinque anni fa, quando l’azienda di Renzo Lovato (il padre di Antonello, quello che ha scaricato Satnam ferito senza soccorrerlo) fu indagata per caporalato, poi beghe rinvii, pasticci giudiziari, rallentamenti, e niente, l’azienda sta ancora lì, il caporalato sta ancora lì, gli schiavi stanno ancora lì.
A questo punto, il desiderio, ma direi il bisogno democratico, sarebbe che si passasse da Via col vento a Mississippi Burning, il film di Alan Parker (1988), dove davanti a una comunità schiavista, razzista e suprematista vengono inviati squadroni di agenti dell’Fbi che rivoltano le campagne come un calzino, riportando dignità e giustizia. Spoiler: non accadrà. E anzi, mi scuso della ripetizione, perché questo sogno un po’ naïf che arrivi Gene Hackman con i suoi uomini a fare giustizia, l’avevo già scritto. Per la precisione nel giugno del 2018, quando nella piana di Gioia Tauro era stato ucciso a fucilate Soumaila Sacko, lavoratore straniero che si impegnava per i diritti. Se cercate i giornali di allora, troverete le stesse cose, le stesse parole, le stesse furenti indignazioni. L’opinione pubblica italiana scopriva le baracche, le condizioni disumane, la schiavitù. Sono passati anni, governi, ministri, e siamo ancora lì, a Gioia Tauro, uguale, a Latina, uguale, a Via col vento. E questo non perché siamo distratti (anche), o cattivi (anche), ma perché è considerato conveniente un sistema che fa del profitto l’unica variabile indipendente – e tutto il resto viene dopo, compresa la vita e la dignità – un sistema che consente, anzi consiglia, benedice e protegge la schiavitù.
Bentornata!
Quindi ancora lei in tolda europea, la Teutonica molto burocrate per il regno della burocrazia che chiamiamo Europa, colei - e non è il caso di passare per il mitico Julian appena liberato per rinvangare tali sconcezze - colei che durante il Covid rifiutò l’idea dell’Appisolato Rimba che avrebbe voluto liberare i brevetti dei vaccini, fobico spettro del tanto amato, da lei, Pfizer. E ho anche la sua dichiarazione del tempo:
«Abbiamo bisogno di vaccini, ora. La deroga sulle proprietà intellettuali non risolverà il problema. Quello che serve è una condivisione dei vaccini, l’export di dosi e investimenti per incrementare la capacità produttiva ».
Dunque torna lei e la sua idea, chiamiamola così, di creare un esercito unito perché, dice lei, la pace si fa con le armi.
Bentornata guerrafondaia e naturalmente viva l’Europa!
Spettacolo letterario
Premio Bancarotta
di Marco Travaglio
Resuscitato nel simbolo e nei manifesti di FI e persino sulle schede di qualche elettore squilibrato, B. rivive anche con la riesumazione della Silvio Berlusconi Editore (SBE), ideata da Dell’Utri tra un summit di cosca e l’altro e poi confluita nella Mondadori, che riparte con un’opera di Tony Blair. Un gesto di gratitudine postuma verso il distruttore del laburismo, candidato di diritto al prossimo Premio Bancarotta. Chissà se il vecchio complice di Bush jr.&B. nella guerra criminale all’Iraq ricorderà, nella prefazione, il culmine della sua amicizia con Silvio: nell’agosto 2004 il premier inglese e la first lady furono accolti a Villa Certosa da B. con tanto di bandana per coprire i bulbi piliferi appena trapiantati sull’implume capino: “Tony – raccontò poi la moglie Cherie – mi disse: ‘Devi evitare che mi facciano delle foto vicino a Silvio con la bandana. Stai tu in mezzo, sennò la stampa britannica ci ammazza’”.
Le prefazioni della SBE sono più avvincenti dei libri. Soprattutto quella firmata dallo stesso B. a una preziosa edizione numerata dell’Utopia di Tommaso Moro. Un giorno del 1985 il massimo esperto italiano dell’autore, Luigi Firpo, vide su Canale 5 una signorina intervistare il padrone di casa: “Lei ha pubblicato la traduzione dal latino dell’Utopia con una sua bellissima prefazione…”. Di cui declamò alcun brani, casualmente identici a quelli scritti da Firpo per introdurre la sua traduzione all’Utopia, appena edita da Guida. L’austero intellettuale torinese – racconta la moglie Laura – si procurò il libro e scoprì che B. non aveva solo copiato interi paragrafi della sua prefazione, ma anche la sua traduzione integrale. Così gli scrisse per intimargli di ritirare tutte le copie e annunciargli querela per plagio. B., terrorizzato, iniziò a tempestarlo di telefonate, spiegando che aveva fatto tutto una segretaria a sua insaputa e implorandolo di lasciar perdere. Capito il personaggio, Firpo iniziò a giocare al gatto col topo per un annetto. Canale 5 lo invitò a un dibattito e B. spuntò da dietro le quinte dello studio porgendogli una busta “per il suo disturbo e l’onore che ci fa”. Il prof la rifiutò. A Natale del 1986 un corriere da Segrate recapitò a casa Firpo un bouquet di orchidee che non entrava dalla porta e un pacco con una valigetta in coccodrillo cifrata LF in oro e un biglietto: “Molti cordiali auguri ed a presto… Spero! Per carità non mi rovini!!! Silvio Berlusconi”. Ma Firpo continuò il suo perfido gioco e rispedì la borsa al mittente con un biglietto beffardo: “Gentile dottore, la ringrazio della sua generosità, ma sono un vecchio professore affezionato alla sua borsa sdrucita. Quanto ai fiori, la prego di non inviarcene più: per me e per mia moglie, i fiori tagliati sono organi sessuali recisi”. Non lo sentì mai più.
L'Amaca
Una sinistra da tempi di pace
DI MICHELE SERRA
I partiti della sinistra francese, da quella radicale a quella riformista a quella ecologista, sono divisi su molte questioni, ma in pochi giorni sono riusciti a mettere nero su bianco un programma elettorale nel quale perfino su Ucraina e Gaza, delicatissimi nodi, si è trovata una posizione comune. Forse ipocrita, e non troppo dettagliata. Però necessaria per presentarsi uniti agli elettori. Un compromesso è un compromesso, sempre: io faccio un passo indietro su questo, tu fai un passo indietro su quello.
Nessuno scandalo, dunque. Però, certo, colpisce il fatto che questo lodevole sforzo di unità abbia come sua ragione fondamentale — se non l’unica — l’emergenza politica, ormai annosa, di “fermare la destra”, che in Francia ha le sembianze, poco raccomandabili, del lepenismo. L’emergenza è evidente. Ma è mai possibile che la sinistra, anzi le sinistre, non solamente in Francia, diano la perenne impressione di mobilitarsi, e unirsi, solo quando la tempesta batte alla porta?
La sola eccezione (parziale) che mi viene in mente è quella dell’Ulivo. Per il resto, quando mai uno sforzo lontanamente simile a quello prodotto a Parigi in tempi da record, ha visto leader e vice-leader della sinistra spremersi le meningi per un programma comune che sia ispirato da buone idee e dalla volontà di portarle al governo, e non dalla paura che la destra conquisti il potere?
Sarebbe servito (servirebbe ancora) un lavoro sereno e tenace, da “tempi di pace”, che dia l’impressione che la sinistra esista per proporre le sue cose, con i suoi tempi e la sua agenda, non solo per fare argine e gridare “al lupo!”. Una sinistra di buon umore, non costantemente in allarme, quando riusciremo mai a rivederla e risentirla?
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