Solo un pezzo di palinsesto
DI MICHELE SERRA
Per piacere, basta con Filippo Turetta. Ne sappiamo quanto basta per capire come è andata, purtroppo. Un Paese intero è insorto contro quel delitto. Perché dunque, a caso chiuso, trasformare una ragazza e il suo assassino nei protagonisti di una serie noir ,dilungandosi (da settimane) sui dettagli macabri, sulla vita privata delle due famiglie (con tanto di indicazioni stradali: abitano qui!), su una cronologia della violenza che ha un evidente interesse per i vari periti e per chi dovrà giudicare, e che potrà magari fare la gioia dei patiti di questo genere di show, ma per noi è solamente un peso, un accanimento inutile, uno strascico sadico?
Che senso ha rivedere ogni trenta secondi le immagini di lei, che tutto avrebbe desiderato tranne diventare l’icona del martirio quotidiano di migliaia di donne? Non si usava dire, rispettosamente, “riposi in pace”? Forse che la morte violenta rende impossibile averne diritto, alla pace e al rispetto? E che senso ha tracciare una specie di mappa ossessiva dell’estradizione, degli interrogatori, dei colloqui di lui con genitori e avvocati, come per riempire le puntate che mancano al nuovo picco di ascolti, che sarà il processo?
Poi alla fine tutto diventa una specie di rito stravisto, strasentito e indistinto, l’inviato del tigì davanti al carcere o alla procura o a qualunque delle anonime facciate della burocrazia giudiziaria, che cuce qualche parola attorno al nulla purché il filo della trama, anche se è ormai esilissimo, rimanga integro. E si cambia canale, questo è il risultato: il delitto più simbolico e più doloroso dell’anno torna a essere un pezzo di palinsesto risaputo, identico agli altri.
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